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Tra relativismo e antirelativismo in epistemologia sociale

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Consigliamo – A cura di Giangiuseppe Pili e l’Introduzione schematica all’epistemologia


Abstract

L’articolo vuole riassumere due posizioni possibili di epistemologia sociale: una posizione relativista e una posizione non relativista. La prima è quella presentata da Paul Boghossian il quale, pur sostenendo tesi contrarie, si prende l’onere di costruire e presentare un argomento a favore di una forma di relativismo epistemologico circa la giustificazione e non i fatti. Dopo aver presentato alcune critiche, ci concentreremo sulla posizione canonica di Alvin Goldman, il quale ha presentato una teoria epistemica sociale fondata sulla valutazione dei soggetti (individuali e sociali) in chiave normativa i cui valori ultimi sono quelli di verità e falsità.


Struttura dell’articolo

1. Introduzione generale ai temi dell’epistemologia sociale

2. Il tema: relativismo e non relativismo in epistemologia sociale

3. Il relativismo così come viene formulato da Paul Boghossian

4. Critiche alla posizione relativista esposta in (3)

4.1 Il relativismo è un argomento che si autorifiuta

4.2 Il relativismo critica solamente il fondazionalismo classico e accetta una forma di coerentismo debole

4.3. Il relativismo fallisce proprio di fronte alla sfida di Galileo

5. La posizione non relativista di Alvin Goldman (2009)

Bibliografia consigliata


1. Introduzione generale ai temi dell’epistemologia sociale

L’epistemologia sociale è una disciplina che è nata tra gli anni ’80 e gli anni ’90 del secolo XX dalle riflessioni di Steve Fuller (1988) e Alvin Goldman (1987, 1999). Alvin Goldman, tra i più grandi epistemologi, è senza dubbio quello che ha maggiormente contribuito a fornire un inquadramento e una autorevolezza a questo ambito della filosofia analitica. Infatti, l’epistemologia analitica ha sempre avuto come problema principale la definizione di conoscenza proposizionale e della giustificazione (o stati di evidenza o giustificatori) per le credenze di un singolo soggetto indipendentemente da ogni considerazione di natura sociale. Questo vale sia per le posizioni interniste della conoscenza, sia per le posizioni esterniste (come quella di Robert Nozick – track theory -, Alvin Goldman – affidabilismo -, John Greco e Ernest Sosa – virtue epistemology). Allo stesso modo questo vale anche per le posizioni di epistemologia naturalizzata avviate da Quine (1969).

E’ ben risaputo sin da Hume (1740) che la testimonianza è una fonte autorevole di conoscenza che si fonda su almeno un altro individuo che non sia il soggetto singolo. Tuttavia, già Hume riconosceva che, di fatto, la testimonianza poteva essere scomposta, e razionalmente giustificata, sulla base degli altri modi di conoscenza (percezione, inferenza…). Rimane il fatto, però, che per la tradizione (da Cartesio a Kant) lo scopo stesso dell’analisi filosofica è stata quella di chiarire in che modo un singolo soggetto cognitivo potesse disporre di conoscenza. Se mai si desse il caso che effettivamente possa disporne.

Per le ragioni storico-filosofiche di cui qui si può soltanto accennare, l’idea di una conoscenza sociale è stata appannaggio delle scienze sociali di natura descrittiva, vale a dire la sociologia della conoscenza o certi tipi di psicologia. La filosofia della scienza è forse la disciplina filosofica che maggiormente si è avvicinata agli obiettivi dell’epistemologia sociale, ma è sempre stata vincolata all’obiettivo di descrivere e spiegare perché la scienza funziona bene, dando appunto per assodato il fatto che l’obiettivo sia proprio quello di comprendere la natura della scienza perché già in sé giustificata sul piano dei risultati.

L’epistemologia sociale è lo studio di come la conoscenza si produca e si diffonda nello spazio sociale. In questa dimensione l’individuo non è più l’unico oggetto di studio, perché quello che interessa è il risultato complessivo di un intero gruppo di persone, a prescindere dal fatto che la nozione di gruppo sia intesa in senso forte (ad esempio, soggetto giuridico) piuttosto che in senso debole (un insieme di individui senza legami particolari).

In questo senso l’epistemologia sociale si può declinare secondo tre principali obiettivi. Il primo è quello di descrivere le pratiche che diffondono la conoscenza. Il secondo è quello di valutare le pratiche in base a quanto esse producano conoscenza. Il terzo è quello di studiare la natura dei sistemi che producono conoscenza. Alvin Goldman (2015) così distingue tre generi di epistemologia sociale: (1) l’epistemologia sociale che valuta le condizioni generali grazie alle quali un soggetto può essere almeno giustificato nel credere in una proposizione acquisita mediante testimonianza e come gestire le condizioni di disaccordo tra esperti; (2) l’epistemologia sociale che valuta a quali condizioni si possono ascrivere conoscenze a gruppi e (3) l’epistemologia sociale che studia specifici sistemi per diffondere o produrre conoscenza.

L’epistemologia sociale non è la sociologia della scienza o la filosofia della scienza. L’epistemologia sociale, in quanto disciplina filosofica, è comunque normativa, vale a dire che studia le condizioni di razionalità tali per cui, sulla base di criteri e condizioni, si può valutare un certo fatto come dotato di certe proprietà epistemiche. In secondo luogo, l’epistemologia sociale ha un intento più ampio rispetto alla filosofia della scienza, perché non restringe il campo di studio alla sola ricerca scientifica (anche, ma non solo) e considera quindi un ampio ventaglio di problemi in cui la conoscenza è l’obiettivo finale: il sistema giudiziario, il libero mercato delle idee, lo studio dell’impatto editoriale, l’analisi di società che hanno come scopo la produzione e diffusione di conoscenza (giornali, riviste, libri, wikipedia etc.).

2. Il tema: relativismo e non relativismo in epistemologia sociale

Uno dei problemi dell’epistemologia sociale consiste nel fornire una fondazione ultima a ciò che possiamo ascrivere come conoscenza. In questo senso, si possono avere più possibili approcci in cui la risposta è affermativa piuttosto che negativa. Ad esempio, la conoscenza nelle scienze sociali è, spesso, considerata solamente una credenza condivisa tra i gruppi di una certa società. Quindi se tutti credono che p si può dire che p è conoscenza comune. Il problema è che se p fosse falsa, allora non è chiaro se tutti coloro che credono che p sanno che p (ad esempio, tutti si convincono che l’Everest è alto 3 metri. Secondo questa posizione sarebbe conoscenza condivisa il fatto che l’Everest sia alto tre metri!). Secondo costoro, infatti, la stessa nozione di verità è questionabile perché in funzione delle stesse credenze dei membri di un certo gruppo di individui (quindi tutto viene definito in funzione delle credenze condivise che sanciscono sia ciò che è oggetto di conoscenza sia ciò che è vero. Un radicale sostenitore di simili tesi è stato Michael Foucault (1975)).

Dall’altro lato ci sono quelli che rivendicano l’idea che la conoscenza attenga alle sole proposizioni vere e giustificate (almeno). In questo senso, la conoscenza non è indipendente dalle credenze dei singoli, ma è in funzione della verità stessa della credenza la quale non dipende da ciò tutti o i più pensano, ma dal fatto che tali credenze siano vere in senso forte, vale a dire che ad esse corrisponda uno stato di cose nella realtà che renda vera la proposizione creduta. In questo senso i non relativisti rivendicano l’idea che non soltanto esistano dei fatti indipendenti dalle credenze dei soggetti, ma che siano proprio questi fatti a rendere vere le nostre credenze in certe proposizioni (se p è vera è perché c’è un fatto che rende vera p). Le nostre credenze saranno vere a condizione che esista un fatto che le renda vere.

Inoltre, c’è un altro punto fondamentale della contesa, vale a dire ciò che un soggetto può considerare come evidenza. Un relativista sulla nozione di giustificazione nega la condizione che esistano delle evidenze decisive (per esempio, che sconfiggono tutte le evidenze negative – anche se si dà raramente questo caso, qui è per dare un’idea). In generale, egli potrebbe difendere l’idea, piuttosto di buon senso, che possono esistere due sistemi epistemici S1 e S2 tali che S1 giustifichi la credenza in p e S2 giustifichi la credenza in non p. Detto meglio, potrebbero esistere due sistemi epistemici (insiemi di assunti sulla base dei quali derivare l’evidenza) S1 e S2 tali che il soggetto A assumendo S1 crederebbe giustificatamente nella proposizione p e il soggetto B assumendo S2 crederebbe giustificatamente nella proposizione non p e nessuno dei due sarebbe nella posizione per rivendicare di avere una ragione ultima sull’altro per la sola ragione di avere un sistema epistemico da cui trae il suo corpus di evidenza.

Si faccia caso che qui non c’è scetticismo. Il relativismo non è affatto sinonimo di scetticismo epistemico. Infatti, qui si sostiene che due soggetti cognitivi non solo dispongono di credenze (opinioni) ma che tali credenze sono sostenute da evidenza (i sistemi epistemici) e che sono anche razionali nel trarre evidenza dai loro sistemi epistemici. Questo è esattamente il contrario di ciò che vorrebbe uno scettico, il quale si limiterebbe a negare la legittimità stessa delle nozioni di evidenza, conoscenza e credenza. Quello su cui scettico e relativista potrebbero convergere è la nozione di verità, ma anche qui: il relativista sosterrebbe che la verità è debole (ne esiste più di una in base a ciò che più soggetti credono) mente lo scettico nega la stessa nozione di verità (non ce n’è).

E’ curioso osservare come la percezione del relativista e dello scettico possa sembrare simile solamente perché entrambi negano l’unicità della verità: c’è in questo una alleanza momentanea su un punto di valenza tattica! Ma nel caso del relativista c’è addirittura una esplosione di verità mentre nel caso scettico c’è l’annichilimento totale. E quindi è molto più lontano il relativista dallo scettico di quanto lo sia un non relativista!

La partita, dunque, si gioca su alcuni problemi: che (a) esista o non esista una forma di verità obiettiva o oggettiva, per questo (b) esistano o non esistano dei fatti indipendenti dalle credenze dei soggetti, (c) che sussista una qualche tipologia di giustificazione per le credenze di un soggetto. In base a come si risponde ai punti (a-c) si potrà poi considerare l’obiettivo finale: il trattamento della conoscenza e di come e quali condizioni essa sia possibile o non possibile. Nel prossimo paragrafo portiamo una versione del relativismo epistemico sul punto (c), il vero e proprio problema epistemologico.

3. Il relativismo così come viene formulato da Paul Boghossian

Sia detto subito che il relativismo presentato da Paul Boghossian non è la posizione epistemica di Paul Boghossian. Questo è bene dirlo sin da subito per fugare i dubbi che potrebbero sorgere dalla lettura di Epistemic Relativism Defended, che è un saggio della raccolta Social Epistemolgy Essential Readings: “Although Boghossian does not endorse this relativist view, he formulates, motivates, and explores it in a charitable spirit”.[1] Si dica che Boghossian riesce effettivamente ad avere uno “charitable spirit” tale che chi non sappia quale è la sua posizione, potrebbe finire per credere che egli sia effettivamente un genuino sostenitore del relativismo epistemico quando, invece, egli ha sempre fornito dure critiche. Fugati i dubbi ad personam, possiamo procedere oltre.

L’analisi di Boghossian si incentra sul problema di come i soggetti cognitivi si formano credenze giustificate (rational beliefs). Egli propone il caso paradigmatico del cardinale Bellarmine e Galileo. I due soggetti cognitivi credevano rispettivamente in p e non p, e non semplicemente per caso, ma perché essi disponevano di due sistemi epistemici, S1 e S2 tali che l’uno era poteva trarre evidenze a favore di p mentre l’altro poteva trarre altre evidenze a favore di non p. Non esistendo fatti epistemici tali da garantire ipso facto la legittimità di una sola credenza, esistendo quindi più possibili sistemi epistemici concorrenti, non si può affermare che il cardinale Bellarmine non fosse giustificato tanto quanto Galileo nel credere quello che credeva. Il fatto che un lettore del XXI secolo possa inarcare le sopraciglia con un certo sovrano sospetto circa questa equiparazione, secondo Boghossian citando e riprendendo esplicitamente Richard Rorty, è per via della propaganda che, da Cartesio in poi, è stata fatta a favore della scienza contro altri sistemi epistemici.

Boghossian, quindi, si impegna a difendere una posizione relativista ma deve fornire degli argomenti a difesa del fatto che il cardinale e Galileo fossero entrambi giustificati nel credere ciò che credevano. L’argomento è incentrato sul fatto che nessun sistema epistemico è di per sé autogiustificato da un punto di vista epistemico. In questo senso, scegliere un certo sistema epistemico piuttosto che un altro potrebbe essere solo una questione di gusti, come sembrano suggerire le citazione di Wittgenstein (Sulla certezza), riportate in Boghossian (2011):

609. Supposing we met people who did not regard that as a telling reason. Now, how do we imagine this? Instead of the physicist, they consult an oracle. (And for that we consider them primitive). Is it wrong for them to consult an oracle and be guided by it? – If we call this «wrong» aren’t we using our language-game as a base from which to combat theirs? 610. And are we right or wrong to combat it? Of course there are all sorts of slogans which will be used to support our proceedings. 611. Where two principles really do meet which cannot be reconciled with one another, then each man declares the other a fool and a heretic. 612. I said I would “combat” the other man, – but wouldn’t I offer him reasons? Certainly, but how far would they go? At the end of reasons comes persuasion. (Think what happens when missionaries convert natives).[2]

L’argomento non è mirato contro l’esistenza dei fatti tout court ma del fatto che noi arriviamo alla ʽconoscenzaʼ mediante l’evidenza a nostra disposizione, a sua volta fondata su alcuni principi. Insiemi di principi fondamentali per la nostra formazione di nuova evidenza sono i sistemi epistemici. Il relativista vuole puntare la sua critica circa il fatto che esista un unico insieme di principi epistemici tali da fornire una scala gerarchica di sistemi epistemici, vale a dire poterli ordinare in base alla loro migliore o peggiore capacità di indurre conoscenza. Questo non è possibile perché non esisterebbe un solo insieme di principi né una sola tipologia di fatti che garantiscano l’evidenza. Non essendoci unicità, non arrivando fino alle porte dello scetticismo, l’unica strada rimasta è quella del relativismo.

L’idea, in sintesi, è questa: esistono i fatti, ma noi non abbiamo mai la piena trasparente corrispondenza tra le nostre credenze e i fatti che vorremmo sapere. Quindi noi possiamo solo supporre che una certa credenza sia vera o falsa, ma non ne possiamo essere sicuri. La nostra maggiore o minore certezza dipende dall’insieme di principi che sostengono una nostra credenza piuttosto che la sua contraria. Dato il fatto che due soggetti cognitivi possono disporre di sistemi epistemici diversi, perché costituiti da insiemi di principi diversi, non possiamo che concluderne che non esiste un unico sistema di principi grazie ai quali discriminare quale tra due sistemi epistemici qualunque siano più o meno validi da un punto di vista epistemico. Sicché tra il sistema epistemico di Bellarmine e il sistema epistemico di Galileo non si può trarre alcun giudizio definitivo in materia di giustificazione.

Per rendere plausibile questo argomento, bisogna fornire una difesa dell’idea che non esista un unico insieme di principi epistemici tali che grazie a questi si possano valutare tutti i singoli sistemi epistemici. In altre parole, quel che si vuole difendere è il fatto che ogni sistema epistemico specifico è valido quanto gli altri perché non esiste un ulteriore insieme di principi epistemici che ha come oggetto i sistemi epistemici dei singoli. E’ questo che il relativista deve ottenere per raggiungere la frantumazione e relativizzazione dell’evidenza.

Infatti, un non relativista può benissimo accettare l’esistenza dei vari insiemi di principi epistemici disgiunti e distinti per ogni individuo, ma quello che non può accettare è il fatto che questi siano equivalenti in senso assoluto. Se sono equivalenti, lo sono appunto sulla base di una serie di condizioni, tali che esse sono la garanzia che ogni specifico sistema epistemico le rispetti: se due sistemi epistemici distinti S1 e S2 rispettano le condizioni G allora S1 e S2 sono epistemicamente equivalenti. Ma se solo uno dei due sistemi S1 e S2 rispetta le condizioni G, ad esempio S1, allora S2 è epistemicamente inferiore rispetto a S1. Questo è esattamente quello che non vuole sostenere il relativista, per il quale non esiste alcun insieme unico e ristretto di norme G grazie alle quali discriminare i vari sistemi epistemici. La sua idea è, piuttosto, quella di chi sostiene che esista almeno un insieme di condizioni che garantiscono tutti i principi epistemici dei singoli soggetti oppure che li delegittimino, se questi violano le condizioni.

L’argomento (ri)costruito da Boghossian è il seguente: non c’è alcun sistema epistemico tale da essere di per sé autogiustificato ma è solo capace di portare evidenza delle singole credenze. Il nostro modo di formare le regole è, in generale, per generalizzazione da casi specifici: se vedo una forma che mi sembra un cane, dato il fatto che per lo più che mi pare di vedere un cane c’è un cane di fronte a me, allora sono giustificato nel credere che ci sia effettivamente un cane di fronte a me per percezione. Da ciò posso poi generalizzare: “sono giustificato nel credere nelle credenze formate via percezione…”. Se il nostro modo di costruire i principi epistemici è questo, o in generale potrebbe seguire questa ricostruzione razionale, allora si possono legittimamente formulare anche principi meno banali tramite cui trarre evidenza: “L’oracolo predisse correttamente tutte le battaglie dell’antica Grecia… quindi un soggetto che si formasse credenze sulla base degli oracoli sarebbe giustificato in quelle credenze”. Stando alla formulazione precedente, è legittima la possibilità di assumere come legittimi principi che includano oroscopi, oracoli, aruspici etc..

In sostanza, non ci sono assoluti fatti epistemici tramite cui trarre tutta la nostra evidenza a favore di una certa credenza. Se il giudizio di un soggetto cognitivo ha qualche possibilità di essere vero, allora non è lecita la forma ʽE giustifica la credenza Bʼ ma bisogna piuttosto asserire qualcosa del tipo: secondo il sistema epistemico C, tale che il soggetto B crede che p in base a C allora B ha evidenza per credere che p sulla base di C. Il punto è che questo fantomatico sistema epistemico C è ovviamente non unico, perché dipende dalla sua formulazione, che può includere principi distinti.

L’argomento per il relativismo epistemico è il seguente:

1. Se ci fossero assoluti fatti epistemici su ciò che giustificato cosa, allora sarebbe possibile arrivare alle credenze giustificate su quelli.

2. Non p possibile arrivare a formarsi credenze giustificate su ciò che tali fatti epistemici sono.

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3. Non ci sono fatti epistemici assoluti (per 1 e 2).

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4. Se non ci sono fatti epistemici, allora il relativismo è corretto (per (3).

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5. Il relativismo è corretto (per 4).

In definitiva, la posizione relativista proposta da Paul Boghossian in (2011) difende l’idea che, non esistendo fatti epistemici non controversi, non potendo fondare la legittimità dei sistemi epistemici esclusivamente su se stessi, se ne conclude che esistono più sistemi epistemici legittimi e nessuno può avocare l’unicità sugli altri senza sconfinare in una forma di abritrarismo-autoritarismo epistemico che non è lecito, sulla base di tutti agli argomenti considerati. In questo senso, wittgensteinemente si può concludere che si riduce tutto ad una questione di preferenze di tifoseria. Insomma, tra Galileo e Bellarmine non c’era alcuna differenza, se non il fatto che Bellarmine aveva il coltello della parte del manico. Che, se ben formulato nella testa di qualcuno (in tutti i casi in cui abbiamo il coltello dalla parte del manico avevamo ragione, allora tutti coloro che credono a p sulla base del fatto che hanno il coltello dalla parte del manico sono giustificati), può diventare un buon principio per un buon sistema epistemico (e Torquemada, lui si, l’aveva capito benissimo).

4. Critiche alla posizione relativista esposta in (3)

4.1 Il relativismo è un argomento che si autorifiuta

Questa prima critica è quella mossa da Alvin Goldman (1999, 2009) e per lui può considerarsi addirittura sufficiente a squalificare il relativismo. L’idea della critica è la seguente. Se il relativismo va preso sul serio, allora una qualunque argomentazione non è valutabile sulla base di altro che non delle sue premesse, a loro volta impossibili da valutare: cambiando le premesse cambia l’argomento e la giustificazione relativa. Questa l’idea, veniamo ora all’argomento vero e proprio.

Il relativista vuole sostenere che due sistemi epistemici S1 e S2 sono entrambi capaci di fornire giustificazione per due credenze distinte e opposte, p e non p. Per tanto non si possono ordinare in modo da riconoscere il più idoneo dal punto di vista epistemico perché, semplicemente, non c’è una funzione capace di fornire questo ordine, dato il fatto che tutti si è giustificati a credere in quello che il nostro sistema epistemico ci legittima nel credere (ci giustifica nel credere). Ma se questo è vero, allora anche lo stesso argomento del relativista non può pretendere di avere maggiori ragioni di quello che sta cercando di contrastare, nella misura in cui esso stesso non può essere stimato migliore di un altro dal punto di vista epistemico. Il relativista non è altro che un soggetto cognitivo che assume un certo sistema epistemico, diciamo S1, tale per cui non può pretendere di avere maggiori ragioni di un non relativista con un sistema epistemico diverso (a fortiori), diciamo S2. Quindi, se il relativismo ha ragione, allora non ha più ragione del non relativista proprio sulla base dei motivi che egli stesso ha elencato contro la posizione non relativista.

Questo argomento mostra che, se il relativista ha ragione, allora per la stessa ragione egli non può pretendere di avere più ragione di nessun altro. E quindi, in definitiva, relativizzando la nozione di giustificazione, finisce per renderla quasi vuota e non poter neppure difendere se stessa. In realtà, in questo si adombra una forma di paradosso dove se il relativista propone una sola forma di relativismo, allora egli è un non relativista mascherato da relativista (in fondo c’è un modo di pensare ai principi epistemologici, che poi si declinano in molti modi. Ma come c’è una sola religione e mille sette, quelle mille sette si considerano di una sola religione…). D’altra parte, non si vede come il relativista possa portare più alternative in chiave relativista, nella misura in cui l’alternativa al relativismo è proprio una posizione non relativista. E allora il relativismo sembra giungere ad un irrimediabile paradosso nocivo, perché insolubile (in entrambi i casi cede le armi al non relativista).

4.2 Il relativismo critica solamente il fondazionalismo classico e accetta una forma di coerentismo debole

Questa seconda critica punta il dito sul fatto che il relativista critica esclusivamente una delle varie forme di trattamento della giustificazione, vale a dire il fondazionalista classico (ad esempio Cartesio). Il fondazionalista classico è colui che, per evitare il regresso all’infinito rispetto a ciò che garantisce la nostra giustificazione in una certa credenza p, assume che esistano dei principi a loro volta non giustificati sulla base di altri, ma capaci di giustificare ogni altro principio. Esisterebbe, quindi, un insieme di principi tali che essi sono (a) finiti e (b) autogiustificati e (c) capaci di giustificare ogni altra credenza. Per tale ragione, infatti, il relativista, nella ricostruzione presentata da Boghossian (2011), utilizza un argomento tratto dal classico scetticismo pirroniano, anche se leggermente più elaborato.

Lo scetticismo pirroniano sosteneva che ci sono solo due possibilità per giustificare una credenza: (a) giustificarla su di un’altra oppure (b) essa stessa è autogiustificata. Se ogni credenza è giustificata sulla base di un’altra allora si giunge ad un regresso all’infinito. D’altra parte, chi è che stabilisce quali sono le credenze autogiustificate? Il relativista costruisce un argomento leggermente più sottile. Egli sostiene che ogni principio epistemico è formulato sulla base di una generalizzazione, cioè una peculiare forma di induzione (se cento x sono y, allora il centounesimo x è un y). Ma la stessa generalizzazione sulla base di un ragionamento induttivo è a sua volta un principio epistemico che va giustificato. Nella misura in cui questo non può essere fatto sulla sola base di un ragionamento induttivo (il ragionamento induttivo non consente di stabilire la propria validità dal punto di vista epistemico per gli argomenti sopra), se ne conclude che nessun principio epistemico è meglio di un altro.

Questo genere di argomenti colpisce esclusivamente il fondazionalista classico ma non la maggioranza delle forme di esternismo (ad esempio l’affidabilismo o il funzionalismo). Ed è anche discutibile che esso sia capace di colpire anche alcune forme di internismo (almeno il mentalismo). In fine, se l’obiettivo è quello di minare la possibilità di analisi filosofica alle fondamenta, allora, nuovamente, si ritorna ad un argomento che consente di essere egli stesso attaccato dalle sue stesse conclusioni. E quindi si tratterebbe di una forma argomentativa che, se è vera, allora è falsa o, per essere più precisi, se l’argomento è valido allora è invalido. E quindi non può che essere invalido.

In fine, il relativista concede che esista una forma di principio superiore che garantisce universalmente giustificatezza. Ed è appunto la coerenza di una certa credenza rispetto al sistema epistemico che la giustificherebbe. L’esempio di Galileo e Bellarmine è emblematico. Se entrambi erano giustificati nel credere rispettivamente a p e non p, allora essi erano giustificati per via di due sistemi epistemici distinti, S1 e S2, tali che S1 giustifica p e S2 giustifica non p. Ma sulla base di cosa i sistemi epistemici S1 e S2 giustificano le proposizioni p e non p? Sulla base della coerenza che p intrattiene rispetto a S1 e sulla base della coerenza che non p intrattiene con S2. Quindi, a ben vedere, esiste un principio che giustifica ogni credenza, anche se la giustificatezza dipenderà, poi, dagli specifici principi epistemici adottati: si tratta del principio di coerenza di una credenza rispetto al sistema epistemico di riferimento. Questo si evince anche rispetto alla formulazione della giustificazione di una certa credenza rispetto ad un particolare sistema epistemico formulata da Paul Boghossian.

Se le cose stanno così, allora, esiste almeno un principio epistemico che vale per ogni sistema epistemico ed è addirittura un solo principio che garantisce ogni forma di giustificazione per le singole credenze dei vari soggetti. Allora il relativista, in questo caso, non è altro che un non relativista mascherato dal fatto che sostiene che ogni soggetto cognitivo ha in pratica evidenze diverse rispetto a chi ha un sistema epistemico diverso, ma ha in sostanza ragione di credere in ciò che crede sulla base di quell’unico principio su cui si fonda ogni formazione di evidenza a supporto di una certa credenza.  Ed era proprio quanto dicevamo circa la fine del punto (I).

4.3. Il relativismo fallisce proprio di fronte alla sfida di Galileo

Questo terzo argomento vuole mostrare che se il relativista ha ragione, allora (1) non consente di discriminare i sistemi epistemici dal punto di vista della conoscenza (e quindi disattende uno dei desiderata stessi della teoria della conoscenza), (2) non fornisce una sufficiente spiegazione di ciò che accade, cioè ha una bassa capacità esplicativa e (3) fallisce sfide pratiche. Andiamo quindi con ordine.

La sfida lanciata al relativista è proprio motivare perché la scienza ha potuto fare quel che nessun altro sistema epistemico è riuscito a fare. In fondo, il fatto che ognuno formuli dei principi epistemici diversi dagli altri non interessa a nessuno o, per meglio dire, è un fatto abbastanza ovvio. Ma quello che il relativista vorrebbe sostenere è che ogni sistema epistemico vale quanto un altro dal punto di vista della giustificazione. Se le cose stanno così, allora perché i risultati dei vari sistemi epistemici non sono equivalenti? Un astronomo e un esperto di oroscopi giungono a delle conclusioni assai lontane e non sembra che l’esperto di oroscopi sia molto bravo nel formarsi credenze sul mondo. Dato il fatto che quasi tutti gli epistemologi concordano nel sostenere che se una credenza è giustificata allora il suo grado di probabilità di essere vera è tanto più alto quanto è più alto il grado di giustificazione, allora non si vede come il relativista possa spiegare l’asimmetria dei risultati dello scienziato e dell’esperto di oroscopi. Per lui sarebbe soltanto un risultato casuale, nel qual caso, allora, non ha neppure senso di parlare di conoscenza e giustificazione. E allora il relativista diverrebbe soltanto uno scettico.

Il punto sopra è intrinsecamente legato con il fatto che (2) il relativista non sembra fornire una spiegazione sufficiente di ciò che accade, ovvero del motivare il perché di fatto la scienza si è imposta come sistema per produrre credenze giustificate sul mondo e il suo alto grado di attendibilità relativa e comparata. Secondo il relativista, la vittoria di un certo sistema epistemico dipende dalla quantità di persone che sono disposte ad assumerlo sulla sola base di ragioni di preferenza non epistemiche (questo, almeno, nella presentazione della preferenza epistemica su basi di scelta individuale fondata esclusivamente su desiderata non epistemici). Cioè un sistema epistemico non sarebbe scelto sulla base della sua capacità di giustificare credenze vere sul mondo, ma solo sulla base di quanto un soggetto vuole credere sulla base di ragioni che con la conoscenza non c’entrano affatto. Eppure questo sembra proprio in contrasto con l’esempio di Galileo.

Innanzi tutto, nel periodo Galileo faceva senza dubbio parte di una stretta minoranza che certamente non aveva il coltello dalla parte del manico. Dato il fatto che Galileo si considera il primo scienziato dell’età moderna, anche ammesso che durante la sua vita ci fosse qualche altro scienziato, va da sé che erano comunque una minoranza rispetto alla quantità di persone disposte a credere alle proposizioni delle Sacre Scritture. Ma, allora, se Galileo ha finito per prevalere sul lungo periodo, nonostante non avesse il coltello dalla parte del manico, ci sarà stata una ragione. Questa ragione sembra il fatto che per tutti coloro interessati a raggiungere la conoscenza del mondo, il suo metodo (sistema epistemico) fosse decisamente più capace di (a) formare verità e (b) consentire giustificazioni su credenze il cui grado di verità, pur non conosciuto, era più probabile di quelle formate attraverso sistemi epistemici diversi e concorrenti. In parole povere, Galileo aveva spesso più ragione degli altri. Come disse Napoleone, non ci si siede sulle baionette. Se questo è vero in guerra, figuriamoci dove non ci sono che poche baionette e neppure tenute da chi ha ragione.

In definitiva, quindi, il relativismo non sa spiegare perché ha vinto proprio la scienza sulla religione (semplificando di molto…) in materia di astronomia. Anche perché fornire una ricostruzione razionale di quanto accaduto, quindi motivando il fatto che una certa ragione abbia vinto su un altra in forza di qualsiasi argomento, è una spiegazione che il relativista non può fornire senza pretendere che questa spiegazione sia a sua volta una tra le tante. Se ci fosse una sola spiegazione, allora che valore dare a questa spiegazione? Nuovamente il relativista dovrebbe concedere che la sua analisi esplicativa è quella che consente di formarsi la maggiore giustificazione sulle credenze formate su quegli eventi passati. Che, ancora una volta, è ciò che gli è precluso a priori. Alternativamente egli accetta di raccontare una storia priva di grande potenza esplicativa. E allora non si capisce perché spendere tempo e risorse per scriverla e per leggerla.

Proprio per quanto appena scritto, (3) il relativismo fallisce nella sfida pratica. Infatti, esso non sa motivare perché una certa teoria epistemica consente di formare credenze giustificate sul mondo tali che grazie ad esse possiamo efficientemente modificare il mondo. Infatti, stando alla sua posizione, ogni credenza giustificata dipende da sistemi epistemici diversi. E quindi ogni sistema epistemico dovrebbe consentire la stessa capacità di intervento sul mondo. Ma questo è palesemente falso proprio perché solo alcuni sistemi epistemici consentono di formare più credenze vere che false, ovvero di giustificare proprio le credenze vere e, quindi, consentono di poter giungere a nuove credenze vere giustificate sulla base di altre e precedenti credenze vere e giustificate. Quindi, il relativista fatica, se non fallisce, a spiegare perché la scienza ha consentito lo sviluppo di tecnologie il cui impatto sul mondo è tanto efficace in funzione a quelli che erano sia obiettivi epistemici che non, ma che comunque richiedevano conoscenza sul mondo per esistere.

5. La posizione non relativista di Alvin Goldman (2009)

Alvin Goldman ha esposto la sua teoria epistemologica sociale in diversi lavori (classici sono Goldman (1987, 1999, 2009)). Inoltre egli è tornato sulla social epistemology anche più recentemente (ad esempio Goldman (2011, 2012)). La sua posizione è senza dubbio una delle più influenti nel panorama epistemologico sociale.

In generale la sua posizione in epistemologia vuole difendere l’idea che la valutazione epistemica deve essere in funzione della quantità di verità che i singoli o le società sono in grado di produrre e diffondere nel restante spazio sociale. Secondo questo punto di vista lo scopo stesso dell’epistemologia sociale consiste proprio nel riuscire a discriminare le pratiche che aumentano le credenze vere nello spazio sociale. Goldman parla di verità, più che di conoscenza perché la conoscenza o, almeno, la credenza giustificata, sono problemi controversi nell’epistemologia analitica tradizionale. Mentre sono tutti concordi, internisti ed esternisti, sul fatto che la verità sia un valore essenziale da un punto di vista epistemico. Quindi la sua proposta si focalizza sulla verità piuttosto che su principi di giustificazione o che garantiscono la giustificazione se appresi. L’argomento è il seguente:

1. Lo scopo dell’epistemologia consiste nell’acquisire verità e ottenere credenze giustificate.

2. Gli scopi epistemologici si possono considerare come i valori epistemologici.

3. Vale di più la credenza vera rispetto alla credenza falsa.

4. Per (III) è possibile analizzare il valore di verità come un fatto di gradi tale che la verità è meglio dell’indecisione tra due credenze alternative che è a sua volta meglio della falsità.

5. (IV) conta come descrizione dell’ordinamento tra valori epistemici.

6. Il valore della verità è alternativo al valore sulla giustificazione.

Grazie all’argomento precedente, si legittima la possibilità di analizzare da un punto di vista normativo le singole pratiche sociali, cioè quelle che coinvolgono la diffusione delle credenze vere rispetto allo spazio sociale. Quindi, in generale, tutte le pratiche tra i soggetti cognitivi che alterano il complessivo insieme di credenze di altri soggetti cognitivi (quindi si suppone che l’analisi non sia rivolta esclusivamente ai singoli ma a relazioni tra singoli e gruppi di individui sino a giungere a istituzioni). Per questa ragione l’epistemologia sociale di Alvin Goldman è interessata alla valutazione e qualificazione delle varie società.

Una possibilità di valutazione delle società consiste nell’analizzare quelle che garantiscono la maggiore diffusione di verità rispetto alla falsità. Questo riecheggia la posizione affidabilista di Goldman in sede individuale. Tuttavia, egli propone di allargare l’analisi non più alle sole società che producono più credenze vere che false quanto a quelle che in generale hanno un impatto da un punto di vista generale sulla formazione di credenze vere o false nel restante spazio sociale (cioè l’insieme di individui coinvolti). Infatti, secondo il punto (IV) le società che producono più credenze vere che false sono migliori di quelle che producono più credenze false che vere. Ma potrebbe non essere sempre corretto. Infatti, ci possono essere delle situazioni in cui il risultato desiderato non è l’aumento delle credenze vere, quanto quello di quelle false. In condizioni di guerra alcuni fatti devono essere celati, alcune credenze non devono mai essere formulate in modo che siano vere. Oppure la sicurezza individuale può passare dalla privacy, sicché bisogna salvaguardare l’ignoranza delle persone circa alcuni dati che, se accessibili, potrebbero essere particolarmente pericolosi (si veda Pili (2015)).

Per queste ragioni Goldman passa da una valutazione puramente funzionale della società in base alla produzione di verità ad una posizione più generale in cui il valore ultimo è sempre la diffusione di un valore di verità rispetto alle credenze nei soggetti, ma non c’è più necessariamente l’equazione: verità = valore sommo dell’epistemologia sociale. A differenza che l’epistemologia individuale, in cui il valore della verità è indubbiamente vincolante, nel caso dell’epistemologia sociale le cose stanno diversamente, tanto più che può essere utile comprendere in che modo la razionalità epistemologica sociale può richiedere un interazione complessa tra ignoranza, verità e falsità. Questo era riconosciuto sin da Platone. Il tentativo di trovare e chiarire l’equilibrio varia in base agli obiettivi e alla situazione ed questa l’indagine più importante dell’epistemologia sociale, secondo Goldman. Quindi presentiamo l’argomento della riforma dell’epistemologia sociale veristica di Goldman:

1. Il valore della verità può rimanere centrale all’epistemologia sociale (SE) ma non è l’unico.

2. In alcuni contesti istituzionali è desiderabile implementare diverse politiche informative, tali che la razionalità ultima sia quella di minimizzare la verità piuttosto che di massimizzarla.

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3. Per alcuni individui può essere preferibile il valore epistemico dell’ignoranza rispetto alla conoscenza (per 1&2).

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4. Il valore epistemico coincide con il valore di verità che non è equiparato a “verità e falsità” come estremi di qualità. (Per 2&3)

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5. L’SE indaga gli stati di veridoxastici delle credenze (veridoxic states).

Def. stato veridoxastico: uno stato di cose formato da (a) una certa attitudine doxastica (ad esempio, una credenza) e (b) un valore di verità (o vero o falso).

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6. L’SE non è più vincolata alla sola valutazione delle società in funzione della formazione di credenze vere. (Per 4&5).

Per l’argomento sopra, Goldman assume che l’epistemologia sociale non debba accontentarsi di valutare le società in funzione della verità ma in generale rispetto ai valori di verità complessivi. Quindi egli non annulla la funzione di valutazione delle società in base alle credenze degli individui, quanto egli annulla la funzione di ordinamento e preferenza delle società da un punto di vista epistemico, in funzione esclusivamente dell’impatto della verità, ma semplicemente si informa di come una certa società produca una certa quantità di verità, piuttosto che di falsità e si considera il desiderata sociale veristico di riferimento. Se una società ha come scopo stesso quello di produrre più credenze vere (ad esempio, un gruppo di scienziati) allora si può valutare in funzione del rapporto verità/falsità prodotte o che ci si aspetta che produca e si stima buona quella società che produce più credenze vere. Nel caso, invece, di un sistema crittografico si può valutare in funzione della sua capacità di rendere inaccessibile l’informazione criptata (cifrato) e quindi della capacità di mantenere inalterato lo stato di ignoranza relativo. E così via.

In definitiva, la posizione di Goldman è quella di chi vuole valutare un mezzo in funzione di un valore complessivo che, a sua volta, può essere differente nelle richieste. Un progetto ingegneristico dipende dagli obiettivi stessi di ciò che si vuole prodotto. Goldman fa l’esempio del ponte: in talune circostanze si vuole che esso sia più solido o meno solido. Quello che l’ingegnere può fare è mostrare come si può costruire un ponte più solido o meno solido ma non è tenuto a stabilire quale dei due sia intrinsecamente migliore per la semplice ragione che questa selezione dipende dal fine per cui si sta progettando il ponte: se esso non deve consentire il passaggio di carri armati (così l’esempio), esso non deve consentire la sopportazione del peso dei carri armati. Quindi un ponte non assolutamente solido può però essere il migliore dei ponti in base ai desiderata per cui lo si sta costruendo. L’epistemologia sociale, dunque, deve essere sempre capace di valutare in funzione dei soli valori epistemici di verità e falsità le varie società e istituzioni, ma ciò non implica che per forza la verità sia quello che si vuole ottenere. Quello che si vuole ottenere è una valutazione corretta.


Bibliografia consigliata

Boghossian P., (2011), “Epistemic Relativism Defended”, in Social Epistemology Essential readings, Edited by Alvin Goldman & Dennis Withcombe, Oxford University Press, Oxford.

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[1] Withcomb, Goldman (2011), p. 4.

[2] Boghossian (2011), pp. 45-46.


Giangiuseppe Pili

Giangiuseppe Pili è Ph.D. in filosofia e scienze della mente (2017). E' il fondatore di Scuola Filosofica in cui è editore, redatore e autore. Dalla data di fondazione del portale nel 2009, per SF ha scritto oltre 800 post. Egli è autore di numerosi saggi e articoli in riviste internazionali su tematiche legate all'intelligence, sicurezza e guerra. In lingua italiana ha pubblicato numerosi libri. Scacchista per passione. ---- ENGLISH PRESENTATION ------------------------------------------------- Giangiuseppe Pili - PhD philosophy and sciences of the mind (2017). He is an expert in intelligence and international security, war and philosophy. He is the founder of Scuola Filosofica (Philosophical School). He is a prolific author nationally and internationally. He is a passionate chess player and (back in the days!) amateurish movie maker.

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