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Libertà, Bellezza e Verità: Estetica come Bisogno Umano. Di Sergio Pampanini

Di Sergio Pampanini

Bisogno. In realtà quando parlo di bisogno non parlo di uno stato psicologico quanto di uno stato esistenziale. Detto brutalmente, Abbagnano mi perdonerà, io penso che l’uomo si definisce per la sua libertà. La libertà è mancanza di essere che aspira ad essere. In ogni attività dell’uomo c’è l’aspirazione a raggiungere una meta di essere, di senso che dà per l’appunto il senso della nostra presenza. L’arte è una di queste strade. Insieme a tante altre strade quali per esempio il diritto, o l’economia ecc. In ognuna di queste branche del sapere, per intendersi, c’è il bisogno esistenziale dell’individuo di riconoscere il suo operato singolo all’interno di un contesto di significato generale. Un contesto che la sua opera contribuisce a sostenere da un lato e insieme un contesto che giustifica l’operato stesso. Detto questo, l’arte a differenza delle altre possibilità, ha la peculiarità di interessarsi del bello. Il bello quindi diviene la dimensione generale in cui l’artista da un lato e il fruitore dall’altro si riconoscono, l’uno contribuendo a creare opere belle (belle per gli altri in primis), il fruitore invece interessato a scoprirle e a fruirne. Entrambi accomunati dall’esigenza ripeto esistenziale (nella misura in cui il bello, declinato ovviamente in tutti i prodotti artistici correlati – ad es. letteratura, cinema, scultura, musica, balletto…. – diventa ragione di vita cioè motivo per cui vale la pena vivere).       . 

Verità. La citazione heideggeriana, ma Heidegger a differenza di Abbagnano non mi perdonerà…, mi serve per l’appunto per legare il discorso sull’arte al discorso della verità dell’essere. Quindi una verità non di stampo gnoseologico quanto esistenziale. In questo senso è vero che l’arte è simbolo (così come a mio avviso sono ‘simboli’ il linguaggio del diritto, dell’economia ecc.) ma simbolo qui va inteso non come derivato della realtà. L’illusione che ci sia un piano di realtà vera quella oggettiva e sensibile e un piano derivato fatto di immaginazione, di sogni che magari trovano spazio e colore sulla tela, fa parte di un dualismo errato. Errato in quanto non vero. L’uomo proprio perché non si definisce per l’essere che è, quanto per l’essere che non è (altrimenti non sarebbe libero, assumo quindi la libertà dell’uomo come prima evidenza da cui tiro le fila del discorso) – spero che Sartre mi possa perdonare – si ritrova molto di più a suo agio nei simboli che non nei meri dati di fatto. Il fatto in sé – di nuovo Sartre – non ha valore, non ha senso. Il fatto per sé – sempre Sartre – assume un connotato umano e in quanto tale un significato. La cui gamma è molto estesa perché va dall’orrore del campo di concentramento all’estasi del sublime. Delitto e Castigo è un bel libro perché io che leggo quel personaggio in quella storia vedo messa in una forma che mi sembra perfetta così com’è (te la propongo come definizione di bellezza) un valore, frutto di un bisogno, universale. Quando parlo di bisogno universale penso a quello che scrive Kant nella Critica del giudizio quando scrive, in modo perfetto cioè bello, che il giudizio di gusto è soggettivo ma ha la ‘pretesa’ dell’universalità. Ci sarà sempre qualcuno che dirà ‘a me Delitto e castigo non è piaciuto, non solo ma ritengo che sia un libro sopravvalutato e poi che palle questi autori russi!’ ci sarà certo ciò non toglie che io che penso l’esatto contrario ci ‘rimango male’. E non perché non vedo riconosciuta una verità oggettiva universale quanto perché vorrei condividere con l’altro il mio bisogno di valore esistenziale, che lui magari trova rispecchiata in un altro autore o in un’altra forma artistica.
Piacere/spiacere. La sensazione di spiacevolezza che ho appena descritto mi porta ad un altro tema cioè quello del piacere e dispiacere di cui ha parlato anche nel post iniziale. Sono d’accordo con te che in linea di principio il bello e il piacevole sono due categorie diverse che predicano in modo diverso. L’uno mi dice qualcosa dell’oggetto e l’altro mi rivela il soggetto. E tuttavia sono meno d’accordo quando spingendo la riflessione arrivi a riconoscere quattro possibilità equivalenti sul terreno della bellezza e della piacevolezza in rapporto all’arte. Riconosco le quattro possibilità, Non riconosco lo stesso peso specifico. Detto semplicemente, il bello rimane comunque una sensazione piacevole. Certo di una piacevolezza diversa che non l’appagamento dei sensi che dà un gelato per es. ma comunque è una sensazione positiva anche quando vedo opere disturbanti. Perché io posso vedere un’opera disturbante brutta e un’opera disturbante bella. E se sono sincero arriverò a dire che la seconda mi parla di più. Cioè anche se mi ha fatto stare male comunque non dirò mai ‘accidenti perché l’ho vista’ ma invece dirò ‘comunque devo dire grazie di averla vista’ perché mi ha fatto conoscere un pezzo di verità, cioè di valore, cioè di senso in cui riconosco la mia esistenza. E grazie al quale la mia esistenza è qualcosa ‘di più’. Cioè ha ‘più’ essere, in ultima istanza.

3 Comments

  1. Giangiuseppe Pili Giangiuseppe Pili 12 Aprile, 2012

    Caro Sergio,

    1) Condivido alcune idee chiave della tua riflessione, nata come risposta al mio breve saggio “Il problema della definizione del bello”. Ciò che a me interessava in quel saggio era fornire una netta separazione tra delle categorie terminologiche e concettuali piuttosto confuse tra loro e che, invece, devono essere tenute distinte: bellezza, verosimiglianza e divertimento. La bellezza è l’unica proprietà che attiene all’arte, come sua proprietà peculiare.

    2) Parlando più specificamente della tua posizione, condivido più le “necessità” che tu evidenzi, che la forma. Soprattutto, trovo molto interessante la tua riflessione in sede di una sorta di “insieme di idee e problematiche” che devono rientrare all’interno di un’indagine estetica più approfondita. Sono d’accordo che l’Arte, come disciplina che deve fornire dei materiali “belli”, deve fare i conti con i problemi della “verità”, come la intendi tu, cioè come costruzione dell’essere “autentico”. Sebbene tenderei ad evitare la parola “verità” (concetto della semantica), ritengo corretto che la “l’opera d’arte” sia bella perché “vera”. D’altra parte, non si vede come possa “nascere” un’opera siffatta, se non esprime in tutto o in parte un’esigenza profonda dell’animo umano, dunque, come dicevi tu, un “Bisogno”. E anche in questo sono pienamente d’accordo.

    3) Rimane il fatto, però, che l’Arte non costruisce resoconti “veri”, esprimibili in frasi come “Monti è il presidente del consiglio”, né costruisce propriamente dei “fatti” ma solo “rappresentazioni”. Ed è l’universalità della rappresentazione, sia nella sua possibilità di fruizione da un “soggetto ideale”, sia nella universalità del valore umano sotteso, che fa la differenza tra l’arte bella e l’arte brutta. Per questo preferisco parlare di “simboli”, perché il “simbolo” è un’entità che rimanda ad un’altra, cioè, il soggetto arriva alla comprensione di qualcosa di profondo ATTRAVERSO il simbolo. L’Arte è, dunque, la costruzione di simboli belli che rimandano ad una realtà “etica” (etica, intesa, qui, come insieme dei valori Umani). Per questo, la categoria della bellezza riguarda i simboli, che, come avevo proposto, possono essere letti in più livelli, ma solo la grande arte si costruisce sul simbolo universale, universale perché profondamente Umano.

    Giangiuseppe Pili

  2. Sergio P. Sergio P. 16 Aprile, 2012

    Ciao Giangiuseppe,
    c’è qualcosa che non mi torna sul terzo punto del tuo commento. Dimmi se sbaglio ma nelle tue parole mi sembra di trovare l’impostazione dualistica dell’essere platonico per cui da un lato abbiamo la realtà dei fatti (giudicabili secondo la teoria della verità come adaequatio), dall’altra l’arte come rappresentazione che attraverso simboli condurrebbe verso una realtà ‘valoriale’ (questo Platone non lo dice, rimane valido comunque lo schema platonico di un qualcosa che mi serve per raggiungere uno stadio superiore di essere). A mio avviso questo modo di impostare le cose non coglie la verità (di nuovo, che cos’è vero?) dell’arte. Sarò brutale come sempre. Per molto tempo si è considerata l’essenza dell’arte la mimesi della natura; lentamente l’arte si è andata affrancandosi da questo legame per acquisire una sua dignità ontologica. Oggi come oggi, mi sembra di poter dire, da modestissimo fruitore di arte, che il senso comune ha riconosciuto questo stato di cose per cui entrando in un museo non ci si aspetta più di misurare la bellezza delle opere esposte con il principio della corrispondenza (di nuovo l’adaequatio) tra l’immagine e l’oggetto reale. Ci si aspetta invece di trovare qualcosa di bello, qualunque cosa significhi questa parola. E non perché la sensazione del bello mi metta in contatto con una realtà superiore, né perché la bellezza mi faccia scoprire delle realtà nuove ma perché grazie ad essa faccio un’esperienza di senso. E quindi di valore, come scrivi tu, ma non universale (quella semmai è un’esigenza morale che è parte essenziale del bello ma non la caratteristica principale per così dire): l’esperienza estetica è prettamente soggettiva. Dopo aver visto qualcosa di bello, io sono portato a condividere questo valore con gli altri e quando questo non accade io non resto indifferente ma ci ‘rimango male’. Sento che qualcosa non torna. Vorrei provare a convincere l’interlocutore della bellezza di Apollo e Dafne che abbiamo di fronte. E tuttavia nessuna parola, nessun argomento, nessuna teoria potrà portare alla bellezza della statua. Perché o la bellezza nasce dalla statua oppure non c’è. Curioso notare come questo non accade se sostituiamo la statua con un gelato per esempio. Se la mia amica Anna non gradisce, al pari di me le creme, ma è golosa di gelato alla frutta a me questa cosa non fa né caldo né freddo; posso non spiegarmela (come non mi spiego tutti coloro cui non piace il gelato!) ma finisce lì. Di fronte alla bellezza non finisce lì. Sentiamo che c’è qualcosa che l’altro ‘deve’ riconoscere perché altrimenti gli ‘manca’ qualcosa, qualcosa di non prettamente individuale ma di ‘oggettivo’, certo di una ‘oggettività’ diversa da quella dei fatti, misurabili con il principio della verità come adaequatio ma comunque di oggettivo. Qualcosa che merita di essere esperito. Sentiamo questa esigenza. E nel momento in cui passiamo dall’essere (dell’opera d’arte) al dover essere (voglio che la bellezza comunque di quest’opera, non la bellezza in sé, sia condivisa e riconosciuta) si passa dall’estetica all’etica. Ma non siamo passati ad un’altra realtà siamo sempre dentro questa realtà. Non solo ma siamo io e te, di fronte a quest’opera d’arte.
    Mi piacerebbe avere più di tempo per cercare di essere un pò più chiaro ma oggi non è possibile.

  3. Giangiuseppe Pili Giangiuseppe Pili 17 Aprile, 2012

    Quello che volevo esprimere non è l’idea che l’arte debba attenersi ad una rappresentazione della realtà (come ho mostrato incisivamente nell’altro saggio). Semmai proprio il contrario. Ma che l’arte costruisce “simboli” nel senso che sono dei tramite tra il soggetto e l’oggetto che l’opera artistica vuole cogliere ed esprimere. Ad esempio, nell’arte surrealista non c’è niente di simile all’idea dell’adequatio ma ciò non significa che non rimandi ad insieme di esperienze concettuali, altrimenti inattingibili da parte del fruitore d’arte. In questa forma più pura e libera di arte, arte che tenta di cogliere l’essenza della bellezza, non c’è indipendenza da una “realtà umana” ma solo una sua espressione più libera. Quello che volevo dire era che l’arte si giudica con il parametro della bellezza, comunque intesa, a partire dal suo tramite (l’opera) che non è mai limitata al suo essere fattuale e oggettivo (l’oggetto) ma al suo essere “simbolo di qualcosa” che, come suggerivo, tanto più è profonda e tanto più coglie l’essenza stessa di una componente umana intersoggettiva (cioè di tutti i soggetti). I disaccordi nascono dalla incapacità di riuscire ad attingere tutti allo stesso modo la “fonte” del “simbolo”, come mostrano i commenti di chi non riesce a capirli (ad esempio, spesso la musica classica non è “compresa” per ragioni di “distanza sonora” e viene scambiata per “brutta” ma solo perché i soggetti non riescono ad andare oltre la superficie che, comunque, gli rimane distante). Dunque, l’arte è e deve essere indipendente dalla realtà, ma non da ogni realtà.

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