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2 La nascita della colonia penale agricola in Europa

DZankell, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

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Il paragrafo precedente ha voluto analizzare come si sia sviluppata nel diciottesimo secolo un’intensa attività, da parte delle principali potenze europee, di colonizzazione interna nelle terre extraeuropee. Molte volte la colonizzazione avvenne anche tramite la ‘colonia penale agricola’. Come vedremo in questo paragrafo, si sviluppò un importante dibattito sulle condizioni dei coloni e sull’utilità delle colonie stesse.

Nella prima metà dell’Ottocento si sviluppò in Italia, come altrove in Europa, specialmente in Olanda e Francia, un intenso dibattito sui sistemi penitenziari: si prendeva infatti in considerazione l’idea di rendere le pene detentive meno truci, svincolando il detenuto da quel triste avanzo della galera: la catena.[1] La pena non doveva essere semplicemente ‘punitiva’, ma doveva avere al suo interno un significato catartico per il detenuto. L’Italia, a differenza di quasi la totalità dei Paesi europei dell’Ottocento, aveva pochi possedimenti d’oltremare che permettessero la sperimentazione di colonie penali; solo stati come Francia e il Regno Unito, cercarono di effettuare una colonizzazione dei possedimenti d’oltremare con l’invio di condannati dalla madrepatria.[2]

Nell’ambito del dibattito sui penitenziari in Europa si ragionò comunque sulle possibili alternative al carcere come simbolo del luogo di pena: nacque così il concetto di ‘colonia penale agricola’. Secondo la definizione del Digesto “le colonie penali potevano essere di due specie: di oltremare e interne, le prime in territori conquistati in luoghi lontani dalla madrepatria, le seconde all’interno dei confini naturali”[3].

Esse condividevano l’obiettivo di dissodare e bonificare luoghi incolti e insalubri sia all’interno dei confini naturali dello stato sia oltremare mediante l’opera di condannati, ma differivano gli uni dagli altri in quanto nelle colonie penali interne “i condannati sono sempre detenuti in un penitenziario”, mentre nelle altre essi generalmente non hanno “altra limitazione della libertà personale fuori di quella della dimora obbligatoria e di una certa disciplina[4], e vivono del proprio lavoro. A ciò si deve aggiungere che le colonie penali interne sono di istituzione più recente rispetto alle altre, quindi “rappresentano l’ultimo perfezionamento del sistema penitenziario moderno, in quanto consistono in una maniera di esecuzione della pena principalmente indirizzata all’emenda del colpevole”[5].

Nel dibattito sui cambiamenti riguardanti le condizioni carcerarie, venne coniata l’espressione ‘fuga dal carcere’ per indicare la ricerca di soluzioni alternative alla reclusione e al lavoro dei detenuti al chiuso delle prigioni: essa “fu una ricerca costante nella storia del sistema dei penitenziari occidentali”[6].

Nel 1818 sotto gli auspici del principe Federico d’Olanda all’Aja si formò un’associazione con lo scopo di stabilire delle colonie agricole, in cui gli indigenti potessero sottrarsi alla misera delle pene detentive mediante il lavoro. Gli aderenti a questa società, per lo più appartenenti a centri di carità cristiana, pagavano una quota sociale annuale con la quale, ad esempio, acquistarono 852 ettari di terreno nella Frisia e nell’Over Yssel, da destinare alle colonie agricole. Il sistema di colonie agricole che fu instaurato nei Paesi Bassi fu alla base di tutto quello europeo: infatti, i Paesi Bassi erano ricchi di terre da bonificare, semi-sommerse, e da ‘riciclare’ nei confronti dell’agricoltura.

Negli anni questo tipo di colonia agricola correzionale ottenne sempre maggior successo aumentando il loro numero specie in Olanda, come detto, ma anche in Francia e in Belgio. L’interesse generale di chi costruiva e favoriva la nascita di queste colonie era quello di rendere i ‘coloni’, che si prendevano cura della terra, proprietari del terreno da loro arato e lavorato[7]. Allo stesso modo, lavoravano i colonizzatori inglesi nell’America settentrionale: fra i loro obiettivi, quello di rilasciare le terre ai coloni, era uno di quelli su cui miravano maggiormente.

In Italia un simile tentativo venne eseguito nel 1892 con la divisione in piccoli lotti del bosco di Montello, grande circa seimila ettari, distribuito ai poveri indigenti: questo esperimento si rilevò però fallimentare.

Fu comunque nella penisola italiana che vennero proposte, avanzate, e spesso conseguite, le più interessanti alternative alla sopracitata ‘fuga dal carcere’. In Italia vennero ben sei modalità diverse di reclusione:

  • La ‘deportazione’ in colonie penitenziarie apposite “che costituiscono uno dei più interessanti esperimenti compiuti […] per inserire nell’esecuzione della pena una duplice finalità sociali: quella di riadattare il condannato e quella di servirsi dell’opera del condannato per compiere lavori che gli altri lavoratori non vogliono compiere per l’asprezza intrinseca di essi o per i pericoli che presenta il lavoro.”[8]
  • Il ‘domicilio coatto’ ideato soprattutto, dai governi fra ottocento e novecento, per non mostrare agli stranieri, “il miserabile spettacolo di connazionali tenuti in cattività”[9]: per questo i reclusi in questo caso venivano sì deportati, ma nelle isole che facevano parte dell’Italia: fu la legge Pica del 1863, ideata per stroncare il brigantaggio, a proporre il domicilio coatto nelle isole di Ponza, Ventotene, Asinara, Tremiti, Ustica e Lipari. Più avanti alcune di queste mantennero lo status di colonia penale.
  • I ‘bagni penali’ nella storia europea delle carceri anticipano la detenzione nei penitenziari, accompagnati dalla pratica dei lavori forzati[10].
  • Altri tipi di ‘fuga dal carcere’ furono i ‘public works´ appaltati fuori dalle prigioni che rappresentarono un buon esempio di ricaduta economico sul territorio, anche se molto spesso i lavori dei detenuti andavano ben oltre delle condizioni umane dignitose[11]. In Sardegna l’impiego dei ‘servi di pena’, come venivano chiamate le squadre di detenuti ai lavori, era prassi già da tempo nelle saline di Cagliari e di Carloforte[12], fuori dalla Sardegna nelle saline e nelle miniere dell’Isola d’Elba, e nei porti di Brindisi e Porto Empedocle[13].
  • Le ‘appendici rurali e le succursali’ prevedevano all’interno dell’area carceraria, orti e piccoli campi da mettere in coltura agraria: già dal primo Ottocento in Italia è una pratica molto comune.
  • Infine, l’ultimo cardine della ‘fuga dal carcere’ fu rappresentato dalle colonie penali agricole, il nostro caso studio.[14] [15]

Sia in Italia che in Europa nel dibattito sui penitenziari, le colonie agricole, si collocarono dunque in una prospettiva molto interessante per i riscontri economici e sociali che furono, e in alcuni casi sono ancora, in grado di svolgere[16].

L’Italia fu la prima nazione europea che si fornì di una rigorosa legislazione sul lavoro dei condannati all’aperto, datata 26 giugno 1904.

Fra gli altri, l’articolo 1 così dichiarava: “i condannati alla pena della reclusione possono essere assegnati, fintanto che non esistano tutti gli stabilimenti preveduti nell’articolo 13 del codice penale, a pubblici lavori di dissodamento e di bonifica […]”

L’articolo 4 invece stabiliva che “il Governo del Re è autorizzato a istituire colonie penali agricole destinate a farvi scontare le pene della reclusione, della detenzione e dell’arresto alle persone minori di diciotto anni, alle quali non sono applicabili le precedenti disposizioni”.

Infine l’articolo 5 affermava che “il Governo del Re è autorizzato a dare tutte le disposizioni necessarie per l’attuazione della presente legge, particolarmente in ordine alla condotta dei lavori, alla salute e alla retribuzione dei condannati e per coordinarla con le altre leggi dello Stato”.

Con la pena convertita in lavoro nacque un nuovo approccio giuridico che coinvolse il sistema penitenziario italiano. Si dissodarono terreni incolti e abbandonati, si eseguirono prosciugamenti di paludi e di acquitrini, si impiantarono alberi di ogni specie e di colture diverse, si costruirono strade, canali, ponti e si dava vita a veri allevamenti di bestiame: nacque così la ‘questione economica penitenziaria’[17][18].

In Italia le colonie penali agricole si svilupparono soprattutto in Sardegna e nell’Arcipelago toscano: la colonia delle Tremiti, al largo della Puglia, e quella dell’Isola di Montecristo, appendice della colonia di Pianosa, furono infatti ben presto abbandonate per motivi economici.


[1] Doria A., La colonizzazione interna nelle sue applicazioni col mezzo delle colonie penali agricole, Tipografia delle Mantellate, Roma, 1912, pag 14

[2] Un caso emblematico, raccolto in un’ampia pagina cinematografica, è la colonia situata in un arcipelago della Guyana francese. Famigerato per le condizioni di vita misera, si ricordano film come Papillon (1973) di Franklin J. Shaffner, e fra gli altri, Non siamo angeli (1955) di Michael Curtiz.

[3] Carfora F., Colonia Penale, in “Digesto Italiano”, Torino, Unione tipografico editrice, vol. 7, parte II, 1897-1902.

[4] Ibidem.

[5] Gambardella A., Nascita ed evoluzione delle colonie penali agricole durante il regno d’Italia, Università di Firenze

[6] Neppi Modona, La parabola delle colonie penali, in Da Passano M., Le colonie penali nell’Europa dell’Ottocento, Carocci, Roma, 2004

[7] In uno studio del 1912, Andrea Doria, Direttore generale delle Carceri e dei Riformatori, propone a Giovanni Giolitti, all’epoca Presidente del Consiglio dei Ministri, di riproporre anche in Italia un sistema del genere, testato da eminenti studi economici.

[8] Novelli G., Colonia penale in Nuovo digesto Italiano a cura di D’Amelio M. pag.302

[9] Ibidem, pag.304

[10] Paragrafo 2.6 La colonia penale agricola di Cagliari-San Bartolomeo, era in precedenza un bagno penale.

[11] Si veda Del Boca A., Gli italiani in Libia, Tripoli bel suol d’amor, Roma, 1922

[12] Bova E., Le saline marittime della Sardegna e la raccolta del sale nell’anno 1901 con l’opera dei condannati, 1902, pag.127

[13] Barnabò Silorata A., Costruzione di stabilimenti carcerari coll’opera dei condannati, 1881. A seguito della soppressione del bagno di Anzio, nel 1882 un interrogazione parlamentare curata da Sforza Cesarini, chiedeva a chi sarebbe toccata da quel momento la sorte dei lavori di manutenzione ordinaria dei porti, vista la cessata attività dei detenuti di Anzio, in tal caso.

[14] Da questo paragrafo fino a fine tesi.

[15] Per tutta la questione sulla ‘fuga dal carcere’: Giulianelli R., L’industria carcerai in Italia, lavoro e produzione nelle prigioni da Giolitti a Mussolini, Franco Angeli, Milano, 2006

[16] Si veda capitolo 2.0 l’economia nelle colonie penali.

[17] Si vedano i paragrafi successivi relativi ad ogni singola colonia penale agricola.

[18] Giulianelli R., L’industria carceraria in Italia, Lavoro e produzione nelle prigioni da Giolitti a Mussolini, Franco Angeli, Milano, 2006 Cap. 2.1 Produrre per lo stato, produrre per i privati e 2.7 I bilanci.


Wolfgang Francesco Pili

Sono nato a Cagliari nell’aprile del 1991. Ho da sempre avuto nelle mie passioni, la vita all'aria aperta, al mare o in montagna. Non disdegno fare bei trekking e belle pagaiate in kayak. Nel 2010 mi diplomo in un liceo classico di Cagliari, per poi laurearmi in Lettere Moderne con indirizzo storico sardo all'Università degli studi di Cagliari con un'avvincente tesi sulle colonie penali in Sardegna. Nel bimestre Ottobre-Dicembre 2014 ho svolto un Master in TourismQuality Management presso la Uninform di Milano, che mi ha aperto le porte del lavoro nel mondo del turismo e dell'accoglienza. Ho lavorato in hotel di città, come Genova e Cagliari, e in villaggi turistici di montagna e di mare. Oggi la mia vita è decisamente cambiata: sono un piccolo imprenditore che cerca di portare lavoro in questo paese. Sono proprietario, fondatore e titolare della pizzeria l'Ancora di Carloforte. Spero di poter sviluppare un brand, con filiali in tutto il mondo, in stile Subway. Sono stato scout, giocatore di rugby, teatrante e sono sopratutto collaboratore e social media manager di questo blog dal 2009... non poca roba! Buona lettura

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