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Capitolo 19. La tragica origine del cosmo e della Parola

Prarthana1830590, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

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Consigliamo – Di Francesco Margoni I veda – Capitolo 1


Con la considerazione dei seguenti passi: Brhadaranyaka-upanisad (I,2,4-6;III,7,17e9,24-25) e Chandogya-upanisad (III,18,3;VII,2,1), intendiamo, in realtà e a dispetto del titolo incompleto, presentare prima un interessante ed eccentrico racconto della nascita della Parola, e poi la particolare concezione delle Upanisad rispetto alla parola (vac), intesa più come linguaggio che Parola o rivelazione.

Si narra che il Creatore Supremo di tutto, individuato anche come Morte o Fame, prima della creazione del cosmo, volle avere un secondo sé. Egli volle compagnia, in sostanza. Questo volere, tuttavia, non era disinteressato, ed anzi, se prendiamo sul serio l’identificazione tra ‘principio di tutto’ e ‘volontà di degenerare o consumare per sfamarsi’, dobbiamo credere che la volontà di avere accanto a sé qualcosa invece che niente era una condizione necessaria del soddisfacimento del proprio desiderio distruttivo o consumante. Ebbene, fu così che Ella (Morte o Fame) creò, per mezzo della Mente, e congiungendosi alla Parola (ovvero alla capacità di manifestare il pensiero), il Tempo. Paradossalmente ci volle del tempo (un anno) prima che il Tempo (o l’Anno, come viene altrimenti chiamato nei testi) potesse nascere. Comunque, una volta nato, la Morte o la Fame, dobbiamo presumere impaziente, desiderò distruggere o sfamarsi, proprio dell’unica cosa che c’era: il neonato Tempo. Viste le minacciose intenzioni di Morte, il Tempo gridò bhan! Questo grido divenne anch’esso stesso la Parola, la quale, dunque, nasce proprio per avere salva la vita del Tempo, ovvero per avere salva la propria vita. Parola è linguaggio, e non possiamo pensare al linguaggio senza un essere vivente che lo parli e lo ascolti, dunque un tempo in cui questo essere (già manifestazione della Parola) viva e cresca. Grazie a questo grido Tempo e Parola furono salvi.

Essenzialmente però ciò che salvò il tempo non fu tanto il grido quanto piuttosto un prudente ragionamento di Morte o Fame. Ella ragionò che se avesse subito distrutto o mangiato il neonato tempo avrebbe ricevuto ben minor piacere che nella prospettiva di una piena generazione del cosmo. Perciò permise la sopravvivenza del Tempo, secondo sé del creatore, e la generazione dell’universo, da quella prima parola di spavento. Se queste sono le premesse ci si aspetta senz’altro un enorme sacrificio; Morte e Fame ancora aspettano di distruggere o consumare quello che prudentemente hanno fanno sviluppare. Il Cosmo intero è un porco all’ingrasso.

Da questa storia, come da altri passi tratti dalla Chandogya-upanisad, si deduce, come già abbiamo avuto occasione di notare analizzando alcuni testi dei quattro Veda, che la Parola è fondamento di tutto ciò che è venuto all’esistenza, anche del Sole (Agni, Fuoco), e di ogni tipo di conoscenza, da quella rivelata a quella non rivelata. Nei primi quattro Veda la Parola è fondamento di tutto ed è, al contempo, tutto. Nelle Upanisad la concezione della Parola è invece ridimensionata; la Parola è detta fondata nel cuore dell’uomo, il quale a sua volta è detto fondato nell’uomo stesso, nel suo principio di individuazione. La Parola diventa in sostanza espressione dell’interiore. In più si fa largo il concetto di ‘Inesprimibile’. La Parola è solamente una parte del Brahman (verità e struttura delle cose); per essere più precisi Essa è la quarta parte di esso. La Parola è ulteriormente ridimensionata. Non è più in grado di esprimere qualsivoglia contenuto, è impotente di fronte alle più grandi verità, le quali rimangono, appunto, inesprimibili. Per le Upanisad è centrale Brahman, ovvero un aspetto, funzione od uso, su quattro, della Parola. L’aspetto centrale è relativo alla liturgia, ma in questa la Parola non è più in grado di esprimere compiutamente il mistero. È Brahman ad espropriare questo terreno liturgico e fondamentale alla Parola, dove la Parola (vac) è relegata a rappresentare per lo più gli altri tre suoi aspetti, funzioni od usi. Se gli autori dei Veda tendono a tributare grandi onori e potenze alla Parola in sé, gli autori delle Upanisad invece si chiedono chi sia a pronunciare la Parola, e dunque si pongono in relazione non tanto e non solo alla parola ma al parlante, il quale sta al di là e prima della parola, sicché Essa ne esce svalutata. Non solamente le Upanisad s’interrogano sul parlante, esse tendono anche ad interrogarsi sull’interiorità umana generatrice di linguaggio, Immortale e fondamentalmente Inesprimibile, dunque aldilà e precedenza della Parola stessa. In questo senso le Upanisad sono senz’altro in accordo, più che gli antichi autori vedici, con il verdetto di Prajapati (esposto nella pubblicazione precedente).


Francesco Margoni

Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive dell’Università di Trento. Studia lo sviluppo del ragionamento morale nella prima infanzia e i meccanismi cognitivi che ci permettono di interpretare il complesso mondo sociale nel quale viviamo. Collabora con la rivista di scienze e storia Prometeo e con la testata on-line Brainfactor. Per Scuola Filosofica scrive di scienza e filosofia, e pubblica un lungo commento personale ai testi vedici. E' uno storico collaboratore di Scuola Filosofica.

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