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La meritocrazia – Ovvero come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la mediocrità

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Quante volte siamo stati a discutere sul fatto che in Italia manca la meritocrazia? E visto che il nostro immaginario è piuttosto limitato nella fantasia, si sogna immediatamente che un territorio abitato da esseri umani ammetta questa fantomatica proprietà tale che tanto più ci si allontana dall’Italia e tanto più questo ideale di meritocrazia esiste nella realtà. Quindi in Francia si è meritocratici abbastanza ma non troppo, come in Germania e in Inghilterra (già casualmente geograficamente più lontane). Per non parlare del Belgio e dell’Olanda, luoghi di spiccata attitudine meritocratica, dove si ha quel che si vuole, comprese le donne e i narcotici, purché si paghino le casse dello stato. Mentre in “America” si è meritocratici al massimo grado. Cioè in USA e in Canada. Già perché casualmente il merito è il merito dei ricchi. Infatti l’equazione della meritocrazia in funzione della distanza geografica funziona solo se l’ago della bussola è puntato verso il nord. Ma non troppo, visto che in Lapponia e al polo nord, pure abitati, non ci interessano.

Non funziona se noi andiamo verso sud: in Messico, Venezuela e Colombia non sono brillanti per meriti quanto per la guerra mondiale delle cosche della droga, che attualmente causa 20.000 morti all’anno come minimo. Questo perché tutto può esistere purché sia lontano. Compreso il merito. Espongo subito la mia opinione: (a) la parola meritocrazia non ha probabilmente alcun senso chiaro, (b) in ogni caso non è semplice stabilire in che modo la meritocrazia esista e (c) in che senso dovrebbe esistere.

Iniziamo subito con un esempio storico. Infatti nella storia è quasi già esistita qualsiasi stupidaggine sicché molto spesso basta guardare al passato per chiarirci le idee sul presente e le sue presunte novità. L’Arabia felice (Arabia felix) era un posto sufficientemente lontano ed esotico tale per cui la maggioranza delle persone almeno dei secoli XVII e XVIII potesse realmente credere che era il paese della felicità. Sicché alcuni esploratori sono andati in quelle terre lontane per scoprire la sostanza di tale terra, tale da garantire la felicità ai suoi abitanti. Come ben disse Torkild Hansen, se anche fosse possibile che un tale posto esista, per quanto lontano, bisognerebbe fare di tutto per andarci perché per quanto ci si sforzi, laddove siamo e viviamo sembra sempre il teatro degli orrori. Sicché casualmente quando gli esploratori arrivano in Arabia felice scoprono che essa è piena di malattie, calda oltremisura e soprattutto ricca di infelici (va da sé che dove c’è morte, malattia e molto caldo non rimane poi molto spazio per il resto). Ecco dunque: ciò che noi pensiamo esistere, casualmente esiste sempre in un altro posto, in cui ci sono sempre esseri umani, ma che per qualche ragione misteriosa, sono capaci di provare proprio tutte quelle cose di cui noi, invece, invischiati in una realtà mediocre, infima, la peggiore, non siamo in grado di avere. Seppoi tale posto delle meraviglie non esiste oggi sulla Terra, magari esiste da un altra parte. In un futuro lontano, in un passato remoto. O direttamente in un altro mondo. A voi il vostro locus amoenus.

Veniamo ad uno dei nostri miti, delle nostre leggende più discusse. La meritocrazia. Questa è una delle grandi scommesse filosofico-politiche che in Occidente si dibatte soltanto da 2500 anni, cioè da quel bel giorno brillante e ameno in cui si partorì per la prima volta questa bella idea nella nostra culla della civiltà, in cui gli uomini si ammazzavano a colpi di hoplon e spada, e in cui, secondo Nietzsche, si viveva in un modo così autentico che ogni loro sofferenza era ben giustificata dalla loro esistenza. Forse.

Però sta di fatto che fu proprio Platone a iniziare la lunga e annosa ricerca della prassi virtuosa politica che consisteva nel celebre slogan di “dare a ciascuno il suo”. Per Platone, semplificando, ma poi lasciamo ai dotti di discutere e dissezionare il corpo platonico…, il “dare a ciascuno il suo” consisteva nell’attribuire il giusto ruolo sociale alla persona in questione. Chi era animato in un certo modo (cioè chi era guidato sempre o per lo più da una certa componente dell’anima), doveva fare il soldato. Chi era animato in un altro modo doveva fare il lavoratore e chi era guidato dalla ragione doveva fare il filosofo. Che poi, casualmente, avrebbe fatto il politico. La prima idea di tecnocrazia, insomma. Altro grande e misterioso esotico miraggio.

Va da sé che se una persona aveva come aspirazione altra da quella che era la sua natura, be’, si sarebbe dovuto arrangiare (o attaccare alle bighe o ai carri falcati giacché allora i tram non esistevano ancora). Non scendiamo qui, poi, nel pur discutibile sistema platonico di selezione della gioventù in modo da guidarla verso il suo reale ideale che sarebbe coinciso con il suo posto di lavoro. Il punto è che qui davvero c’è un’ideale che prende veramente sul serio la meritocrazia. Ma non nel senso che più lavori e più ti è dovuto qualcosa e cioè che il merito è funzione del monte ore o dell’impegno profuso. Al contrario: questa dovrebbe essere una logica conseguenza, perché più lavori a condizione che più ti realizzi attraverso il lavoro stesso (non viceversa). L’idea di merito è legata alla nozione di essenza o di anima: ti meriti un ruolo in funzione di quello che sei. Quindi il problema non è quello del metodo, dell’educazione e della formazione dell’individuo nel senso che si crea qualcosa dal nulla. Al contrario il problema è quello di capire che tipo di uomo sei per poi farti fare esattamente (secondo l’idea) quello che ti dovrebbe corrispondere. E’ un problema di estrazione. Capire il tuo progetto per farti funzionare come si deve.

Ci sono almeno altre due idee fondamentali di meritocrazia nella nostra storia. La prima è quella di aristocrazia di nascita o di virtù. Pippo è nato nobile perché ha un sangue dotato di particolari virtù, che si trasmettono di padre in figlio: la madre in genere è già qualcosa di inferiore, nel migliore dei casi semplicemente un mezzo attraverso cui si conservano, ma non si ampliano, le virtù di sangue. Ma poi dipende. In questa visione, nobili si nasce. Quindi le virtù e i meriti sono fissati da un fatto essenziale, cioè legati addirittura alla materia stessa della natura umana che si distingue in lignaggi. Sicché la meritocrazia è, qui, intesa come una virtù intrinseca e inalienabile. E inacquistabile! Infatti non si apprende ad essere nobili. O lo si è o non lo si è. Quindi qui la meritocrazia significa che i nobili, quindi i più virtuosi per nascita, debbano decidere per gli altri. Perché nella stratificazione gerarchica delle essenze umane i nobili sono anche i più meritevoli.

La terza idea fondamentale è quella della meritocrazia cristiana. Parlo di meritocrazia cristiana nel senso che essa si distingue, ad esempio, dalla meritocrazia buddista (ammesso che abbia senso parlare di ʽmeritocrazieʼ in questi contesti). In questo senso, non intendo sostenere che nella dottrina cristiana si parli esplicitamente di ʽmeritocraziaʼ. Mi accontento di trarre un giudizio su quello che potrebbe concludersi sull’immagine che passa alla vasta opinione pubblica. Il che, poi, è spesso sufficiente. Dunque, sia nel protestantesimo che nel cattolicesimo la grazia (e quindi la salvezza) non si acquisisce per un proprio merito, quanto per dono divino. Quindi per quanti sforzi uno possa fare, dipende intrinsecamente da Dio che uno si salvi o meno.

Però ci sono degli indizi grazie ai quali possiamo dire che la religione cristiana ammette addirittura vari tipi di meritocrazie: la prima è, appunto, quella del predestinato (tipicamente nell’immagine protestante). Il predestinato ad avere la grazia non se la merita di per sé ma solo nonostante sé. Egli è infatti un peccatore per definizione. Può essere virtuoso quanto vuole ma se Dio non gli concede la grazia egli comunque non se la può prendere (tipicamente perché la grazia non si ʽprendeʼ, non essendo in alcun modo un oggetto).

La seconda versione della meritocrazia è quella delle opere: siccome lo scopo ultimo è la salvezza nel mondo altro (perché in questo mondo di salvezza ce n’è troppo poca, evidentemente), un buon cristiano può capire se si salva in base ai segni del mondo. Cioè attraverso le cosi dette ʽopereʼ. Come interpretare la nozione di ʽoperaʼ è tutt’altro che agevole, ma diciamo che come nucleo comune c’è l’idea che tanto più le tue opere sono buone e tanto più hai delle ragioni plausibili per credere di avere la grazia (ma non la certezza e questo è un punto importante). La terza versione della meritocrazia è fondata sul principio di abnegazione e di remunerazione. Rinunciare a tutto ciò che questa vita offre, cioè i piaceri (mai così chiaramente individuati e mai così chiaramente enunciato il motivo di questa presunta netta scissione tra piacere e bene, ma questi sono problemi che ci porterebbero assai lontano…), offre come principale ricompensa la maggiore predisposizione verso l’accettazione della grazia. Quindi alla rinuncia segue comunque una remunerazione, che tanto diventa più sicura quanto più la rinuncia è conseguita su sacrifici riconosciuti importanti.

Ogni modello di meritocrazia ha, casualmente, un regno suo proprio dell’immaginario meritocratico. Per Platone è il futuro, visto che il suo ideale ancora non si è realizzato. Mentre per la meritocrazia nobiliare è il passato glorioso perduto che si conserva solo nel seme più prezioso. Mentre per le religioni monoteiste è classicamente direttamente un altro mondo. Soltanto nell’immaginario democratico la meritocrazia è il regno del presente. O ci aspetteremmo che lo fosse. Casualmente noi lo vorremmo già istituito ma noi stessi non sapremmo da dove iniziare a costruirlo. E’ sempre colpa del nostro maleodorante passato politico. Ah, quella res exstensa diabolica!

Come si vede abbiamo diversi modelli della nozione di meritocrazia. Ma è evidente che in un mondo in cui la parità dei sessi è un principio inalienabile e la democrazia un fatto talmente banale da noi occidentali tale da essere equiparato alla spazzatura (che è quanto di più banale sia mai esistito sulla crosta di questo sempre sporco pianeta), non siamo inclini ad accettare nessuna delle concezioni della meritocrazia precedentemente esposte (ma che incarnavano l’ideale di meritocrazia nel passato). Non accettiamo quella religiosa-cristiana, perché non si applica facilmente a contesti politici e, soprattutto, ad un mondo in cui una cospicua percentuale di persone si dichiara atea (e altra agnostica. Agnostici e atei sono posizioni assai diverse, ma tant’è anche su questo si tende a fare confusione). Inoltre essa può ancora forse funzionare per alcuni credenti, ma a giudicare dalle apparenze, non da tutti (eremiti se ne vedono pochi, in questo mondo perduto).

Di sicuro non vogliamo accettare la nobiltà di sangue. E neppure lo vorrebbero le destre (con una parziale molto parziale concezione razziale del nazismo per altro piuttosto fluida) e sinistre estreme, cioè quelle che forme di pensiero politico che per definizione hanno una forte inclinazione a concepire il mondo in termini di ʽcordate idealiʼ. Infatti, proprio le destre hanno rivendicato storicamente il rifiuto per la meritocrazia religiosa e si sono sempre collocati in ambito laico. Tanto più stesse considerazioni valgono per la sinistra estrema con in più il fatto che, a parte nascere capitalisti o proletari, non ci sono diritti nobiliari positivi o negativi di nascita. In fondo nessun figlio di premier dell’URSS è diventato niente di più di un teste ad usufrutto degli storici.

Ma destre e sinistre estreme si sono sempre ritrovate su un punto comune, che è poi la ragione per cui Karl Popper, genio filosofico assoluto, spiegava la comune genesi delle due posizioni politiche estreme e nemiche della società aperta: il punto comune è il mito meritocratico platonico. Se Nietzsche voleva eliminare la meritocrazia religiosa (concedetemi questa terminologia strana) per ritornare al mito nostalgico della meritocrazia nobiliare, a parte alcuni decadenti e alcuni filosofi troppo assuefatti a se stessi a cui il mito dell’autofondazione del titolo nobiliare poteva aggradare, è il modello platonico che ha sconfitto il mito meritocratico religioso.

Esso, infatti, afferma che bisogna dare a ciascuno il suo in base a quello che egli è nella sua anima. Sia detto chiaramente che Platone con ʽanimaʼ non intendeva che un modello astratto di composizione degli oggetti. Quindi una sorta di progetto ideale di un corpo realmente esistente nel mondo fisico. Sicché l’anima del trattore si realizza nel modo migliore se ara i campi ma non se fa le corse automobilistiche (che forse finalmente diventerebbero più divertenti di quelle gare di missili…). L’idea si conserva anche tra esseri umani: non dipende da loro, ma dal loro progetto ideale che essi incarnano ciò che sanno o non sanno fare, ciò che quindi ameranno di più o di meno fare come lavoro.

Ma nel mondo democratico non crediamo nell’esistenza di progetti predeterminati a monte e certamente questo fantomatico mondo delle idee non ci ha poi convinto tanto. A mio parere oggi viviamo in un sincretismo meritocratico che si rifà alle idee varie della nostra tradizione. Di Platone abbiamo conservato il sogno: vorremmo che fosse così, ma non si vede come realizzare questo ideale. E poi la sua idea che ognuno di noi ha un progetto predefinito da scovare mediante un principio estrattivo ci suona assai male. Del modello nobiliare abbiamo conservato l’idea che ci siano persone più dotate di altre in un certo ambito per delle ragioni che chiamiamo ʽtalentoʼ perché non abbiamo alcuna spiegazione precisa per questo strano fenomeno di accumulazione di capitale umano dirompente. Del modello religioso-cristiano abbiamo conservato l’idea che se tu entri in grazia di qualcuno qualcosa ti verrà dato per i tuoi meriti, anche quando questo non dipenda da te. E quindi tutto sommato lavorare per qualcuno esclusivamente nella speranza di ottenere la remunerazione gratuita, ma non scontata, è riconosciuto come logica di merito. Infatti, quel che di immeritato sta in questo sta in chi non ha lavorato sotto quel qualcuno ma ne ha ottenuto comunque gli onori. E quindi il merito è legato sia alla nozione di onere (non c’è merito senza fatica o sacrificio) che di onore (la remunerazione).

Ma allora di cosa si parla quando si dice che in Italia c’è poca meritocrazia? Non è affatto chiaro. Prima di tutto perché nessuno dei modelli di meritocrazia sopra indicati è soddisfacente. Né siamo in grado di sposarne l’unilateralità ideologica. In secondo luogo perché da un lato si vorrebbe legare la meritocrazia all’efficienza della persona, ma dall’altro lato non si può pretendere che tutti si sia efficienti allo stesso modo. E quindi si ritorna all’idea del dare a ciascuno il suo, questa volta in base alla sua efficienza. Nel mondo democratico privo di nozioni di merito legati al diritto di nascita, almeno in linea di principio, rimane soltanto il mito della produzione. Tanto più produci e tanto più meriti un premio in relazione al tuo ambito di lavoro. Quindi prima di tutto la meritocrazia è relativa ad un ambito già selezionato di lavoro (si è meritori di insegnare se sei colto nella tua materia), in secondo luogo la meritocrazia è relativa ad una qualche nozione di produttività. Una persona improduttiva non merita altro che l’ospizio, al massimo, visto che l’ospizio costa e non si sa chi deve pagarlo. Quindi ancora una volta meritocrazia sarebbe una sorta di specchio deformante attraverso cui concepire il soggetto in funzione di una sua proprietà riconosciuta importante, cioè di una sua virtù. Con meritocrazia si intende solamente un sistema di ripartizione degli incentivi per continuare a mantenere l’esercizio della virtù in questione.

Dunque, la nozione generale di meritocrazia si rifà all’idea di una regola che associ un certo premio o una certa punizione in funzione di una certa virtù o vizio di una certa persona. Quindi S è meritevole di y in virtù di x nel campo di lavoro di S dove S ha prodotto n. Un soggetto S che non produce non esercita virtù, quindi non è meritorio di niente. Anzi andrebbe perlomeno punito per spingerlo ad esercitare le sue virtù nel suo campo di lavoro.

Veniamo ora alla questione fondamentale. Come fissare una regola di merito? Innanzi tutto avremmo tante regole di merito tante quante sono le tipologie di campi di lavoro considerati. Il merito di un metalmeccanico è assai diverso da quella di un politico, a sua volta di versa dal merito di una valletta. La forma generale della meritocrazia rimane la stessa:

(M) S è meritevole di y in virtù di x nel campo di lavoro di S se S ha prodotto n e y va commisurato in base alla dimensione di n.

Ma la sostanza del merito si può riconsiderare alla luce dei vari campi di lavoro e così dobbiamo avere una nuova regola che fornisca una discriminante tra i vari lavori. Tutti esercizi filosofici degni di un genio come Platone e che tutti gli italiani sono sicuramente in grado di fare quando parlano di meriti e demeriti, di meritocrazie e di demeritocrazie.

Abbiamo un buon sistema per discriminare i meriti? Non è chiaro. Ma ammettiamo per un momento che esista. Stando al dibattito pubblico, questo sistema di discriminazione dovrebbe essere molto severo, a tal punto che solo in pochi sarebbero molto remunerati per l’esercizio delle loro virtù. Gente che lavora (eh!, questo sconosciuto) e che produca ce n’è sempre stata poca, almeno nella nozione della meritocrazia. Benissimo. Ma adesso guardiamo la cosa dal punto di vista di questa gente, cioè caritatevolmente del 90% della razza umana. Come pensano costoro? Immaginiamo che siano dei cialtroni consapevoli: essi sanno di essere privi di virtù perché non sono in grado letteralmente di produrre niente di buono. Non ne sono molto capaci, non ne hanno neppure molta voglia. D’altronde lo fanno perché ci sono costretti, la vita richiede che essi lavorino. Non è colpa loro. Ne farebbero volentieri a meno. Ma una cosa sono disposti a concederla: essi non meritano assolutamente niente.

Quindi loro come dovrebbero pensare? Dovrebbero pensare che siccome esistono persone ben più capaci di loro dovrebbero fare a meno di lavorare o di studiare. Infatti, essi sono ben disposti a concedere il fatto di essere degli incapaci relativi e quindi a lasciare il loro posto di lavoro o il loro studio per fare spazio a quelli che esercitano più virtù di loro. Infatti loro sono disposti a perdere il loro stipendio o svalutare potenzialmente il loro futuro perché possa trionfare il merito degli altri. Sicché il ragionamento che essi dovrebbero seguire è il seguente: “so di essere un mediocre – cioè privo di ogni virtù di produttività -, sicché faccio qualcosa che ben si dimensioni alla mia mediocrità”. Se poi supponiamo che essi non hanno alcuna virtù particolare, perché non vogliono fare il lavoro sporco di nessuno (cioè sacrificarsi per un potente), non sono riusciti a imparare niente di speciale o non sono nati con ʽtalentiʼ particolari, essi ne devono concludere che devono mettersi il cuore in pace e lasciare che facciano tutto gli altri, più virtuosi di loro in ogni ambito.

Questi sono ragionamenti che vanno contro ogni buon senso, contro ogni logica umana e non umana. Solo un ingegnere senza alcuna capacità di comprensione delle cose umane potrebbe aspettarsi che qualcuno possa prendere sul serio simili ragionamenti. Un ingegnere privo di meriti, visto che non sarebbe capace di produrre un sistema di smistamento della domanda di lavoro in base alla realtà dei fatti… Inoltre questa gente poco meritoria è anche quella prodiga nel munificare la razza umana di nuovi esseri viventi, anche noti come bambini. I quali sono venuti al mondo da persone spesso privi di grandi meriti ma a cui sicuramente bisogna dare da vivere. E allora ecco che moltitudini di genitori hanno non solo il potere di generare ma anche il dovere di accudire. E chi vorrebbe che il proprio figlio abbia meno degli altri solamente perché loro furono a loro volta degli incapaci? Sarebbe questo giusto? Chi non vorrebbe dare una chance al proprio figlio? E poi chi non vorrebbe dare una chance a se stesso?

E allora i doveri non sono tutti nelle ragioni di merito. Anzi, la maggioranza delle persone non fonda la propria esistenza né poco né molto sul merito. Inoltre il merito si può sempre simulare, per esempio si possono produrre titoli a sfare pur senza avere uno straccio di abilità in più. Si possono gonfiare i curricula, si possono conoscere le lingue solo per aver frequentato un corso di dieci ore, si può dire di aver fatto cento lavori, perché tanto ben pochi sono così determinati da capire se poi quei lavori avevano una realtà. Inoltre, chi dice di essere intelligente quante volte lo è? Chi lo stabilisce? La necessità di mangiare e di far mangiare i propri familiari, invece, è una certezza ben più chiara di ogni ragionamento sulle abilità umane. Sempre così difficili da individuare, sempre così difficili da definire. Infatti i politici riconosciuti più meritori sono quelli che danno da mangiare al maggior numero di persone perché tutte indistintamente meritano di mangiare. C’è scritto nella nostra costituzione. C’è scritto nella carta dei diritti dell’uomo. Il diritto alla vita implica il diritto al cibo… Dove sta il merito? Dove sta la remunerazione per le proprie abilità?

La logica del merito è qualcosa di indefinibile. E comunque è facile ad aggirare. Nel mondo in cui tutto vuole una qualifica non sapere niente non è mai stato così agevole. La mediocrità pasce dei deficit della meritocrazia che non si è mai vista in questa Terra, come ho cercato di mostrare. Semplicemente perché nessuno può impostare un sistema politico basato su qualcosa che nessuno ha saputo definire e tanto meno fornire l’algoritmo di decisione per capire chi è meritorio e chi no e ogni sforzo in tal senso è stato assai mediocre. Poco meritorio.

Il risultato è semplice: chi vi smercia la meritocrazia a basso costo è semplicemente un venditore di automobili. Che è un nobile mestiere ma non va visto più di quello che è: una forma di commercio. Perciò quello che posso trarre per me stesso è di aver definito una formula generale della nozione di merito. Che è, per me, premio filosofico fine a se stesso che non si riduce in sé a un mero interscambio di meriti e demeriti.

Ma soprattutto mi accontento di fare il massimo per me stesso e gli altri e cerco continuamente di ricordarmi che la mediocrità non è un merito o un demerito della democrazia italiana ma semplicemente una media della Storia umana la quale è sempre stata identica a se stessa nella sostanza. A volte la media va al rialzo, altre volte al ribasso. Fa parte dell’evoluzione della realtà. I nostri padri non erano migliori di noi: non ho ragioni per crederlo. E neppure quei nonni che si sono martoriati a colpi di mortaio nella seconda guerra mondiale, giacché nessuna guerra è sintomo della felicità sulla Terra. Ma neanche quei disgraziati dei bisnonni che tra una leva quinquennale e una sporca trincea, dalle donne segregate in casa agli omosessuali inquisiti, ci ricordano dai cimiteri che vale la pena di morire per dare da mangiare a sé e agli altri.

E noi non siamo migliori di loro. La logica degli stati di interesse è nata prima dell’uomo e permane insieme all’uomo. Essa si può assecondare ma non rivoluzionare, come il moto ondoso del mare si può seguire ma non cambiare. Così cerchiamo di accontentarci di riparare continuamente quella barca malandata priva di grandi timonieri in mezzo al mare in tempesta: questa è la razza umana e cerchiamo di amarla per quello che è.


Giangiuseppe Pili

Giangiuseppe Pili è Ph.D. in filosofia e scienze della mente (2017). E' il fondatore di Scuola Filosofica in cui è editore, redatore e autore. Dalla data di fondazione del portale nel 2009, per SF ha scritto oltre 800 post. Egli è autore di numerosi saggi e articoli in riviste internazionali su tematiche legate all'intelligence, sicurezza e guerra. In lingua italiana ha pubblicato numerosi libri. Scacchista per passione. ---- ENGLISH PRESENTATION ------------------------------------------------- Giangiuseppe Pili - PhD philosophy and sciences of the mind (2017). He is an expert in intelligence and international security, war and philosophy. He is the founder of Scuola Filosofica (Philosophical School). He is a prolific author nationally and internationally. He is a passionate chess player and (back in the days!) amateurish movie maker.

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