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4. L’ambiguità della moda e i tre cardini di essa

Cathleen Naundorf, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

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La moda, dunque, è solo una piccola frazione del sistema dei vestiti. Il ‘sistema della moda’ si fonda sul sistema dei segni e dei significati del più ampio mondo della rappresentazione di se stessi attraverso l’abito. Questo mostra in modo inequivocabile che la parola ‘moda’ è ambigua perché racchiude sia la variazione degli abiti, sia la variazione dei segnali e marcatori che si impostano una volta scelto l’abito. Inoltre, la moda varia sia sul breve periodo che sul breve periodo (onda lunga e onda corta, cfr. 2.), lungo e corto periodo che si è già visto essere legati ma autonomi (cfr. 2) a tal punto che le autorità epistemiche variano (cfr. 3).

La parola moda è così ambigua in quattro sensi e rispetto a due tipologie diverse di oggetti: (a) trucco e (b) vestito, rispetto (c) all’onda lunga o (d) all’onda corta. Va dunque notato che la parola si applica in modo consono sia alla moda del vestito, sia a quello che si dice essere ‘in voga’, che infatti viene forse impropriamente, ma chiaramente, detto ‘alla moda’. Una canzone può essere ‘in voga’ e quindi essere ‘di moda’. Se questo significato può essere criticato dai puristi, rimane il fatto che segnala il fatto che la moda è un fenomeno che riguarda la massa e attiene alla logica intersoggettiva in cui il soggetto è in una certa misura passivo (da qui uno dei motivi per cui alcuni rifiutano in blocco tutto il complesso di significati impliciti della moda e di tutto quello che ne consegue). Quindi, c’è un senso in cui è lecito parlare della moda come di ciò che fornisce l’insieme di regole di codifica e decodifica dei segnali impostati su marcatori (cfr. 6) riconosciuti nell’onda corta: questo è ciò che va in voga nell’esibizione (cfr. 5).

En passant va pure fatto notare che la moda ha ragion d’essere solo in quanto si innesta su una società di massa. Il che non significa che nell’impero romano non ci fosse qualcosa di simile alla moda. Come si vedrà subito sotto, ciò che rende possibile la moda è la necessità stessa di essere adeguati in un contesto in cui le regole d’uso sono riconosciute intersoggettivamente. Tuttavia va sottolineato che la moda in quanto narrazione, cioè quella che acutamente ha analizzato Roland Barthes (1967, 1993), ha senso solo in quanto si installa all’interno di una società che deve considerare la totalità delle persone al suo interno e tali persone sono un insieme sufficientemente ampio da non poter essere riassunto in discorsi orali o da tradizioni idiosincratiche e parziali. Perché nella società di massa chiunque può essere un ministro, come chiunque può essere una top model, almeno in teoria. Ma per essere l’uno o l’altro occorre sapersi controllare, ovvero sapersi esibire (cfr. 6) nel modo appropriato.

Se il primo sintomo dell’essere è l’apparire, perché non si può esistere senza apparire, allora le persone sono generalmente molto preoccupate di apparire come sono (condizione oggettiva) oppure di apparire come non sono ma come vorrebbero essere (condizione soggettiva) in modo che gli altri possano credere di vederli in un certo modo (condizione intersoggettiva). La costruzione dell’apparenza si fonda su tre cardini, congiunti in modo complesso: soggettività, oggettività e intersoggettività.

Il polo soggettivo stabilisce dei limiti relativi alla persona che intende mostrarsi in un certo modo. In altre parole, una persona stabilisce cosa vorrebbe trasmettere agli altri attraverso la sua apparenza, anche in modo del tutto inconsapevole. Dato il fatto che non si può non apparire, anche quando si scelga inconsapevolmente, comunque si opera una scelta: si può essere la causa di a o la causa di b, sicché si può dire che c’è un senso in cui si sceglie anche senza saperlo, anche se ovviamente le conseguenze possono essere molto diverse. Quindi tutti prendono decisioni su cosa mostrare agli altri e come farlo.

Il secondo cardine è l’oggetto, definito da caratteristiche indipendenti dalla volontà o dai desideri del soggetto. Infatti, un soggetto può anche decidere di mostrare sé nudo, cioè privo di vestiti. Ma deve fare appunto i conti con la logica dell’oggetto, cioè il suo corpo. Tuttavia, egli può decidere di vestirsi per proteggersi, per lanciare un messaggio o per crearsi una sua ‘storia’ (moltiplicatore di potenza mentale): tutte queste cose non sono mutualmente esclusive. Sicché, in ogni caso, il soggetto sa che nel mostrarsi deve rifarsi anche alle leggi di impiego dell’oggetto, anche quando voglia mostrarsi nudo, che è chiaramente un estremo. All’altro estremo ci sono i vestiti che coprono integralmente il corpo (come certe divise militari, di ordini monastici o di operatori specializzati etc.). Ma anche quando l’apporto soggettivo è ai limiti, non è assente. Questo è ben mostrato da Van Creveld (2007), in cui si effettua uno studio acuto sulle variazioni delle diviste da parte dei soldati e sui peculiari problemi che queste modifiche possono comportare.

Infine, sussiste anche una condizione intersoggettiva perché una persona che voglia comunicare qualcosa a qualcuno deve rifarsi a norme e regole che siano impiegate anche dagli altri, cioè i destinatari del suo messaggio, cioè delle sue affermazioni, cioè le proposizioni che possono essere desunte dal suo manifestarsi. Non è un caso, infatti, che chi ritiene importante decodificare il linguaggio del vestito di un altro, si intrattenga in lunghi ragionamenti su ciò che una persona vuole lasciarle intendere. Il lato intersoggettivo è, come si è visto, quello a cui è maggiormente interessata la moda del vestito, mentre è quello a cui si rivolge meno la voga del trucco. Si noti che una donna molto truccata, ma con vestito adeguato non viene rimproverata nel posto di lavoro per ‘inadeguatezza’. Questo vale oggi perché si riconosce alle femmine – e limitatamente anche ai maschi – il diritto positivo, perché permissivo, di caratterizzarsi come crede. Quando la morale sociale (condizioni intersoggettive) considerava un certo tipo di trucco disdicevole, ecco che il complesso dell’esibizione veniva considerato sconcio, anche se l’abito poteva essere adeguato nel contesto d’uso. Questo vale anche per gli uomini, giacché indossare certi capi di vestiario veniva considerato una ‘rottura del sistema’.

I tre pilastri del sistema di comunicazione del ‘modo di porsi’ si mostrano in tutta la loro chiarezza dal problema della pulizia. Il problema della pulizia ha una dimensione oggettiva: si è più o meno sporchi, l’abito è più o meno privo di macchie, presenta pieghe (Pili (2015)) etc.. Tuttavia la percezione dello sporco può essere molto variabile e la tolleranza è suscettibile alla sensibilità degli individui: un manovale ha una divisa spesso macchiata (inevitabilmente), il cui livello di sporco sarebbe concepito come intollerabile da un capitano d’industria. Però anche tra manovali e tra capitani d’industria possono esserci differenze tra il livello di percezione dello sporco. Questo, dunque, è il problema della percezione del problema dell’igiene. Infine, c’è anche un livello intersoggettivo che fissa delle norme di tollerabilità pubblica: in certi contesti il livello igienico può alzarsi (in una sala operatoria il livello igienico deve essere molto alto e infatti viene usato il grembiule per proteggere la divisa) ma anche abbassarsi (un operatore ecologico sopporta un livello di sporco di un certo tipo). Tutto questo era già stato osservato da Barthes (1993), che acutamente aveva notato come il concetto stesso di “sporco” è parzialmente slegato dall’igene e dipende inevitabilmente da un grado di soglia minima riconosciuto come insindacabile dalla collettività, cioè dal più ampio contesto sociale. Così un abito può essere sporco, anche se ha una insignificante macchia di olio, macchia d’olio che in un’altra epoca non sarebbe neppure stata oggetto di osservazione. Come si vede, dunque, i tre livelli interagiscono in modo complesso e in base alle persone uno può essere più dominante di altri ma essi sono sempre compresenti.

[Per chiunque voglia scaricare l’articolo integrale: The system of fashion]


Giangiuseppe Pili

Giangiuseppe Pili è Ph.D. in filosofia e scienze della mente (2017). E' il fondatore di Scuola Filosofica in cui è editore, redatore e autore. Dalla data di fondazione del portale nel 2009, per SF ha scritto oltre 800 post. Egli è autore di numerosi saggi e articoli in riviste internazionali su tematiche legate all'intelligence, sicurezza e guerra. In lingua italiana ha pubblicato numerosi libri. Scacchista per passione. ---- ENGLISH PRESENTATION ------------------------------------------------- Giangiuseppe Pili - PhD philosophy and sciences of the mind (2017). He is an expert in intelligence and international security, war and philosophy. He is the founder of Scuola Filosofica (Philosophical School). He is a prolific author nationally and internationally. He is a passionate chess player and (back in the days!) amateurish movie maker.

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