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Capitolo 16. La Parola come enigma

Altre strofe tratte dal Rg-veda (I,164,34-35e37e45) c’aiutano a dire, con cautela, qualcosa sulla Parola, o piuttosto sul suo carattere enigmatico.

Tra le grandi domande che l’uomo pone al saggio merita d’essere menzionata quella sul luogo in cui dimora la Parola.

Ti interrogo sull’alto cielo dove dimora la Parola. / […] la nostra preghiera (lett. il brahman, sacerdote) è il cielo supremo dove dimora la Parola.

Per capire a fondo domanda e relativa risposta faremmo meglio a vedere anche le altre grandi domande con relative risposte, dal momento che il passo esaminato ne elenca quattro complessivamente: qual è il limite della Terra? Dov’è il centro del cosmo? Qual è l’essenza della virilità? E appunto: dove, soprattutto, risiede la potenza della Parola? Alle domande elencate seguono queste risposte: l’altare è il limite della Terra; il sacrificio, quando compiuto, diviene il centro del cosmo; il Soma è l’essenza della prolificità; la preghiera è la dimora della Parola.

Ora siamo in grado di comprendere meglio la risposta alla domanda sulla Parola. Dobbiamo considerare il contesto del rito sacrificale come centrale per questa comprensione. Esso, come già abbiamo notato, è una sorta di piccolo cosmo in grado di ricreare l’intero cosmo e di essere l’intero cosmo; il sacrificio è veramente il centro del cosmo poiché per mezzo di esso è possibile essere in tutto il cosmo e crearlo da capo ogni volta. È la preghiera che accompagna il sacrificio, la Parola che esprime il mistero del Brahman, il luogo dove dimora la Parola, la Parola stessa.

Ma con ciò non abbiamo ancora chiarito perfettamente cosa è la Parola. D’altra parte una chiarificazione totale non può apparire se non fantasia, sforzo superumano, sfida piena d’orgoglio, hybris intellettuale, dal momento che la Parola è il mistero stesso, avvicinabile nella sua interezza solamente attraverso un’intuizione o indicazione sommaria.

Che cosa sono non so. / Vago solitario, oppresso dalla mente. / Quando la Primogenita della Verità è venuta a me, / io ho ottenuto una parte proprio di quella stessa Parola.

Gli enigmi per l’uomo sono molteplici, a partire dall’enigma rappresentato da sé stessi. Siamo animali coscienti e autocoscienti, ma non, per così dire, auto-conoscenti. Dal punto di vista della conoscenza di sé stessi siamo degli abitanti estranei alla nostra stessa mente, che pertanto ci opprime con pensieri di cui non siamo i padroni, di cui non capiamo e controlliamo la direzione, che ci appaiono come stranieri e che forse lo sono veramente. Siamo, in altre parole, pensati da una mente che è certamente, da un punto di vista fisico e materiale, la nostra, ma che, nel momento della riflessione autocosciente, sentiamo in parte estranea e sconosciuta. Da qui il senso di mistero e oppressione che questi versi esprimono piuttosto esplicitamente. E qual è allora il sollievo quando siamo in grado di esplicitare il nostro contenuto mentale attraverso la Parola. Tale operazione appare da una parte un (ri)appropriarsi del proprio contenuto e dall’altra un proiettare all’esterno un contenuto sentito nel profondo come estraneo. L’espressione «la Primogenita della Verità» sta per «la Parola». In questo modo possiamo tradurre gli ultimi due versi riportati in modo apparentemente sterile: quando la Parola venne a me, io ho ottenuto una parte proprio di quella stessa Parola. In questo modo possiamo giustificare la parte in corsivo, e, aggiungendo le osservazioni che seguono, confermare la validità dell’interpretazione appena data: che la parola da una parte permette di riappropriarsi del proprio pensiero e dall’altra di espellerlo nella realtà esterna.

Ma non è solamente per motivazioni di coerenza interna allo schema interpretativo adottato che abbiamo deciso di tradurre Parola in Primogenita della Verità. Infatti la Parola è veramente la Primogenita della Verità (i Veda lo dicono esplicitamente in II,8,8,5). Intendendo Verità come già l’abbiamo intesa, ovvero ‘ordine sotteso da tutto l’esistente’, è facile vedere come la Primogenita, ovvero la prima manifestazione, la condizione necessaria ad essa, sia appunto la Parola, prima espressione di quel contenuto mentale primevo ch’era appunto l’idea della creazione.

La stanza 45 è stata interpreta in molti modi differenti da parte della speculazione successiva, anche se a noi appare piuttosto chiara, almeno nel suo contenuto superficiale.

La Parola è misurata in quattro quarti. / […] Tre quarti, nascosti in segreto, non causano alcun movimento. / Il quarto è il quarto che è pronunciato dagli Uomini.

La Parola non è data all’uomo che in minima parte. All’uomo non è data la piena comprensione di essa; solo un quarto di essa è concesso all’uomo, il resto è enigma. Ritorna la divisione tra visibile e invisibile. Tutto nel cosmo è composto da una parte visibile e una parte invisibile. Lo stesso principio dell’essere è la parte invisibile che permea di sé l’intero cosmo visibile. La Parola in quanto principio è ovunque, invisibilmente o sotto altra forma. Solo una parte di essa è posta in modo visibile o sotto forma di parola, di suono che esce dalla bocca ed esprime (nella maggioranza dei casi) un significato, nell’uomo. Pertanto l’uomo difficilmente conosce, semmai intuisce, la Parola, proprio perché soltanto una parte minore è in collegamento con il suo pensiero, con la sua ragione, e lo esprime, gli dà, ovvero, movimento e vita nel mondo esterno e, forse, anche nel mondo interno.


Francesco Margoni

Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive dell’Università di Trento. Studia lo sviluppo del ragionamento morale nella prima infanzia e i meccanismi cognitivi che ci permettono di interpretare il complesso mondo sociale nel quale viviamo. Collabora con la rivista di scienze e storia Prometeo e con la testata on-line Brainfactor. Per Scuola Filosofica scrive di scienza e filosofia, e pubblica un lungo commento personale ai testi vedici. E' uno storico collaboratore di Scuola Filosofica.

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