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Antologia T-Z.

Tacito. Storia. Antichità. Felicità collettiva dei mali dello Stato.

“…era adesso consapevolezza diffusa un principio del potere finora segreto, che si poteva diventare imperatori anche fuori di Roma. Felici i senatori per la libertà ritrovata di colpo, e tanto più esplicita la gioia perché rapportata a un principe nuovo e lontano; quasi analoga l’esultanza dei cavalieri più in vista; la parte sana del popolo, segata alle maggiori famiglie, i clienti e i liberti dei condannati politici e degli esuli tornavano a sperare; sconsolata invece e avida di ogni chiacchiera la plebaglia, quella di casa al circo o nei teatri, e con lei la feccia degli schiavi, insieme a quanti dilapidati i propri averi, si cibavano delle sozzure di Nerone.

Tacito, Storie, Garzanti, Milano, 1991, p. 7.

Tacito. Storia. Antichità. I capi di stato vengono valutati dai più dalle loro qualità fisiche.

La stessa età di Galba costituiva oggetto di scherno e ragione di insofferenza per chi, abituato alla giovinezza di Nerone, valutava, come fa il volgo, gli imperatori dalla loro prestanza fisica.

Tacito, Storie, Garzanti, Milano, 1991, p.11.

Tacito. Storia. Antichità. Il bene dello Stato difficilmente è stato motivo di interesse.

Una pacata valutazione dei fatti e l’amore per lo stato guidavano ben pochi; la folle speranza di molti attribuiva, con voci interessate, perché amici o clienti, la designazione a questo o a quello (…)

Tacito, Storie, Garzanti, Milano, 1991, p. 15.

Tacito. Storia. Antichità. Considerazioni sulla morte.

La morte, che la natura fa eguale per tutti, offre un elemento di distinzione presso i posteri: la dimenticanza o la gloria. E se la stessa fine attende l’innocente o il colpevole, a un uomo forte spetta morire perseguendo un obbiettivo degno di lui.

Tacito, Storie, Garzanti, Milano, 1991, p. 27.

Tacito. Storia. Antichità. La credulità degli uomini al mistero e agli astrologi.

In aggiunta, le pressioni degli astrologi, che garantivano, dall’osservazione delle stesse, nuovi sconvolgimenti e un anno di gloria per Otone: razza di gente infida ai potenti, fallace per gli ambiziosi, sempre proscritta da Roma, ma che qui sempre vedremo insediata. Gli appartamenti privati di Poppea avevano ospitato molti astrologi, laido arredo delle nozze col principe. Uno di questi, Tolemeo, compagno di Otone in Spagna, gli aveva garantito la sopravvivenza a Nerone, e, forte della credulità dei fatti, sulla base delle proprie congetture e delle ciance di quanti commisuravano la vecchiezza di Galba alla giovinezza di Otone, era riuscito a persuaderlo che sarebbe assurto all’impero. Predizioni che Otone accoglieva come frutto di capacità profetiche e avvertimento del destino: tanto è il bisogno naturale dell’uomo, specie al mistero.

Tacito, Storie, Garzanti, Milano, 1991, p. 29.

Tacito. Storia. Antichità. La volubilità della massa.

Già tutta la plebaglia, mescolata agli schiavi, riempiva il Palazzo, chiedendo, in un chiasso disordinato, la testa di Otone e la morte dei congiurati, come se, al circo o a teatro, reclamassero un divertimento, ma senza una scelta vera, senza sincerità: lo stesso giorno avrebbero preteso il contrario, con altrettanto accanimento. Era ormai una tradizione adulare qualsiasi principe con sfrenate acclamazioni e inconsistenti entusiasmi.

Tacito, Storie, Garzanti, Milano, 1991, p. 39.

Tacito. Storia. Antichità. Quando il passato non è più degno del presente.

Le teste mozze, infisse su picche, venivano portate in giro, fra le insegne delle coorti, a fianco dell’aquila della legione; a gara mostravano le mani lorde di sangue quanti avevano ucciso; chi era stato solo presente al massacro si gloriava, mentendo o no, di quel crimine, come d’un gesto bello e memorabile.

Tacito, Storie, Garzanti, Milano, 1991, p. 51.

Tacito. Storia. Antichità. Gli uomini generalmente prima insultano, dopo adulano ma sempre sono incoerenti.

L’ultima aberrazione di quella giornata trascorsa all’insegna del delitto fu l’esultanza. Il pretore urbano convoca il senato; tutti gli altri magistrati gareggiano in adulazioni; accorrono i senatori: viene conferita a Otone la potestà tribunizia, il nome di Augusto e tutti gli onori imperiali, in mezzo allo sforzo generale di far dimenticare i sarcasmi e gli insulti che da più parti, fino a poco prima, gli avevano rovesciato addosso; e non c’era nessuno che si rendesse conto di come invece si erano impressi nel suo animo.

Tacito, Storie, Garzanti, Milano, 1991, p. 55.

Tacito. Storia. Antichità. I costumi delle matrone romane.

La sua prima esperienza militare s’era risolta nel disonore: comandava allora la legione Calvisio Sabino, la cui moglie, per morboso desiderio di vedere l’interno di un campo militare, vi penetrò una notte travestita da soldato, puntando prima sulle sue doti di seduzione per superare i corpi di guardia e gli altri controlli, fino a prostituirsi proprio nel quartier generale.

Tacito, Storie, Garzanti, Milano, 1991, p. 55.

Tacito. Storia. Antichità.

Da quel momento su nessuno ebbe più presa il rispetto e il ricordo del giuramento pronunciato in precedenza ma, come accade nelle rivolte, si ritrovarono tutti dalla parte della maggioranza.

Tacito, Storie, Garzanti, Milano, 1991, p. 67.

Tocqueville. Storia. Romanticismo.

« Non so se riuscirò a far conoscere quel che ho visto (…), ma assicuro di aver avuto sinceramente questo desiderio e di non aver mai ceduto consapevolmente al bisogno di adattare i fatti alle idee in luogo di sottemettere queste a quelli ».

Tocqueville Alexis. Democrazia in America. BUR., pag. 29

Tucidide. Storia. Antichità. Sulla guerra del Peloponneso.

« La guerra avrebbe raggiunto grandi porzioni e avrebbe avuto una portata superiore a quella delle guerre che l’avevano preceduta ».

F.S.

Tucidide. Storia. Antichità. Sulla credibilità delle fonti a disposizione.

« Ecco, dunque, ciò che furono le mie ricerche sui tempi antichi. In questo campo molto difficile credere a tutti gli indizi così come vengono trasmessi perché la gente, anche nel caso del loro stesso paese, accetta senza esaminare le tradizioni tramandate riguardo il passato ».

F.S.

Tucidide. Storia. Antichità. Sulla grandezza di Atene.

« Ad Atene noi apertamente riflettiamo e apertamente giudichiamo sugli affari privati e pubblici, convinti che i discorsi non muovono all’operare, ma ad esso nuoce piuttosto il passare ai fatti, prima di aver chiarite nei discorsi le idee. Poiché noi abbiamo questo pregio singolare di essere insieme al sommo ardimentosi e riflessivi in tutto quanto intraprendiamo; diversi perché dagli altri nei quali l’ignoranza genera audacia e la ponderatezza la lentezza. Per raccogliere il molto in poco, dico insomma: Atene è la scuola della Grecia »

F.S.

Tucidide. Storia. Antichità. Una riflessione di Pericle.

La mia convinzione, Ateniesi, rimane sempre invariata: non cedere di un palmo ai Peloponnesi. Eppure sono consapevole che gli uomini stentano a profondere nella realizzazione pratica della guerra quello stesso ardore che li ispira al dichiararla, poiché adattano i loro sentimenti al variare delle contingenze.

Tucidide, La guerra del Peloponneso, Garzanti, Milano, 2003, P.87.

Tucidide. Storia. Antichità. Le atrocità della guerra civile.

A tal segno progredì la spirale atroce della lotta civile; e sanguinò più acerba la ferita inflitta alla coscienza del mondo, poiché fu quello il primo di una catena lunga d’orrori che in un progresso di tempo implicò e travolse fino agli estremi confini, si può dire, l’universo greco. Dovunque si ergevano armati, l’uno contro l’altro, i condottieri dei partiti popolari e di quelli oligarchici che mettevano capo rispettivamente all’appoggio di Atene e di Sparta. In periodo di pace questi paesi non disponevano di pretesti ragionevoli, né quindi della volontà politica per appellarsi alle potenze egemoni. Mentre quando s’aprì il conflitto divenne anche più consueta e piana la pratica, per chi coltivava e metteva a frutto in ogni città i germi rivoluzionari, di ricorrere con successo all’intervento delle due rispettive coalizioni alleate, per indebolire le parti avverse e, al tempo stesso, migliorare le proprie prospettive. Le interne scosse segnarono a fondo la città con le infinite tracce del tormento e del sangue, che sono state e saranno sempre la dolente e cupa eredità di quei moti (finché non si converta la natura umana), più o meno temperata o convulsa, svariante da caso a caso, in armonia con il fluire ininterrotto e cangiante delle occasioni particolari. Quando splende la pace e l’economia è florida, le città e i privati godono di più limpidi intelletti, poiché non sono ancora inchiodati a fronteggiare ristrettezze implacabili. La guerra invece, che strappa dalla vita il quotidiano piacere della prosperità, è una maestra brutale e sa porre a modello per orientare e accendere le passioni della folla, le circostanze del momento. Così non solo s’inaspriva lo strazio delle città sconvolte ma anche quelle in cui, per qualche motivo, esplodeva più tardi il seme della discordia, educate agli esempi del passato, si ingegnavano di spiegare all’eccesso il già sfrenato ventaglio d’originali e fantastici piani, per raffinare l’ingegnosa tecnica degli assalti a tradimento, per scoprire i più perfezionati e strani modelli di rappresaglia. L’ordinario rapporto tra i nomi e gli atti rispettivamente espressi dal loro significato, cioè l’accezione consueta, fu stravolto e interpretato in chiave assolutamente arbitraria. La temerità irriflessiva acquistò valore d’impeto eroico al sacrificio per la propria parte; la cautela accorta di maschera decorosa, per panneggiare uno spirito vile. La prudenza fu ritenuta un ripiego per celare la paura, spregevole in un uomo; l’intelligenza sollecita a scrutare ogni piega di un problema fu spacciata per totale inettitudine dell’azione. Si valutò la furia selvaggia e folle qualità veramente degna di un ingegno virile; il ponderare guardinghi gli elementi di iniziativa, per dirigerla sicuri, onesto schermo per ripararsi nell’ombra. Il sordo ringhio della critica, del malcontento, ispirava sempre fiducia; ma la voce che si levava a contrastarlo si spegneva ogni volta nel sospetto. Operare un tradimento con mano pronta e felice pareva indizio di svelta mente, e prevenirlo un traguardo di destrezza anche più fine. Sulla meditata rinuncia a uno di questi metodi s’addensava l’accusa d’essere un fattore d’eversione per il proprio partito, e il frutto dello spavento di fronte all’avversario. In una parola, anticipare il collega di parte in una trista impresa era alta lode, come eccitarvelo, se non ne aveva ancora concepito il progetto. Perfino al vincolo di sangue si riconosceva minor vigore che a quello di parte, poiché questo concedeva più sconfinato agio ad un ardimento senz’altro sciolto dall’obbligo d’accampar pretesti. Giacché sodalizi di tale carattere non sorgono con filantropici intenti, nel rispetto dell’ordine legale, che anzi calpestano per dissetare l’immorale febbre di potere. E le affermazioni di lealtà scambievole non si radicavano nel benedetto terreno delle leggi rese sacre dalla volontà divina, ma nella complicità cosciente d’innumerevoli soprusi. Le proposte del partito avverso, pur quando apparivano immuni da obliqui scopi, venivano accolte, ma solo per premunirsi su concrete vasi, nell’eventualità che entrassero in vigore, non in ossequio a un senso di liberale fiducia. Era più gradito merito avere un’ingiuria da vendicare che non averne subita nessuna. Se mai si perveniva ad un’intesa, fondata su giuramenti, il loro valore si esauriva in quell’istante, costituendo l’unica soluzione per una parte e l’avversaria, quando lo stato attuale dei loro rapporti era troppo scottante e pareva non consentire sbocchi: ma chi, in questa corsa di sfrontata audacia, sapeva cogliere primo l’attimo propizio, scorgendo l’avversario allo scoperto, con più vivo piacere lo trafiggeva, poiché ingannava la sua fiducia più che assalirlo con leale slancio. Esercizio che si basava su un calcolo di sicurezza, ornato e impreziosito dal decoro del futuro vanto d’ingegno, giacché si avrebbe atterrato il nemico con l’insidia. Infatti i più scelgono d’esser chiamati astute canaglie che valenti uomini scipiti: reputazione questa che induce alla vergogna, quella all’orgoglio. L’avidità di potere era l’origine di tante perversioni: per furore di guadagno o d’onori. Istinti da cui si sprigiona, al primo nascere delle lotte faziose, la vampa ardente della passione politica. Chi, infatti, nelle varie città, emergeva dai conflitti impugnando il potere sulle ali prestigiose di una qualifica politica del pari protetta da una nobile, seducente patina, sia che, per interessi di partito, proclamasse la sua fede nell’eguaglianza di tutti di fronte alle leggi che reggono la convivenza sociale, o nella necessità di restringere a pochi, i migliori, i più saggi, il governo dello stato, pretendeva sempre a parole, di aspirare al pubblico bene come a un premio ambito, ma in realtà, senza esclusione di colpi, combatteva una lotta spietata per un personale dominio. Vi impegnavano intrepidi gli strumenti più sanguinosi, e replicavano con rappresaglie anche più orrende senza intravedere nell’ordine legale e nel beneficio dello stato un limite invalicabile. L’orizzonte delle atrocità s’ampliava ad abbracciar via via quanto potesse spegnere per un attimo la brama di ciascuno. Occupavano il posto di comando appoggiandosi a un illegale verdetto di condanna o a un atto violento: nessuna bassezza era loro d’ostacolo a soddisfare l’attacco improvviso e sconvolgente della loro frenesia: il potere! Nessun partito praticava la pietà religiosa. La più amabile stima circondava colui al quale sorrideva la fortuna in qualche impresa funesta sorretta da una rete abile e splendente d’illusori discorsi. I cittadini che preferivano una posizione di attesa e d’equilibrio si esponevano come bersagli a entrambe le parti: sia per l’acredine che suscitava il loro sottrarsi all’adesione e all’appoggio, sia per il geloso rancore acceso dalla loro neutralità.

Tucidide, La guerra del Peloponneso, Garzanti, Milano, 2003, pp. 212-214.

Tucidide. Storia. Antichità. L’esportazione della democrazia vanta precedenti illustri.

Nei cari centri della Beozia operavano correnti politiche segretamente collegate a Demostene ed Ippocrate nell’intento di rovesciare l’attuale costituzione e di riorganizzarla su un modello democratico, ispirato a quello ateniese.

Tucidide, La guerra del Peloponneso, Garzanti, Milano, 2003, p. 283.

Tucidide. Storia. Antichità. Gli uomini tendono a vantarsi di quantità che non possiedono.

In quanto agli effettivi numerici, però, sia dei reparti singoli in ciascun complesso o, più in generale, de..e forze totali in campo, non sono in grado di registrarli con precisione: il numero degli Spartani restò un mistero, poiché in quello stato tutto è sepolto nel silenzio e le cifre degli altri contingenti mi parvero sospette, per il vanto, consueto tra gli uomini, d’ingigantire i dati relativi alla propria potenza numerica.

Tucidide, La guerra del Peloponneso, Garzanti, Milano, 2003, p. 364.

Tucidide. Storia. Antichità. I diritti umani sono reclamati da molti anni.

Meli: “E’ nostro avviso, almeno, che a proposito d’interesse (…) non vi convenga annullare le riflessioni che conceronono il vantaggio comune, e che sia ragionevole concedere a cuinque, quando si dibatta in un rischioso frangente, i diritti che gli spettano, se non altro in quanto creatura umana (…).”

Tucidide, La guerra del Peloponneso, Garzanti, Milano, 2003, p. 374.

 Tucidide. Storia. Antichità.

Ateniesi: “Speranza: incanto che illude ad osare! Sempre pronta a vibrare un colpo, anche se non a prostrare in ginocchio, chi arrischia con lei il superfluo. Ma chi profonde nell’avventura tutto il proprio (ha natura di prodiga, la speranza!) apprende dopo la disfatta a riconoscere il volto: quando ormai, a chi sarà entrato in familiarità con lei, spogliato a causa sua di tutto, non sarà più concessa occasione di mettere a frutto quella sua esperienza per farsene scudo, in avvenire. Il vostro paese è debole, e alla bilancia della sorte basterà oscillare di poco per cancellarvi: evitatelo. Come dovreste rinunciare ad imitare la maggior parte dell’umanità, cui, benché sia ancora possibile la salvezza con espedienti terreni quando ogni tangibile e ragionevole motivo di speranza li abbandona in male acque, sovviene la seduzione dell’oltremondo, i vapori mistici della mantica, gli oracoli, e il fumoso corredo che li accompagna: risorse che suscitano l’illusione, e affrettano il disastro”.

Tucidide, La guerra del Peloponneso, Garzanti, Milano, 2003, p. 377.

Tucidide. Storia. Antichità. La guerra si fonda sull’economia. Dal discorso di Pericle.

Le riserve di denaro sono il più fermo sostegno della guerra, non le contribuzioni coatte. Le masse contadine espongono più volentieri la vita in guerra, che il loro denaro: convinti di poter anche scampar vivi dalle mischie, ma per niente sicuri che i loro risparmi non sfumino del tutto prima della pace, specialmente se la guerra si trascina, come per il solito, oltre ogni previsione.

Tucidide, La guerra del Peloponneso, Garzanti, Milano, 2003, p. 88.

Tucidide. Storia. Antichità. La tolleranza degli Ateniesi. Dal discorso di Pericle.

Il nostro ordine politico non si modella sulle costituzioni straniere. Siamo noi d’esempio ad altri, piuttosto che imitatori. E il nome che gli conviene è democrazia, governo nel pugno non di pochi, ma della cerchia più ampia di cittadini: vige anzi per tutti, da una parte, di fronte alle leggi, l’assoluta equità di diritti nelle vicende dell’esistenza privata; ma dall’altra si costituisce una scala di valori fondata sulla stima che ciascuno sa suscitarsi intorno, per cui, eccellendo in un determinato campo, può conseguire un incarico pubblico, in virtù delle sue capacità. Reali, più che nell’appartenenza a questa o a quella fazione politica. Di contro, se si considera il caso di un cittadino povero, ma capace di operare un uffici utile allo Stato, non gli sarà d’impedimento la modestia della sua condizione. Nella nostra città, non solo le relazioni pubbliche s’intessono in libertà e scioltezza, ma anche riguardo a quello clima di guardinga, ombrosa diffidenza che di solito impronta i comuni e quotidiani rapporti, non si va in collera con il vicino, se fa un gesto un po’ a suo talento, e non lo si annoia con visi duri, sguardi lividi, che senza voler essere castigo, riescono pur sempre molesti. La tollerante urbanità che ispira i contatti tra persona e persona diviene, nella sfera della vita pubblica, condotta di rigorosa aderenza alle norme civili, dettata da un profondo, devoto rispetto: seguiamo le autorità di volta in volta al governo, ma principalmente le leggi e più tra esse quante tutelano le vittime dell’ingiustizia e quelle che, sebbene non scritte, sanciscono per chi le oltraggia un’indiscutibile condanna: il disonore.

Tucidide, La guerra del Peloponneso, Garzanti, Milano, 2003

Tucidide. Storia. Antichità. Dal discorso di Cleone: la tirannide è meglio della democrazia.

Di frequente, in tempi passati, ho avuto occasione di convincermi, per esperienza diretta, che la democrazia è impotente al governo di un impero: concetto più di prima nitido e fermo, mentre, proprio ora, noto sui vostri volti pentiti il rammarico per la decisione su Mitilene. La lealtà intrepida e schietta che impronta i vostri quotidiani contatti, v’ispira un comportamento altrettanto sciolto nei confronti dei paesi amici. E nei vostri abbagli, quando vi lasciate sedurre dalla dialettica dei loro argomenti o vi arrendete alla compassione che vi sanno instillare, non sapete scorgere il vizio di fondo: la vostra fragilità spirituale, fonte sempre viva per voi di pericoli, da parte degli alleati invece di infeconda gratitudine. Non riflettete che la vostra signoria è una tirannide, un servizio imposto a soggetti perfidi, insofferenti, che curvano il capo non in virtù dell’indulgenza che accordate loro, nociva e rischiosa a voi stessi, ma dell’autorità che ha radici nella forza e che assai di più del loro devoto affetto vi conserva e garantisce il potere. Ma la minaccia più oscura ci sovrasta se le deliberazioni prese non saranno eseguite con rigore e non faremo nostra questa essenziale realtà politica: se uno stato si avvale di un complesso di leggi scandente ma inflessibile, riesce più forte di quello che si appoggia su leggi nobili, ma inefficaci. E’ più cospicuo il profitto dell’ignoranza sorretta dalla risolutezza che dell’ingegno privo di temperamento. L’amministrazione dello stato in ogni caso è più sicura tra le mani di uomini semplici, che di gente troppo sagace. Poiché costoro bramano sempre di far brillare la propria intelligenza sopra le leggi ed in ogni discussione d’affari pubblici vogliono affermarsi, convinti di non poter mostrare in altre più rilevanti questioni le scintille del loro genio. Malanno diffuso e comune motivo di sfacelo per molte città; di contro gli altri, mal fidandosi della propria perspicacia, si stimano inferiori in prudenza alle leggi, e ammettono la modestia della propria competenza nel criticare la destrezza di un oratore: perciò, in qualità di giudici neutrali, che non si scaldano alla passione della contesa, dirigono generalmente al successo ogni loro iniziativa. Occorre conformare la nostra condotta a questi esempi senza slanciarci da virtuosi sulle ali della sublime oratoria in giostre d’ingegno consigliando a voi, al popolo, proposte in contrasto con il nostro sentire.

Tucidide, La guerra del Peloponneso, Garzanti, Milano, 2003, p. 183.

Tucidide. Storia. Antichità. Le atrocità dei bei tempi.

I Corciresi, avvertiti che la flotta attica si avvicinava e quella nemica era partita, aprirono le porte della città e accolsero i Messeni, che prima stazionavano fuori, e alle navi in precedenza armate assegnarono il compito di spostarsi nella rada Illaica. Mentre questi legni compivano il tragitto, massacravano ogni avversario in cui s’imbattevano. Quindi fecero scendere dalle navi tutti quelli che avevano indotto ad imbarcarsi, e li passarono, ad uno ad uno, per le armi. Poi si rivolsero al santuario di Era e promettendo un regolare processo persuasero cinquanta supplici ad uscire: non uno sfuggì alla condanna capitale. Ma la maggior parte di quegli uomini che non si lasciarono illudere da una simile promessa, conosciuta la verità si diedero la morte all’interno del sacro recinto, l’un l’altro; alcuni si impiccavano agli alberi, altri si sopprimevano come ciascuno poteva. Nei sette giorni che Eurimonte, giunto con le sessanta navi, si trattenne in città, i Corciresi seguitarono a massacrare chiunque fosse sospetto inimicizia nei loro confronti. Su alcuni addossavano l’accusa di volere abrogare l’ordinamento democratico, ma molti altri caddero traditi da inimicizie personali e alcuni finite per interesse sotto i colpi dei propri debitori, cui avevano anticipato somme di denaro. Imperava la morte, con i suoi volti infiniti: e come di norma accade in circostanze simili, si raggiunse e superò di molto ogni argine d’orrore. Il padre accoltellava il figlio: dagli altari si svellevano i supplici e lì sul posto si crivellavano di colpi. Alcuni furono murati e soppressi nel tempio di Dioniso.

Tucidide, La guerra del Peloponneso, Garzanti, Milano, 2003, pp. 211-212.

Tucidide. Storia. Antichità. Dal discorso degli araldi spartani.

Sappia il vostro contegno esser diverso da quello di alcuni, cui un lampo di fortuna illumina, per un attimo, la monotonia della vita: uomini che la speranza tende avidi a più larghi acquisti, nutrita dal sorriso benigno della sorte e dalla sorpresa del fresco guadagno.

Tucidide, La guerra del Peloponneso, Garzanti, Milano, 2003, p. 246.

Tucidide. Storia. Antichità. Le atrocità della guerra civile a Corcira.

Circa sessanta uomini furono trascinati fuori e assassinati con questa tattica, senza che nulla trapelasse a illuminare i reclusi nella grande fabbrica (credevano che lì conducesse via per scortarli a qualche altra destinazione). Ma quando la realtà si fece strada o qualcuno ne informò i prigionieri, costoro si misero ad invocare gli Ateniesi a viva voce, che li finissero loro piuttosto, se desideravano vederli morti. Rifiutarono comunque di porre piede fuori da quella casa e urlavano che fin quando avessero avuto fiato avrebbero conteso a chiunque l’entrata lì dentro. Da parte loro, neppure i Corciresi erano molto invogliati a tentare di sfondare le porte: scalato il tetto del casamento e abbattutane la copertura presero a grandinarli di tegole e frecce. I detenuti si facevano scudo di ciò che trovavano mentre i più preferivano darsi da sé la morte, chi affondandosi nella gola i puntali dei dardi che gli avversari avevano scagliato, altri impiccandosi con le cinghie svelte da alcuni letti che lì giacevano e con strisce di tessuto strappate dagli indumenti. Per molte ore della notte (l’oscurità era calata sull’eccidio) continuarono, con ogni mezzo, a togliersi la vita o a cadere vittime dei colpi inferti dall’alto. Tutte le donne che furono sorprese nella fortezza vennero vendute come schiave. Così dal partito popolare furono annientati i Corciresi dei monti e fu tale l’esito, almeno per quanto riguarda il periodo di questa guerra, di questo immenso e sanguinoso tumulto civile.

Tucidide, La guerra del Peloponneso, Garzanti, Milano, 2003, p. 266.

Tucidide. Storia. Antichità. Dal discorso di Alcibiade: la guerra preventiva è sempre giustificata da ragioni di sicurezza nazionale.

Non ci è concesso di misurare un anticipato bilancio dei confini entro cui intendiamo stringere il nostro dominio, ma oramai ci siamo stabiliti in una condizione politica particolare: tramare minacce contro quello stato, non alleviare la pressione su quest’altro, in ferrea coerenza con il nostro ruolo mondiale, poiché è sempre vivo il pericolo di cader noi sotto il potere di altri, se non li preocorriamo prima piegandoli.

Tucidide, La guerra del Peloponneso, Garzanti, Milano, 2003, p. 396.

Tucidide. Storia. Antichità. Sulle conseguenze di giovani ubriachi.

Finché, ad opera di certi meteci e di alcuni servi, approda all’autorità una denuncia, che pur non avendo nulla da spartire con lo scandalo delle Erme, riguarda certe altre statue sfregiate tempo prima da un gruppetto di giovani ubriachi e in vena di stranezze: in certi ambienti, inoltre, ci si diverte a scimmiottare i misteri. Le accuse non risparmiavano Alcibiade (…).

Tucidide, La guerra del Peloponneso, Garzanti, Milano, 2003, p. 401.

Tucidide. Storia. Antichità. Ancora sulla necessità della guerra preventiva.

Ora, abbiamo asserito che la nostra egemonia in Grecia è una misura preventiva. Per l’identico fine ci rechiamo qui, per imporre, fiancheggiati da forze amiche, uno stato di sicurezza politica e militare dai benefici effetti per il nostro paese. Nessun intento di far schiava la Sicilia: di preservar noi, piuttosto, con la forza da un così tristo destino.

Tucidide, La guerra del Peloponneso, Garzanti, Milano, 2003, p. 437.

Tucidide. Storia. Antichità. La mutevolezza della folla.

Allorché Atene fu colta dalla notizia la città stette per lungo tempo incredula, perfino contro i lucidi rapporti di alcuni reduci, uomini di garantito stampo militare, che rimpatriavano fuggiaschi dal teatro stesso delle operazioni: l’annientamento dell’armata non poteva davvero esser stato così totale. Ma quando ogni dubbio cadde, la folla ruppe in ua feroce protesta contro gli oratori che avevano incoraggiato in pubblico la spedizione, quasi non fossero stati i cittadini stessi i responsabili del decreto. E il malumore ferveva anche contro gli interpreti dei responsi profetici contro i vati, con tutta la specie di quelli che allegando predizioni celesti avevano divulgato l’illusione di una bella conquista in Sicilia. Intorno, ogni oggetto era ormai fonte di desolata amarezza: e sul popolo affranto da quel scopo mortale si stringeva una morsa di paura e di gelido piangere: e il gemito riecheggiava diffuso nello stato, dolorosamente infranto sotto il peso di perdite atroci: ricche schiere di opliti, di cavalieri e il fiore di una gioventù distrutta cui non si scorgeva possibilità di rimedio.

Tucidide, La guerra del Peloponneso, Garzanti, Milano, 2003, p. 517.

Tucidide. Storia. Antichità. Sui meccanismi della repressione.

Non era questo che un lusinghiero ripiego per placare la moltitudine, giacché in quanto ai posti governativi vi sarebbero ascesi quegli stessi che avevano preso parte attiva al moto rivoluzionario. Ad onor del vero, non s’era per questo smesso d’indire le sedute dell’assemblea popolare, o del Consiglio estratto a sorte: ma i decreti di quegli organismi, ricalcavano con fedeltà le scelte politiche espresse dai cospiratori. Anzi i proponenti appartenevano al circolo dei congiurati e il testo dei discorsi era sottoposto a censura preventiva. Eventuali oppositori erano anticipatamente ridotti al silenzio, intimiditi dalla forza numerica del partito. Bastava che qualcuno dissentisse, ed eccolo soppresso all’istante con un colpo ben azzeccato, e discreto: né la giustizia apriva un’inchiesta sugli esecutori del crimine, o spiegava la sua autorità repressiva nel caso che nascessero indizi, anche fondati. Il popolo stava ritirato: e gravava così sinistro un clima di terrore, che si poteva ben rallegrare, come di una bella fortuna, chi, pur osservando il silenzio non pativa qualche infortunio. Nella fantasia della folla, il numero degli associati s’ingigantiva, e gli spiriti dei popolari s’afflosciavano, mentre l’estensione stessa d’Atene e l’impossibilità di una conoscenza approfondita tra i cittadini generavano ostacoli alla scoperta della verità. Per questo motivo risultava impossibile che uno confidasse spassionatamente la sua amarezza a un vicino, tanto da concordare un abbozzo di difesa, o di rappresaglia, poiché ci si poteva imbattere con queste conversazioni in uno sconosciuto, o in un conoscente sospetto. IN generale, sui rapporti reciproci tra i membri del movimento democratico aleggiava la diffidenza: il compagno a fianco era forse uno partecipe degli avvenimenti in corso. Poiché vi era coinvolta gente su cui tutti giuravano che mai avrebbe potuto convertirsi all’oligarchia. E toccò proprio a costoro di avvelenare più a fondo con il sospetto i rapporti in seno al popolo, e di rendere un utilissimo servizio all’impunità degli oligarchici, col dar corpo alle ombre di sfiducia che tra uomo e uomo, calavano dense nel partito democratico.

Tucidide, La guerra del Peloponneso, Garzanti, Milano, 2003, pp. 557-558.

Tucidide, Storia. Antichità. Il terrore della malattia.

E’ questo il generale e complessivo quadro della malattia, sebbene sia stato costretto a tralasciare molti fenomeni e caratteri peculiari per cui ogni caso, anche se di poco, tendeva sempre a distinguersi dall’altro. Nessun’altra infermità di tipo comune insorse nel periodo in cui infuriava il contagio; e in esso confluiva qualunque altro sintomo si manifestasse. I decessi si dovevano in parte alle cure molto precarie, ma anche un’assistenza assidua e precisa si rivelava inefficace. Non si riuscì a determinare, si può dire, neppure una sola linea terapeutica la cui applicazione risultasse universalmente positiva. (Un farmaco salutare in un caso, era nocivo in un altro). Nessuna complessione, di debole o vigorosa tempra, mostrò mai di possedere in sé energie bastanti a contrastare il morbo, che rapiva indifferentemente chiunque, anche quelli circondati dalle precauzioni più scrupolose. Nel complesso di dolorosi particolari che caratterizzavano questo flagello, uno s’imponeva, tristissimo: lo sgomento, da cui ci si lasciava cogliere, quando si faceva strada la certezza di aver contratto il contagio (la disperazione prostrava rapida lo spirito, sicché ci si esponeva molto più inermi all’attacco del morbo con un cedimento immediato); inoltre la circostanza che nel desiderio di scambiarsi cure ed aiuti, i rapporti reciproci s’intensificavano, e la gente moriva come pecore. Era questa la causa della enorme mortalità. Chi per paura rifiutava ogni contatto, periva solo. Famiglie al completo furono distrutte per mancanza di chi fosse disposto a curarli. Chi invece coltivava amicizie e relazioni, perdeva egualmente la vita: quelli in particolare che tenevano a far mostra di nobiltà di spirito. Mossi da rispetto umano, si recavano in visita dagli amici, disprezzando il pericolo, quando perfino gli intimi trascuravano la pratica del lamento funebre sui propri congiunti, abbattuti e vinti sotto la sferza della calamità. Una compassione più viva, su un morto o verso un malato, dimostravano quelli che ne erano scampati vivi: forti di un sentimento di sicurezza. Il male non aggrediva mai due volte: o, almeno, l’eventuale ricaduta non era letale. Erano giudicati felici dagli altri e nella eccitata commozione di un momento si abbandonavano alla speranza, illusoria e incerta, che anche in futuro nessuna malattia si sarebbe più impossessata di loro, strappandoli a questo mondo.

Tucidide, La guerra del Peloponneso, Garzanti, Milano, 2003, p. 123.

Tucidide. Storia. Antichità. Dal discorso di Diodoto. Contro la pena di morte.

Orbene, nelle città la pena capitale è decretata per molti crimini, di gravità non solo pari a quello di costoro ma perfino inferiore. Tuttavia, nell’eccitazione della speranza, gli uomini si gettano allo sbaraglio e nessuno finora ha abbracciato un’impresa pericolosa senza essere convinto d’uscirne incolume. Quale città, dunque, che si ribella ha mai affrontato il rischio munita di preparativi, o richiesti ad alleanze esterne, se li prevedeva inadeguati all’immensità del pericolo? L’errore è naturale eredità degli individui e degli organismi pubblici, e non vige norma che valga a distoglierli da esso, come rivela l’esperienza degli uomini che si sono studiati d’applicare, via via aggravandola, l’intera gamma delle pene, tentando un riparo ai ripetuti assalti dei disonesti. Tutto lascia quindi credere che, nei tempi antichi, alle colpe più gravi si contrapponessero misure punitive più miti di quelle moderne. Ma, trascorrendo gli anni, all’infittirsi delle trasgressioni corrispose un graduale confluire di molte pene in quella di morte: eppure anch’essa risulta un argine insufficiente. Quindi, occorre escogitare una minaccia più terribile di questa o almeno convenire che il supplizio sommario non può più fungere da freno realmente efficace, mentre ora la miseria con la stretta del bisogno induce al passo temerario, ora l’ampiezza di sostanze, indulgendo agli stimoli di un orgoglio intemperante, alimenta la brama dell’acquisto, o in contingenze ancora diverse: sempre, quando nel cuore umano si sfrena la tempesta d’una passione, che incatenandolo all’impero della sua energia possente lo proietta a saggiare ogni prova, a godere ogni conquista. Su tutto, il dominio della speranza e del desiderio: questo di guida, quella di scorta; l’uno fantastica e stilla i particolari del colpo, l’altra riscalda con la suggestione di una lieta fortuna: onde perdite incalcolabili. Il loro occulto potere è più terribile dei pericoli concreti. Ai loro impulsi si fonde spesso, non meno vigoroso, quello del caso a sconvolgere l’animo umano: poiché talvolta crea dal nulla insospettate condizioni che esaltano alla sfida temeraria, quando, invece, le proprie facoltà precarie rammenterebbero la cautela. Destino che tocca in particolare le città: soprattutto in quanto son posti in campo i valori più nobili: la libertà e la signoria sul mondo; poi perché il sentirsi vivo membro di una collettività cittadina ispira a ciascuno un’eccessiva, irrazionale coscienza delle proprie forze. E’ semplicemente impossibile, anzi assai ingenuo, ritenere che la legge, o qualunque altra tremenda costrizione possa ergersi, invalicabile baluardo, a infrangere il potente impeto della natura umana, quando arde nel volo d’una conquista. (…) Ebbene, la pena di morte non offre garanzie sicure: non poniamola a fidato fondamento di una disastrosa decisione e per soffocare nei ribelli ogni speranza di poter mostrare che son cambiati, che in tempo brevissimo laveranno la colpa.

Tucidide, La guerra del Peloponneso, Garzanti, Milano, 2003, pp. 189-190.

Turgenev. Letteratura Russa. Romanticismo. Descrizione di un giovane della nuova generazione.

Il servitor, nel quale tutto –l’orecchino di turchese, i capelli impomati e tinti, le movenze compite – insomma, tutto rivelava che era uno della nuovissime e ultra progredita generazione (…).

Turgenev, Padri e figli, Frassinelli, Milano, 1997, p. 3.

Turgenev. Letteratura Russa. Romanticismo. Una ricostruzione esemplare di come gli uomini procedano alla formazione dei loro pregiudizi sui loro simili.

In generale, [Pavel Petrovich] organizzò tutta la sua vita secondo il gusto inglese. Si vedeva di rado con i vicini. Usciva soltanto in occasione delle elezioni, e in quel caso più che altro restava in silenzio, e solo di tanto in tanto stuzzicava e spaventava i possidenti di vecchio stampo con delle uscite da liberale, tenendosi comunque distante dai rappresentanti della nuova generazione. Sia gli uni che gli altri lo consideravano per via delle sue maniere distinte, da aristocratico, sia gli uni che gli altri lo rispettavano per via delle sue maniere distinte, da aristocratico, per le voci intorno alle sue conquiste, perché vestiva benissimo e si fermava sempre nella stanza migliore del migliore albergo, perché di solito pranzava bene, e anzi, una volta aveva pranzato in compagnia di Wellington a casa di Luigi Filippo, perché si portava dietro dappertutto un vero necessarie d’argento e una vasca da viaggio, perché emanava sempre un certo profumo meraviglioso, straordinariamente “nobile” perché giovaca magistralmente a whist e perdeva sempre. Infine, lo rispettavano anche per la sua irreprensibile onestà. Le signore lo trovavano incantevolmente malinconico, ma lui non frequentava nessuna signora…

Turgenev, Padri e figli, Frassinelli, Milano, 1997, p. 38.

Turgenev. Letteratura Russa. Romanticismo. Un discorso di duecento anni fa.

“Bravo! Bravo! Ascolta, Arkàdij… ecco come devono esprimersi i giovani al giorno d’oggi! Ma certo, come fanno a non venirvi dietro? Un tempo ai giovani toccava studiare, e non volevano essere considerati degli ignoranti, e così volenti o nolenti si impegnavano. Invece ora gli basta dire ‘Al mondo sono tutte fesserie!’ e sono a cavallo. I giovani sono contenti. E in effetti, prima erano semplicemente dei somari, mentre ora di colpo sono diventati nichilisti.”

Turgenev, Padri e figli, Frassinelli, Milano, 1997, p. 64.

Turgenev. Letteratura Russa. Romanticismo. L’incapacità d’introspezione e di capire i propri comportamenti cela un grande vuoto interiore: la conoscenza di sé implica la presenza di qualcosa da scoprire in sé.

La sua [dell’Odincova] tranquillità non era stata scossa [dalla dichiarazione d’amore di Bazarov]. Tuttavia si rattristò e pianse persino un poco, senza sapere nemmeno lei perché, non comunque per l’offesa ricevuta. Non si sentiva offesa: piuttosto si sentiva colpevole. Sotto l’influenza di vari confusi sentimenti – la consapevolezza della vita che sfuggiva, il desiderio di novità – s’era spinta ad andare fino a un certo limite, s’era spinta a guardare oltre… e non aveva visto l’abisso, no, ma il vuoto… o una mostruosità.

Turgenev, Padri e figli, Frassinelli, Milano, 1997, p.125.

Turgenev. Letteratura Russa. Romanticismo. La verità del mondo post-moderno rispetto alla tradizione.

“Penso: i miei genitori sì che vivono bene! Mio padre a sessant’anni si dà da fare, parla di ‘palliativi’, cura la gente, è generoso con i contadini, insomma se la spassa. E anche mia madre vive bene: la sua giornata è talmente zeppa di faccende d’ogni tipo, di ‘ah!’ e di ‘oh!’  che non ha neppure il tempo di pensare; mentre io…”

“Mentre tu?”

“Io penso: ecco, me ne sto qui sotto una bica… il posticino stretto stretto che occupo è talmente minuscolo in confronto al resto dello spazio in cui non sto e in cui nessuno sa niente di me… e la porzione di tempo che riuscirò a vivere è così insignificante rispetto all’eternità prima di me e dopo di me… E in questo atomo, in questo punto matematico circola il sangue, il cervello lavora, vuole anche qualcosa… Che cosa mostruosa! Che razza di sciocchezze!”

Turgenev, Padri e figli, Frassinelli, Milano, 1997, p. 151.

Turgenev. Letteratura Russa. Romanticismo. (a) Le donne sono sempre state molto consce dei loro “strumenti di seduzione”, (b) tutte le donne in tutte le società si premurano di essere capaci di integrazione rappresentazionale su “modelli stabiliti dalla convenzioni sociali”.

“Accidenti che allegria! Pensavo di trovarlo qui e di proporgli di fare una passeggiata con me. Me lo chiede sempre. T’hanno portato certe scarpe dalla città, va’ a provarle: ieri mi sono accorta che quelle vecchie erano tutte consumate. In generale tu non ti interessi tanto di queste cose, eppure hai dei piedini così graziosi! E anche le mani sono belle… però un po’ grandi. Perciò devi far colpo coi piedini. Ma tu non sei una civetta.”

Turgenev, Padri e figli, Frassinelli, Milano, 1997, p. 205.

Valzania. Storia. Modernità. La lentezza delle informazioni nell’età precedente alla rivoluzione industriale.

Come nelle occasioni precedenti, gli eventi si sviluppano con una lentezza che pare incredibile se confrontata con la rapidità con a quale avvengono oggi. Bisogna, però, considerare che nel Seicento gli uomini si spostano quasi solo a piedi e le informazioni possono farlo al più a cavallo. Ricostruire i termini della situazione, maturare una decisione al riguardo e attivare la reazione giudicata opportuna richiede, quindi, molto tempo. La trasmissione delle notizie avviene come al rallentatore: senza telefono, telegrafo, radio, ferrovie e automobili, le comunicazioni e gli ordini circolano molto lentamente. Di tutto questo non c’è consapevolezza, nessuno vede se stesso con gli occhi del poi. Ciò che non si conosce non può mancare.

Valzania S., Wallenstein, Mondadori, Milano, 2007, p. 54.

Valzania. Storia. Modernità. Le manie del Wallenstein: pulizia, meticolosità e odio del rumore.

Quanto alla sua persona, Wallenstein è un uomo strano e solitario. Ha pochi amici, forse nessuno a giudicare da come conclude la sua vita e anche da altri episodi a dir poco sconcertanti che la punteggiano. Molti di essi non ricadono nella categoria degli aneddoti né in quella dei gesti esemplari. Sappiamo che non si dimostra sensibile al fascino femminile. Marito affettuoso, ma lontano da casa e a lungo senza famiglia, non si attribuiscono storie d’amore e neppure debolezze che, in un ambiente pieno di spie e di informatori nel quale si scrive moltissimo e si comunica tutto quello che si riesce a sapere, non sarebbero passate inosservate. Anche chi è andato in caccia di sue passioni indirizzate verso altri uomini non ne ha trovato traccia. Per diversi aspetti l’immagine che se ne tramanda è quella di un maniaco. Wallenstein ama la pulizia in modo insolito per l’epoca nella quale vive. Tovaglie e tovagliolini devono essere lavati ogni colta che vengono usati. Inoltre, non sopporta i rumori. Nei borghi e nelle città dove soggiorna, le campane non devono battere le ore. Attorno a lui si parla sottovoce, prima di presentarsi al suo cospetto occorre togliersi gli speroni, dato che non ne tollera il tintinnio. UN aneddoto vuole che abbia mandato un corazziere della scorta a redarguire un ufficiale che ha visto in lontananza agitarsi mentre parla animatamente (…). In particolare, Wallenstein non ama i cani e non vuole sentirli latrare. Quando arriva con il suo seguito ci si affanna a farli sparire, per non correre il rischio che abbaino e il principe vada su tutte le furie. Anche i galli sono di solito destinati a una brutta fine, come pure i gatti randagi (…).

Valzania S., Wallenstein, Mondadori, Milano, 2007, pp. 73-74.

Valzania. Storia. Modernità. Gli usi dell’alta aristocrazia moderna e quelli di Wallenstein.

L’evento dominante è luttuoso e forse è quello che dà il colpo definitivo al suo carattere già ombroso, che gli fa disertare i convivi e i bagordi che pure all’epoca sono comuni, quasi d’obbligo, per le persone del suo ceto. Giovanni Giorgio di Sassonia è capace di stare per ore a tavola a mangiare e a bere, in silenzio, sbattendo il boccale vuoto sulla testa dei servitori seduti ai suoi piedi perché glielo riempiano di birra. Wallenstein è di pasta diversa: quando organizza un banchetto per i suoi collaboratori di solito non si presenta a tavola, ma cena da solo, lasciando che gli ospiti mangino e bevano smodatamente a sue spese senza di lui.

Valzania S., Wallenstein, Mondadori, Milano, 2007, p. 115.

Valzania. Storia. Modernità. Nel seicento non si fa niente per niente e ciò è manifesto negli usi e nelle convinzioni.

Nessuno fa niente per niente e questo, agli inizi del XVII secolo, rappresenta una verità scoperta, dichiarata in pubblico, moralmente accettata e riconosciuta. E’ convinzione diffusa che i servigi resi vadano ricompensati, anzi, che proprio nella dimensione del riconoscimento elargito stia la misura del gradimento per ciò che è stato fatto. Ogni azione trova il suo giudizio nelle conseguenze che provoca, e ciò deve avvenire a breve, in modo che il rapporto tra fatto e reso risulti evidente.

Valzania S., Wallenstein, Mondadori, Milano, 2007, p. 42.

Valzania. Storia. Modernità. La credulità sugli oroscopi si è conservata durante i secoli e anche nell’età moderna ci si crede, comprese figure razionali come Wallenstein.

L’altra versione è pittoresca, in sintonia con il clima di mister che sempre circonda Wallenstein. Merita di essere ricordata perché, se non descrive il personaggio storico, delinea la figura dotta di poteri quasi magici che si era andata formando nell’immaginario della gente. Secondo questa versione non sono gli emissari dell’imperatore a comunicare a Wallestein che è stato privato del comando dell’esercito. Avviene invece il contrario: è lui che illustra loro come e quando ha letto nelle stelle, grazie alla sua sapienza astrologica, che è terminato il suo periodo al comando dell’esercito imperiale. Perciò è perfettamente a conoscenza dello scopo della loro missione e non c’è bisogno di trasmettergli alcun messaggio da parte dell’imperatore. Le stelle gli hanno già detto tutto quello che c’è da sapere.

Valzania S., Wallenstein, Mondadori, Milano, 2007, p. 141.

Welles Orson. Cinema. Quarto potere.

« Only one man can decided what I’ll do: it’s me ».

Welles Orson. Citizen Kane. 1941.

Wittghenstein. Filosofia. Contemporanei. Logici.

« 5.632 Il soggetto non è parte ma limite del mondo. 5.633 Ove, nel mondo, vedere un soggetto metafisico? Tu dici che qui sia proprio come nel caso l’occhio e del campo visivo. Ma l’occhio, in realtà, tu non lo vedi. E nel campo visivo fa concludere che esso sia visto da un occhio. »

L. Wittghenstein. Tractatus logico philosoficus. Einaudi. Torino. 1998. Pag. 89.

Zenone ( Diogene Laerzio dice su… ). Filosofia. Eleati. Vita di Zenone.

« Ascoltò Parmenide e fu il suo amato… fu uomo eminentissimo sia in filosofia che in politica ».

F.S.

Zenone. Filosofia. Eleati. Paradosso.

« Se esistono molte cose allora sono simili e dissimili ».

F.S.


Giangiuseppe Pili

Giangiuseppe Pili è Ph.D. in filosofia e scienze della mente (2017). E' il fondatore di Scuola Filosofica in cui è editore, redatore e autore. Dalla data di fondazione del portale nel 2009, per SF ha scritto oltre 800 post. Egli è autore di numerosi saggi e articoli in riviste internazionali su tematiche legate all'intelligence, sicurezza e guerra. In lingua italiana ha pubblicato numerosi libri. Scacchista per passione. ---- ENGLISH PRESENTATION ------------------------------------------------- Giangiuseppe Pili - PhD philosophy and sciences of the mind (2017). He is an expert in intelligence and international security, war and philosophy. He is the founder of Scuola Filosofica (Philosophical School). He is a prolific author nationally and internationally. He is a passionate chess player and (back in the days!) amateurish movie maker.

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