Press "Enter" to skip to content

La morte e la gestione dell’anziano – Due problemi attuali perché eterni

Abstract

In questo articolo cercheremo di mostrare perché la gestione dell’anziano e la morte sono così problematici all’interno della società della complessità. Non si vuole ammettere che oltre alle evidenti questioni economiche e logistiche, c’è una questione morale la cui decisione comunque determinerà una variazione di tutte le relazioni umane presenti nella rete sociale della famiglia. La revisione dei rapporti sociali, fondati su norme non scritte e, perciò, ancora più rigide e aleatorie, è un’operazione delicata e difficile. Non solo, ma la possibilità di risolvere in modo adeguato il problema dipenderà esclusivamente dalla capacità di saper riadattare la propria relazione con tutti gli altri membri della famiglia e tutti devono fare, perciò, la loro parte.


Quando nasce un figlio nascono immediatamente una rete di relazioni tra i familiari e il nuovo venuto, supponendo che il bambino nasca in una famiglia normale. Chiamiamo a il bambino, la madre m e il padre p e così di seguito i vari familiari. Come minimo, non solo si forma una relazione R tale che R(m,a) e R(p,a), ma anche una nuova relazione !R tale che

 

!R(R(m,p), R(m,a), R(p,a) implica R(m,p,a)),

dove !R è una relazione che sancisce che esiste una connessione tra tutti i membri della famiglia. Si noti che !R è una relazione che richiede l’implicazione della relazione R(m,p,a): infatti la sussistenza delle sole relazioni a due posti di madre e di padre e di matrimonio non determinano di per sé l’esistenza della famiglia. Per esempio, supponiamo che il figlio sia dato in adozione: le relazioni R sono tutte mantenute (il padre rimane il padre, la madre la madre e la madre e il padre magari rimangono sposati) ma non si ha la relazione !R! Quindi la definizione di un nucleo familiare, la relazione !R, è superiore alla semplice somma degli individui ma anche alle loro relazioni umane tra loro. E non è un caso, infatti, che la nozione di “famiglia” sia considerata, nella sua vaghezza, un valore indipendente dalla somma degli individui, sia da un punto di vista legale, che religioso e morale. E il motivo è semplicemente quello che abbiamo mostrato.

Una volta venuti al mondo abbiamo una relazione con il nostro padre e con la nostra madre ma anche una relazione generale con i membri della nostra famiglia. Questo fatto può essere solo parzialmente tradotto nel fatto ovvio che noi siamo membri dell’insieme degli elementi della nostra famiglia (l’aggettivo possessivo già segnala questo fatto). Chiunque farebbe osservare che le relazioni R e !R sono in realtà “fasci” di relazione che dipendono dal fatto che i membri di questi insiemi sono parte anche di altri insiemi, a loro volta caratterizzanti altre proprietà e relazionati con altri elementi con altre relazioni. Alcuni di questi insiemi non sono irrilevanti. Ad esempio, la relazione con il genitore non è soltanto un fatto biologico, ma anche morale e legale. Quindi la relazione R tra padre e figlio è in realtà un insieme che ha come elementi le singole relazioni tra il padre e il figlio: si tratta di un insieme di relazioni. Non è un caso, infatti, che nelle famiglie si discuta talvolta del fatto che “un padre non è un padre”, intendendo per esempio che quest’uomo non è in grado di occuparsi dei figli (rapporto educativo), pur rimanendo il padre biologico. E si dice, magari, che “il padre è Tizio, ma di fatto lo fa Caio”… Le norme che vincolano i relata nella condizione di relazione legale è diversa da quella semplicemente biologica, quindi già da questo si nota una complessità. La forma della relazione !R è in realtà molto semplice, troppo semplice. Ma per i nostri scopi, almeno per il momento, è sufficiente.

Il punto è che all’atto di nascita del figlio nascono subito molte relazioni. Quindi da questo punto di vista, il bambino determina una variazione sensibile della relazione !R perché prima di venire al mondo, essa era semplicemente composta dalla relazione sussistente tra la madre e il padre. L’introduzione di una sola nuova persona nella famiglia determina una complessità nell’intrico di relazioni complessive che è ben superiore al quadrato del numero di relazioni precedenti la sua presenza! Questo mostra indirettamente che la relazione tra i membri precedenti all’introduzione del nuovo individuo varia anch’essa. Di fatto, i genitori non erano neppure tali prima dell’arrivo del figlio ed erano semplicemente due persone qualunque che condividevano alcune regole in un rapporto presunto stabile.

Tutto questo si osserva con semplicità nel più chiaro dei casi: l’introduzione di una nuova persona nel nucleo familiare. Tuttavia una perturbazione complessiva nelle relazioni tra persone si determina anche nel caso di una sostituzione o della morte di uno degli individui. Infatti, qui non vale il principio di sostituzione, almeno in una formulazione classica di esso in logica. Supponiamo che una delle varie relazioni si rompa, tipicamente quella tra genitori. Supponiamo che un solo genitore si risposi: non si avrebbe l’equazione

!R(R(m,p), R(m,a), R(p,a) implica R(m,p,a)) = !R(R(m,z), R(m,a), R(z,a) implica R(m,z,a)),

Dove z è il secondo marito di m. Non solo, ma si dovrebbe ricostruire la famiglia come un insieme di relazioni molto più vasto, ovvero includendo in qualche modo il fatto che il padre del bambino è comunque in una relazione forte con lui anche se non lo è necessariamente con gli altri. Quindi, si avrebbe qualcosa del genere:

!R(R(m,z), R(m,a), R(z,a) implica R(m,z,a)) e !R(R(p,a))

Qui, tra l’altro, vale la supposizione che il padre p non mantenga alcun genere di relazione con la madre m di a, il che, purtroppo, non è quasi mai il caso. Una relazione umana si trasforma, difficilmente si distrugge del tutto e per la presunta dissoluzione occorre molto tempo. Per questa semplice considerazione, ovvero che ogni individuo non tende a perdere relazioni quanto a mutarle, si capisce perché i divorzi siano semplicemente dei drammi che la gente dovrebbe considerare come estrema ratio e ben prima di essere sposati. Mutare relazione non vuol dire perderla, divorziare non vuol dire azzerarsi. E questo ci porta al punto prima del problema principale.

Supponiamo infatti che un individuo muoia, per esempio il padre. Come descrivere in modo intuitivo la catena di relazioni della famiglia? Non si deve supporre che il tutto si riduca a !R(R(m,a)) perché per un certo tempo la memoria del morto è talmente forte da risultare impensabile come tale. Tutta l’organizzazione della famiglia inizialmente rimane invariata, nonostante si sia drasticamente rivista tutta la struttura familiare. Si modificherà l’insieme dei compiti, che andranno ribilanciati, cambierà anche l’insieme dei canali di comunicazione delle informazioni. Per esempio, se il padre si occupava di faccende legali, di moduli e documenti etc., sarà adesso la madre a dover prendersi cura del problema.

Si noti l’uso dei tempi verbali: essi sono volutamente al futuro perché nell’immediato il morto è ancora troppo presente nell’insieme delle funzioni di memoria assolte dalla mente delle persone e quindi è come se non fosse del tutto scomparso. Esiste come una sorta di “traccia” nelle relazioni umane, quando vengono a cessare. Ovvero, pur morendo l’individuo si mantiene una qualche forma di relazione con esso, intendendo con ciò almeno che si vive ancora come se fosse vivo. Il tempo necessario a riorganizzare la famiglia sarà quello indispensabile per ridefinire i pesi delle varie relazioni R interne alla nuova !R.

Il morto, dunque, assume un valore simile all’insieme vuoto o allo zero: lo zero rimane un numero e l’insieme vuoto rimane un insieme. Non solo. Operazioni complesse sarebbero impossibili senza lo zero, come anche tutta la teoria degli insiemi sarebbe inconcepibile senza l’insieme vuoto. Mutatis mutandis, rimane vero che le operazioni e le relazioni umane interne alla vita della famiglia mutano: mutano molto meno gli individui di quanto non mutuino le relazioni tra gli individui. Allo stesso tempo, la variazione successiva alla morte del membro della famiglia risentono in modo rilevante della traccia lasciata dalla funzione del morto all’interno della famiglia.

In qualche modo non c’è mai una recessione dell’entropia all’interno dei rapporti umani proprio perché nessun rapporto si distrugge, ma cambia. Può anche sbiadire, diventare sostanzialmente irrilevante, ma questo è solo un fatto relativo e dipende dal tempo. Soltanto quando tutti i membri di una relazione muoiono, allora vengono a cessare le strutture relazionali tra loro. Però fin tanto che non tutti muoiono, allora ancora qualcuno conserva le tracce degli altri, ovvero delle relazioni che intratteneva con loro. Le generazioni si susseguono ma continuano ad influire, anche quando sempre più in latenza, sulle generazioni future. Per questa ragione la storia dell’umanità è un crescendo di confusione e non, al contrario, una semplificazione costante. Questo vale soprattutto nel momento in cui continuiamo a crescere di numero in modo sufficiente da non consentire una semplificazione dei rapporti sociali ma soltanto un loro ispessimento e irrigidimento. Ritorniamo ora alla famiglia che abbiamo considerato al principio. Diamo una caratterizzazione di essa in un contesto sociale, giusto per porre il problema in modo chiaro.

La madre e il padre lavorano perché ormai è quasi impossibile sostenere il carico economico di un figlio senza che entrambi lavorino. Il bambino ha un’età sufficiente a parlare e capire le relazioni umane, per esempio sa distinguere tra sua madre e sua nonna perché sa che la nonna è la madre di uno dei due genitori. I genitori del bambino passano 2/3 della giornata in modo da non poter controllare direttamente il bambino: 1/3 del tempo lo impiegano lavorando e 1/3 del tempo lo impiegano dormendo (approssimiamo). Il restante 1/3 è parzialmente compatibile con l’educazione del bambino. Quindi, il bambino di fatto vive solo un tempo marginale con i genitori, che poi non è un fatto così importante: il valore ultimo dei rapporti familiari è la relazione stessa, il sapere che un pezzo di mondo ci è favorevole. Quindi, il bambino passa molto tempo a scuola o con persone che hanno il compito di controllarlo, parenti o meno non ha molta importanza. Adesso, supponiamo che il nonno stia male. Anzi, stia morendo di una malattia lunga e impegnativa, per esempio un tumore. Cosa succede?

Intanto, l’anziano non è più autonomo. Questo pone diversi problemi. Prima di tutto, egli deve pur stare da qualche parte. Supponendo che fosse vedovo e che abbia due figli soltanto, ci sono sostanzialmente quattro soluzioni: (a) il figlio p si prende il padre in casa; (b) il figlio q, fratello di p, si prende il padre in casa; (c) il padre viene tenuto da una persona dedicata alla sua cura o (d) il padre viene mandato in una struttura. Tuttavia, in questo caso si pone l’immediato problema economico che, per altro, si dà in ogni caso. Infatti, pochi hanno i soldi sufficienti a far sì che in un caso del genere l’anziano abbia risorse sufficienti a pagarsi la persona in questione. Quindi, nei casi (a&b) il primo problema è logistico e il secondo problema è economico. Nel caso (c&d) è il viceversa. Questo in superficie.

Ma c’è una realtà più profonda e che generalmente nessuno ha il coraggio di dire esplicitamente. Il vero problema non è né logistico né economico. Può prendere una forma o l’altra, ma il vero problema è invece il fatto che in ogni caso bisogna prendere decisioni morali, a prescindere dal fatto che si sia ricchissimi o no. Infatti, scegliere di mettere l’anziano signore in un hospice o varianti è un problema morale chiaro e semplice. Inoltre, qualsiasi decisione farà variare tutti i rapporti familiari. Perché? Perché la decisione morale avrà ricadute su tutte le singole relazioni tra le persone della famiglia. Per esempio, se si decide di prendere il genitore in casa, la famiglia che se ne prenderà cura verrà messa sottopressione: avrà una persona in una casa probabilmente inadatta alla cura della persona, probabilmente i genitori – lavoratori – non avranno la forza psicologica di tornare sfiniti dal lavoro e affrontare il carico psicologico offerto da una simile situazione. Oppure sì, ma questo significherà sottrarre una parte del tempo alla cura del figlio e ad altre attività che consentivano delle valvole di sfogo. Valvole di sfogo e tempo libero che non sono comunque trascurabili nell’economia del benessere minimo di ognuno di noi. E’ solo una questione di volontà? Certamente c’è anche questa componente. Ma per un momento lasciamo stare la volontà.

La casa va tenuta in modo da essere accogliente, pulita etc.. Per farlo occorre lavoro. Lo dovrà fare una persona che non è probabilmente della famiglia. E si dovrà pagare. Inoltre l’anziano dovrà essere curato da una persona, anch’essa non direttamente relazionata con lui, sempre perché i figli devono lavorare. Non solo. Si riduce lo spazio in casa e si pone l’evidente problema della gestione del tempo libero, come detto, che, quindi, non è più solo una valvola di sfogo o di recupero di altre faccende lasciate in sospeso, ma deve essere investito per una persona che sta morendo. Ovvero, il cui presente deve essere gestito in modo da garantirgli una decenza per un futuro, però, che sostanzialmente non è più aperto né ampio. La coppia deve continuare a spendere del tempo per educare il bambino o comunque aiutare il ragazzo, caso che non si pone soltanto se il ragazzo è indipendente, cosa difficile.

Simili problemi non si aggirano neppure se si introduce l’anziano in una struttura. In questo caso, ci sono persone che pur di non vedere il problema semplicemente non si recano dal caro nella struttura. Ovviamente un simile atto di incapacità di gestire i propri sentimenti, al di là della disfunzione per il malato, implica comunque ovvie ripercussioni. Prima di tutto, il fatto di non vedere qualcuno pospone soltanto il problema, lo rinvia ma non lo elimina. Si sa benissimo che c’è e si sa che si ha talmente tanta sofferenza che non si è in grado neppure di considerare il caso di affrontarla. Il paradosso è che spesso chi non va a trovare i parenti o i propri cari non lo fa per mancanza di empatia ma per un suo eccesso. Il risultato non è solo un inevitabile senso di colpa, diffuso per tutta l’esistenza, ma anche una ripercussione generale dei rapporti affettivi di tutta la famiglia. Inevitabilmente, se tra due fratelli soltanto uno dei due, con la relativa famiglia, va a trovare il caro malato, l’altro fratello perderà (e lo sa) la stima dell’altro o comunque è molto probabile. Per questo si sosteneva che non c’è una scelta facile e tutte quante hanno i loro problemi. E soprattutto non si è più uguali dopo.

In poche parole, la gestione dell’anziano determina una revisione di tutti i ruoli di famiglia. Questo sia perché la decisione morale determina una catena di conseguenze di cui tutti si ricorderanno in futuro, e tutte le parti in causa lo sanno; sia perché qualsiasi decisione si prenda il carico psicologico e organizzativo della famiglia aumenta in ogni caso. Il problema è così drammatico? La risposta è affermativa.

La gestione degli anziani come problema collettivo si pone da poco tempo perché l’età media si è dilatata. Fino a tempi relativamente recenti, ovvero prima del boom economico e dell’aumento dell’età media, gli anziani erano sostanzialmente detronizzati dalla catena di comando familiare assai presto, a scapito di chi crede nell’esistenza di una sorta di saggio al centro del villaggio. Non c’era. Perché l’unità familiare è sempre stata fondata sul principio economico, ripartito tra chi garantiva la vita economica e chi l’amministrava. L’anziano veniva, poi, accudito dalle donne di casa, esattamente come gli infanti. Infatti, nell’amministrazione del tempo in casa, le donne svolgevano le mansioni di cura e di gestione dell’esistente. Se il maschio era tendenzialmente quello che garantiva l’apporto di risorse, la donna era quella che ne garantiva il buon mantenimento e la preservazione nel tempo. Quindi, tutt’altro che secondaria, la donna era la vera padrona della casa, anche quando la casa forse era padrona di lei.

Da quando non è possibile avere una famiglia tradizionale, banalmente perché solo in pochi maschi sono capaci di garantire con il loro stipendio una vita decente a tutta la compagine familiare, l’attrattiva della casalinga è ovviamente venuta drasticamente meno. Non solo, ma come si è ben capito da un esperimento sociale ben riuscito in India, il tasso di istruzione determina una variazione nella percezione dei propri bisogni. Quindi, l’alta istruzione delle donne determina ipso facto lo spostamento (e non l’eliminazione) del loro bisogno di avere prole perché comunque vogliono inserirsi nel tessuto sociale, culturale e produttivo.

Quindi, non è una questione di salvare la donna dalla condanna della casa. E’ una questione che chi vuole una famiglia, in linea di massima, ha bisogno di più entrate. Questo a sua volta agevola il fenomeno grazie al quale la famiglia è sempre meno centripeta ed è sempre più acefala: se i genitori devono lavorare, i figli devono essere cresciuti da istituti. Una batteria di sostituti alla scuola e alla famiglia si diffondono in tutto lo spazio sociale urbano: sport, club, tempi lunghi etc., sono soltanto degli espedienti per ritardare il ritorno del bambino in casa. Considerazioni simili valgono per gli anziani. Con una differenza. Che gli anziani, a differenza dei figli, sono ancora in grado di svolgere una loro funzione all’interno dei compiti importanti per una famiglia, ma allo stesso tempo non possono più avere una vita del tutto autonoma, anche solo in linea di principio.

C’è chi dice che oggi non si vuole vedere la morte e, quindi, anche l’anziano e la vecchiaia. A me pare una dicitura vaga. Cosa vuol dire che “non si vuole vedere la morte”? E soprattutto: serve a chiarire il problema e a risolverlo? Non mi pare. A me pare che il problema è molto più profondo e consiste nel fatto che gli esseri umani hanno molte difficoltà a ridefinire il ruolo delle loro relazioni quando queste cambiano. Quando un genitore diventa anziano ha diritto ad essere trattato in modo diverso. Per esempio, una madre assiste il bambino quando è molto piccolo e lo ascolta quando è più grande. Ma quando la madre diventa anziana, il figlio dovrebbe prendersi cura almeno in parte della salute mentale, della solitudine e del benessere del genitore. Il problema è che il tempo sembra lineare quando invece procede per fasi. L’uomo cresce e va avanti e affronta sempre molti problemi e ha poco tempo per ragionare. Quando è arrivato il momento di farsi da parte e lasciare che gli altri assumano un certo peso nell’economia dei suoi problemi, quando invece prima era il contrario? Non è semplice.

Quando un familiare muore, un familiare che è al centro della vita di una famiglia e non alla periferia della vita economica e affettiva (perché ha relazioni minori e più deboli), la disgrazia non è soltanto una questione umorale, emotiva e “umana”, come pure è. Ma questo è solo un fatto tra gli altri. Machiavelli diceva che la gente si dimentica più velocemente della morte del padre che della perdita della propria casa. Al di là dei giudizi e delle proprie opinioni, così è perché purtroppo la casa è l’ultimo baluardo contro la totale intemperie del mondo. Dovendo sopravvivere, è statisticamente più facile vivere con un tetto sopra la testa che con un padre vivo ma senza un tetto. In ultima analisi, la casa ci serve per vivere. Bello o brutto che sia, così stanno le cose. E allora la morte è un aspetto non certo secondario, ma non il solo nella tragedia di una famiglia. Così vale anche per la gestione degli anziani.

Pochi vorrebbero mettere in dubbio il valore affettivo che riveste un caro, ma in molti lo fanno o giungono a farlo perché soltanto una generale rivalutazione della propria posizione avrebbe l’effetto contrario. Uno può essere anche moralmente ineccepibile, per esempio decidere di prendersi l’anziano in casa immediatamente. Però il problema è che questo modo solipsistico di agire non è risolutivo e mostra il fatto che si diceva prima: qualsiasi decisione unilaterale di natura morale che si prenda è inevitabilmente problematica.

E’ dunque impossibile trovare una soluzione? Quasi. Quasi perché qui la soluzione non è mai determinata dalla scelta di un individuo, anche quando un uomo santo. Quello che è necessario è che tutta la rete sociale-familiare, in cui l’anziano diventa il centro, reagisca in modo che i rapporti familiari, le relazioni tra individui, cambino. L’anziano diventa il “paziente”, ovvero “l’oggetto di cura”. Ma anche l’anziano deve riconcepirsi in modo da aiutare a farsi aiutare e mettersi a disposizione di una scelta che possa riuscire a far sì che tutti possano fare la propria parte. Quindi non si tratta di concepire il problema a piccoli pezzi, ma a comprendere come riconfigurare la propria vita all’interno di nuove relazioni familiari. E’ come pensare di essere entrati in una nuova famiglia, anche se molto simile alla prima. E in questo anche i bambini devono giocare la loro parte. Non devono essere lasciati fuori, come l’anziano non deve essere abbandonato. Non si può pretendere che il bambino cucini il pranzo al nonno, ma che ogni tanto gli racconti di sé o ci giochi a carte (etc.). La morte è nient’altro che una parte delle cose che capitano in questo mondo. Così come l’anzianità è una parte della vita, se ci si arriva. Non ha alcun valore aggiunto, né buono né cattivo. E’ una fase della vita che ha le sue caratteristiche ed è del tutto inutile speculare sul fatto che sia desiderabile o no. E’ una domanda che lascia abbondantemente il tempo che trova, a meno che si sia così disonesti con se stessi da pensare che la cosa non ci riguardi.

La morte e la vecchiaia non si vogliono vedere in gran parte perché è difficile riconcepire una parte della propria identità personale e delle relazioni umane che ci legano con il resto della famiglia quando affrontiamo questi problemi, sia in quanto anziani, sia in quanto parte della famiglia con anziani. Infatti, la tendenza dell’anziano a non riconoscere le proprie fragilità è ben nota e non c’è molto da farne mistero. A meno di casi contrari, in cui invece l’anziano è una sorta di entità autocommiserata, non c’è una visione piana e pacifica di sé proprio perché… quando si diventa anziani? Quando bisogna riconsiderare le proprie possibilità e i propri limiti? Quando bisogna ammettere di essere lontani dall’essere autonomi, in senso stretto (nessuno è autonomo)? Allo stesso tempo, quando si riconosce al proprio genitore il diritto di essere oggetto privilegiato di cura e attenzione, dopo che fino al giorno prima era il contrario? Non ci sono sistemi di misurazione, non esistono regoli e squadre e goniometri per simili calcoli. E infatti i risultati sono drammatici perché ognuno tende a considerare se stesso in funzione della propria concezione di sé del momento e della propria prospettiva personale.

Le istituzioni umane fanno affidamento su una rigidità formale che sancisce una volta per sempre chi sei e cosa fai. Ma la natura è molto più elastica e il mondo è complesso. Anche con le migliori cure e risorse il problema si pone comunque e si può risolvere solamente cercando di fare la propria parte ognuno a proprio modo. Questo significa che essere santi non è il problema. Essere buoni può aiutare, ma non è essenziale. Quello che è essenziale è capire come essere aderenti alle circostanze in modo che si possa continuare a svolgere un ruolo positivo per tutte le relazioni umane nelle quali siamo parti in causa e dobbiamo esserlo. Capire questo semplice fatto è difficile, non impossibile. Ma quello che penso è che invece di parlare in termini generali, bisognerebbe farsi domande sobrie ma precise e saper accettare che non tutto dipende da noi e una parte importante della soluzione dei problemi dipende dalla nostra capacità di riconsiderare la nostra responsabilità semplicemente come parte dell’insieme generale delle persone coinvolte. Se c’è qualcuno che non lo vuole capire, è giusto investire del tempo nel mostrarglielo.

In genere nelle famiglie c’è alla fine il “santo” che piuttosto di lottare per ottenere un’equa ripartizione della responsabilità si prende tutto il carico piuttosto che lasciare tutto inalterato. Non solo sta sbagliando rispetto ai mezzi, perché non è possibile lasciare tutto come prima, ma sta anche sbagliando moralmente: la sua azione è immorale perché prendersi più carico del dovuto nel computo dei propri doveri è altrettanto sbagliato. Non tanto perché è epistemicamente sbagliato, ma perché ognuno di noi ha doveri nei confronti di sé come persona e il proprio annullamento è immorale quanto quello degli altri. Saper dare limiti e saperseli dare è difficile. Per questo la realtà dei fatti è che dobbiamo ripensare criticamente alle situazioni che vengono a formarsi perché la situazione attuale vede una generale incapacità di risolvere le più semplici e banali, perché inevitabili e diffuse, questioni umane.


Giangiuseppe Pili

Giangiuseppe Pili è Ph.D. in filosofia e scienze della mente (2017). E' il fondatore di Scuola Filosofica in cui è editore, redatore e autore. Dalla data di fondazione del portale nel 2009, per SF ha scritto oltre 800 post. Egli è autore di numerosi saggi e articoli in riviste internazionali su tematiche legate all'intelligence, sicurezza e guerra. In lingua italiana ha pubblicato numerosi libri. Scacchista per passione. ---- ENGLISH PRESENTATION ------------------------------------------------- Giangiuseppe Pili - PhD philosophy and sciences of the mind (2017). He is an expert in intelligence and international security, war and philosophy. He is the founder of Scuola Filosofica (Philosophical School). He is a prolific author nationally and internationally. He is a passionate chess player and (back in the days!) amateurish movie maker.

Be First to Comment

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *