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Frederick Taylor e i principi del management scientifico


No system of management, no single expedient – within the control of any man or any set of men can insure continuous prosperity to either workmen or employers. Prosperity depends upon so many factors entirely beyond the control of any one set of men, any state, or even any one country, that certain periods will inevitably come when both sides must suffer more or less. It is claimed, however, that under scientific management the intermediate periods will be far more prosperous, far happier, and more free from discord and dissension. And also, that the periods will be fewer, shorter and the suffering less.

Frederick Taylor – The Principles of Scientific Management

Frederick Taylor (1856-1915) è considerato tra le figure più influenti del XX secolo. Nato alla metà dell’ottocento, Taylor è colui che porta a compimento la riflessione sulla riforma del lavoro che, curiosamente, si associa normalmente allo sviluppo e all’evoluzione della rivoluzione industriale, già avviata nel XVIII secolo e conclusa, nella sua prima fase, nel XIX secolo. Ancora oggi, quando si pensa ai grandi opifici, organizzati secondo la catena di montaggio, si retrodata questa immagine sino agli albori della prima rivoluzioni industriale. Questa operazione è tuttavia impropria giacché la prima fase della rivoluzione industriale vede semplicemente la concentrazione della forza lavoro dispersa e l’impiego di certe tecnologie a uso di energia non animale o umana, le due prime e fondamentali “rivoluzioni”.

E’ solo successivamente, ovvero negli anni subito precedenti alla prima guerra mondiale, che si assiste ad un serio ripensamento dei fondamenti stessi dell’organizzazione del lavoro nelle fabbriche fino ad allora centrate sull’idea di obiettivi a parametri fissi e sulla “rule of thumb” (“regola del pollice” ovvero del buon senso), disgiunti dalle modalità attraverso cui tali parametri dovevano venire realizzati. Ad esempio, ad un lavoratore veniva richiesto che egli raggiungesse una certa quota di lavoro a giornata, come spalare tot chili di carbone in otto ore, senza che gli venisse spiegato come fare o si sapesse dell’esistenza di un metodo ottimale. Ciò che contava era un risultato fissato ex ante e come raggiungerlo era affare del lavoratore. Questo tratto arbitrario nell’impiego della forza lavoro emerge compiutamente proprio in The Principles of Scientific Management, in cui Taylor porta continuamente esempi di cattivo impiego della manodopera la quale dissipa inutilmente e spontaneamente energie senza costrutto.

Il testo di Taylor non è particolarmente lungo ma la sua influenza è stata stimata a tal punto decisiva che, non senza una sua plausibilità, è stato considerato il testo più importante nel mondo del lavoro di tutto il XX secolo e, forse, più in generale, supera le riflessioni di Karl Marx rispetto all’influenza reale nella gestione della forza lavoro almeno in Occidente. E vale la pena di dire che, come tutte le vittorie degli esseri umani che diamo più per scontate, Taylor faticò assai per riuscire a imporrei i suoi principi nelle industrie e occorsero anni prima di riuscire a formulare i suoi stessi metodi e altri per imporli come vincenti. Come dice egli stesso: “He stated [un capitalista], however, that he did not believe that any scientific study of this sort would give results of much value”.[1] In questo breve articolo cercheremo di esaminare i principi di Taylor, le sue basi e conseguenze.

Taylor introduce il tema dell’opera problematizzando l’impiego stesso della forza lavoro, così come veniva organizzata e pensata all’interno del tessuto produttivo americano:

We can see our forests vanishing, our water-powers going to waste, our soil being carried by floods into the sea; and the end of our local coal and our iron is in sigh. But our larger waste of human effort, which go on every day through such of our acts as are blundering, ill-directing, or inefficient, and which Mr. Roosevelt [presidente degli US n.d.r.] refers to as a lack of “national efficiency”, are less visible, less tangible, and are but vaguely appreciated.[2]

In alter parole, il più clamoroso “waste of human effort” non è la dissipazione inutile di risorse materiali ma lo stesso lavoro umano che è definito come “errato, mal diretto o inefficiente” fino al punto di essere definito come “un’inefficienza nazionale” ma anche più in generale un’inefficienza della storia umana. Taylor osserva che si tratta di qualcosa di intangibile, di difficile da cogliere proprio per l’implicita mancanza di modelli di lavoro efficiente e per la naturale difficoltà a concepire il tempo e l’efficienza come qualcosa di materiale ed evidente. Il problema consiste nella sua ubiquità e reiterazione: ogni lavoratore dissipa energie in modo improduttivo così che il tessuto produttivo in senso generale è inficiato dalle sue stesse basi a dissipare tempo e lavoro. Ritorniamo all’esempio dello spalatore di carbone a quote fisse. Egli sa che deve raggiungere una certa quota. Molto probabilmente farà molto sforzo nelle prime tre-quattro ore per cercare di arrivare al termine prescritto prima del tempo e potersi gestire il resto dell’orario a suo piacimento. Oppure, più verosimilmente, lavorerà il minimo indispensabile per raggiungere la quota, così da raggiungere lo scopo col minor sforzo possibile. In entrambi i casi il risultato è lo stesso, ovvero lo spreco di tempo, ma per ragioni diverse: nel primo caso il lavoratore non impiega tutto il tempo a disposizione per creare utile oltre quota; nel secondo caso, il lavoratore impiega tutto il suo tempo ma non nel miglior modo possibile, cioè creando le condizioni per oltrepassare la quota.

Questo, dunque, il problema. Intuitivamente verrebbe da pensare che, posto il problema, la soluzione debba risiedere nella riforma del lavoratore, dell’individuo in quanto tale. Ovvero, se il problema attiene ai singoli, allora bisognerebbe semplicemente cambiarli, renderli più efficienti, anche solamente fornendogli i giusti incentivi. Una riforma dell’individuo, dunque, può essere una soluzione possibile. E questo infatti è parzialmente vero e motiva una delle frasi più sbalorditive dell’intero lavoro di Taylor: “The principal object of management should be to secure the maximum prosperity for the employer, coupled with the maximum prosperity for each employee”.[3] Questa frase ha dell’incredibile, per un lettore che dimentica i principi dell’utilitarismo classico (il cui principio primo era “massimizza sempre la massima felicità per il maggior numero”). In fondo, ci aspetteremo qualcosa di diverso da un capitalista par excellence. E invece la rivoluzione parte dal “to secure the maximum prosperity of the employer” e solo dopo “coupled with… the prosperity for the employee”. Per Taylor la felicità dei lavoratori è intrinsecamente legata alla soddisfazione dei datori di lavoro:

The majority of these men [degli amministratori] believe that the fundamental interests of employees and employers are necessarily antagonistic. Scientific management, on the contrary, has for its very foundation the firm conviction that the true interests of the two are one and the same; that prosperity for the employer cannot exist through a long term of years unless it is accompanied by prosperity for the employee, and vice versa; and that it is possible to give the workman what he most wants – high wages – and the employer what he wants – a low labor cot – for his manufactures.[4]

Gli interessi del capitalista e della forza lavoro sembrano antagonisti ma non lo sono. Ovvero, non si tratta di un gioco a somma zero tra le parti ma, nel giusto rapporto, di un gioco in gran parte cooperativo. L’apparenza del conflitto è dovuta al fatto che il lavoratore tenta di minimizzare l’energia impiegata nel suo lavoro perché così massimizza (di fatto) il risultato, che per Taylor si riduce esclusivamente nella paga (denaro, “high wages”). Allo stesso tempo, il capitalista cerca di minimizzare gli sprechi, che egli concepisce nelle differenze di pagamento della forza lavoro. Quindi i primi cercano di ottenere il massimo (stipendio) con il minimo sforzo e i secondi cercano di minimizzare il massimo ottenibile dai primi (cioè il loro stipendio). Taylor osserva che questa condizione è solo una parte del discorso perché in realtà è la possibilità di aumentare il guadagno degli operai dipende dal successo che ne ha il capitalista e viceversa. E’ il “viceversa”, appunto, ad essere la parte da spiegare: Taylor deve mostrare come l’aumento del costo della manodopera deliberatamente operato dal capitalista può conseguire ad un aumento complessivo del guadagno per lui e quindi per l’azienda.

Quindi il primi principi dell’arte del management scientifico sono proprio:

(I) Massimizza la prosperità della tua forza lavoro.

(II) Massimizza la prosperità del capitalista.

Def.: La prosperità è misurata in termini di paga e di utili economici.

(I) e (II) si possono combinare insieme:

(III) Massimizza la prosperità del sistema (lavoratori + capitalista)

Taylor fornisce anche una caratterizzazione della relazione tra il primo e il secondo principio, caratterizzazione che si inquadra come “principio limitativo” nella formulazione della relazione tra lavoratore e datore di lavoro:

…that the greatest prosperity [cioè (III)] can exist only as the result of the grates possible productivity of the men and machines of the establishment – that is, when each man and each machine are turning out the largest possible output (…) In a world, that maximum prosperity can exist only as the result of maximum productivity.[5]

In altre parole, il “gratest prosperity”, la più grande prosperità possibile, può esistere solo se il lavoratore (e le sue strumentazioni tecnologiche) stanno producendo al loro massimo possibile. Sembra un principio banale, ma in realtà esso assume l’esistenza non di uno ma di due limiti. Il primo limite è abbastanza evidente: si deve produrre il massimo possibile. Ma il massimo possibile dipende intrinsecamente dal lavoro della manodopera e dall’impiego dei suoi mezzi in modo adeguato. Questo significa (e Frederick Taylor lo dirà esplicitamente più avanti) che il lavoratore non deve essere stremato dal lavoro perché egli renderà molto meno nel lungo periodo (anche in assenza di aiuti sanitari e sindacali…), come pure le macchine non devono essere portate ad un livello di usura da lavoro tale da dover essere distrutte dopo poche settimane di lavoro. Quindi, il capitalista, come vedremo, non solo deve accertarsi che il lavoratore sia efficiente ma anche che non esageri nello sforzo dovuto al lavoro.

(IV) La massima prosperità dell’azienda è possibile solo se gli operai e le macchine conseguono al massimo risultato possibile.

Dunque la soluzione del “waste of human effort” dipende solo dai “workers”, dai lavoratori? Se la risposta è affermativa, allora bisogna educare o selezionare la forza lavoro. E questo costituisce il primo principio del metodo di Taylor. Ma non basta. La parte imprecisa di questa soluzione prima facie conduce alla vera svolta, nonché la vera rivoluzione di Taylor: per poter migliorare il lavoro del singolo è necessaria una riorganizzazione del tessuto produttivo stesso. In altre parole, per rendere efficienti tutti i singoli non è sufficiente insegnargli a lavorare in modo più efficace o selezionare i “first-men class”, prima di tutto bisogna concepire il lavoro come “sistema” di individui interagenti e non come atomi slegati in cui diverse figure svolgono diversi compiti simultaneamente. Questa svolta è decisiva:

In the past the man has been first; in the future the system must be first. This in no sense, however, implies that great men are not needed. On the contrary, the first object of any good system must be that of developing first-class men; and under systematic management the best man rises to the top more certainly and more rapidly than ever before.[6]

Non senza una certa ironia, Frederick Taylor arriva a conclusioni simili a quelle comuniste da un punto di vista sostanzialmente opposto (“the system must be first” instead of “the humans…”). Per rendere gli individui efficienti è necessario avere uno sguardo orientato alla comunità generale. Nel caso di Taylor la comunità è il tessuto produttivo, ovvero l’insieme di organizzazioni sociali il cui scopo è quello di produrre utili mediante l’uso di forza lavoro il cui scopo è quello di creare artefatti per poterli vendere. Quindi, osserva Taylor, il problema di rendere gli operai “first-class men” è solo una parte del gioco perché la vera sfida è concepire il sistema adatto per consentirle l’esistenza.

Ma per capire la “riforma” del lavoro bisogna partire dall’obiettivo: avere solamente “first-class men”. Infatti: “it follows that the most important object of both the workmen and the management should be the training and development of each individual in the establishment, so that he can do (at his fastest pace and with the maximum of efficiency) the highest class of work for which his natural abilities fit him”[7] Insomma, si tratta di educare la classe operaia in modo che possa svolgere i suoi compiti. Tuttavia, non tutti sono adatti a ricoprire i ruoli desiderati, anche dopo una educazione vigorosa, rimangono individui inutili, non inscrivibili all’interno di questo quadro. Ma chi sono questi individui ideali? La risposta non è un super-lavoratore, un Ercole della classe operaia. Il “first class man” è semplicemente un uomo motivato dalla paga che segue con molta precisione i compiti che gli vengono affidati. Egli è motivato e motivabile oltre, naturalmente, ad essere un uomo di sana e robusta costituzione, ma non un oltreuomo. Quanto più conta è che sia suscettibile di premi e punizioni. Soprattutto dei premi, che si traducono in pochi onori e in più denaro dei pari. Chi non è suscettibile al denaro, semplicemente non è un “first-class man”.

La selezione dei lavoratori è tutt’altro che attività banale e richiede molto lavoro da parte del capitalista, fatto non banale all’epoca. Infatti, non avveniva selezione ma solamente si assoldavano torme di proletari dandogli una paga minima, tre errori capitali secondo Frederick Taylor: (1) un lavoratore va selezionato accuratamente principalmente sulla sua sensibilità alla remunerazione e motivazione; (2) va selezionato individualmente e non in gruppo proprio per non creare fenomeni di “soldiering” (sostanzialmente forzata uniformità a standard non conformi agli interessi del capitalista); (3) la paga minima non garantisce altro che un lavoro compiuto col minimo sforzo, in assenza di altri stimoli, e quindi sostanzialmente al di sotto della massima produttività. Come dice Frederick Taylor: “Our first step was the scientific selection of the workman. In dealing with workmen under this type of management, it is an inflexible rule to talk to and deal with only one man at a time, since each workman has his own special abilities and limitations, and since we are not dealing with men in masses, but are trying to develop each individual man to his highest state of efficiency and prosperity”.[8] Questa citazione è ripresa da uno dei molti passaggi de I principi del management scientifico in cui l’autore riporta casi concreti in cui egli ha lavorato sul campo.

(V) Seleziona scientificamente la manodopera in modo da trovare individui sensibili alla remunerazione economica e capaci di svolgere il proprio compito.

E appunto si giunge alla definizione del “compito”, la cui analisi è sorprendente perché assolutamente non banale. Ovvero, il management scientifico non seleziona semplicemente la manodopera per motivazione e sensibilità alla remunerazione, ma anche in base ai lavori che essa deve svolgere. Ma per questo bisogna avere una caratterizzazione molto dettagliata della natura del lavoro da svolgere ovvero, in termini concreti, i movimenti di base necessari e sufficienti a conseguire il lavoro. Non un movimento di più e non un movimento di meno: “he entirely eliminates a lot of tiresome and time-consuming motions which are necessary for the brick-layer who lacsk the scaffold and the packet”.[9] Lo studio della dinamica del lavoro implica una analisi dettagliata dell’interazione tra l’uomo e le macchine e tra l’uomo e l’altro uomo in condizioni di non uguaglianza di compiti. Si tratta, evidentemente, di qualcosa di straordinariamente complesso. C’è di più. Non è possibile avere una conoscenza a priori della “realtà”, ovvero di come un compito viene effettivamente svolto, e del “modello ideale”, ovvero di come un compito dovrebbe essere svolto. Lo studio deve essere svolto sul campo, mediante esperimenti impostati attraverso l’analisi di due operai selezionati come “first-class man” e messi alla prova. Successivamente il risultato deve essere scomposto e rianalizzato per trovare il modello ideale da applicare in test sperimentali e, poi, da riformulare definitivamente come linea guida uguale per tutti i lavoratori impiegati negli stessi compiti. E quindi non sorprende che le linee guida debbano essere scritte e fornite illustrativamente alla manodopera (pur nella difficoltà di un alto tasso di analfabetismo): questo rigore nella formulazione dei compiti è la cifra della loro reiterabilità e progressivo affinamento: la registrazione è fondamentale per progredire nell’analisi dei compiti. Questa è probabilmente la parte più “scientifica” del lavoro di Frederick Taylor il cui obiettivo è: “our endeavor was to learn what really constituted a full day’s work of a first-class man; the best day’s work that a man could properly do, year in and year out, and still thrive under”.[10]

Lo studio prevedeva la semplificazione dei gesti di ogni lavoro nei minimi indispensabili e reiterabili ab libitum, ma per periodo molto precisi di tempo. Questo passaggio è fondamentale. L’usura della manodopera è grave e costituisce una perdita per il sistema complessivo, sicché l’arte del management scientifico consiste nel fissare una giornata di lavoro ideale per ogni lavoratore motivato tale che essa non lo conducesse all’autoesaurimento:

It will also be clear that in all work of this kind it is necessary for the arms of the workman to be completely free from load (that is, for the workman to rest) at frequent intervals. Throughout the time what the man is under a heavy load the tissues of his arm muscles are in process of degeneration, and frequent periods of rest are required in order that the blood may have a chance to restore these tissues to their normal condition.[11]

Fino a qui abbiamo parlato della manodopera. Ma l’iniziativa personale non basta. I lavoratori non svolgono i loro compiti nel massimo della loro efficienza, cioè in accordo al modello ideale prestabilito dalle linee guida senza un sorvegliante. Il sorvegliante, però, non è un “nemico” del lavoratore (nell’idea di Taylor) perché ha diversi compiti: (I) insegnare le linee guida al lavoratore, (II) guidarlo pazientemente fino a che il lavoratore non ha acquisito stabilmente l’abilità necessaria per svolgere nei tempi le sue mansioni, (III) verificare che si riposi, (IV) misurare il grado di efficienza del lavoratore e (V) riconoscere il grado di efficienza attraverso una remunerazione economica che deve essere immediata. Il lavoratore sensibile ed efficiente deve essere riconosciuto immediatamente in termini economici, così da rinforzargli l’idea di eseguire sempre gli stessi compiti. Ma proprio per questo c’è il rischio che egli compia sforzi eccessivi e, quindi, uno dei compiti del sorvegliante è quello di verificare che il lavoratore si riposi adeguatamente.

La selezione dell’operaio non può seguire gli stessi criteri della selezione del sorvegliante. E’ interessante riportare il passo, chiarissimo nella sua essenza brutale e schietta:

Now one of the very first requirements for a man who is fit to handle pig iron as a regular occupation that he shall be so stupid and so phlegmatic that he more nearly resembles in his mental make-up the ox than any other type. The man who is mentally alert and intelligent is for this very reason entirely unsuited to what would, for him, be the grinding monotony of work of this character. Therefore the workman who is best suited to handling pig iron is unable to understand the real science of doing is class of work. He is so stupid that the word “percentage” has no meaning to him…[12]

Il first-man class alla fine rassomiglia ad un bue (ox) che svolge i suoi compiti, che sarebbero obiettivamente insopportabili per un “alert and intelligent man” (uomo sveglio e intelligente), il quale però comprende (a differenza del primo, troppo stupido) i principi del management scientifico. Tutto questo conduce, secondo una certa idealizzazione del suo stesso progetto, ad una maggiore vicinanza tra il capitalista (che si presume il controllore e il sorvegliante della sua stessa manodopera) e il lavoratore. Infatti, se prima dell’introduzione del management scientifico il capitalista non aveva molto da fare, adesso egli deve essere vicino alla manodopera, prendersi cura che non si usuri, spingere affinché guadagni di più (cioè sia più produttiva) e svolga solo i compiti strettamente necessari. Va da sé che, come in tutti gli studi di questo tipo, c’è molto spazio per l’idealizzazione unilaterale da parte del manager che, paternalisticamente, gestisce il suo pascolo (di buoi, per riprendere l’immagine del così generoso Taylor). D’altra parte, innegabilmente il principio di Frederick Taylor è ben risaldato alle fondamenta stessa di tutte le filosofie che vedono vari “sistemi sociali” primeggiare sull’individuo: ognuno deve fare ciò che è più adatto per conseguire al massimo utile sociale, esattamente come diceva Platone, mutatis mutandis. Il risultato complessivo è il seguente:

The writer trusts that it is now clear that even in the case of the most elementary form of labor that is known, there is a science, and that when the man best suited to this class work has been carefully selected, when the science of doing the work has been developed, and when the carefully selected man has been trained to work in accordance with this science, the results obtained bust of necessity be overwhelmingly grater than those which are possible under the plan of “initiative and incentive”.[13]

Il testo di Taylor fa parte di quelle opera che rimangono impresse. La sua logica ingegneristica, che seleziona solo ciò che egli crede ci sia di rilevante e scarta tutto il resto come “trascurabile”, non può non essere in qualche misura apprezzabile. Il risultato sul piano dell’efficienza organizzativa è piuttosto evidente nella misura in cui si ragiona sulle condizioni precedenti e successive all’introduzione del suo management scientifico. Si tratta, infatti, di quelle operazioni che funzionano, che producono risultati incontrovertibili, indipendentemente dal giudizio (morale) che se ne può trarre: qualcosa che funziona può essere anche pericoloso, ma pur sempre funziona. E capire perché e come tali risultati vengano prodotti è un problema diverso che valutarli. E’ evidente che il problema della sovrintendenza, tutt’altro che spontaneamente gentile e “paziente” (termine che Taylor usa), è aperto nel testo di Taylor. Questo come altri “trascurabili” problemi che, anche in un testo pensato per i capitalisti, si sarebbero anche potuti trattare. D’altra parte, non si può non riconoscere una certa audacia a questo testo, un testo che inizia rivendicando che l’efficienza dell’azienda parte dalla “soddisfazione dei lavoratori”. E’ un dato di fatto che Taylor ha fornito una soluzione relativamente semplice ad un problema importante, il “waste of human effort”, lo scempio degli sforzi umani applicati al lavoro industriale (e non solo).

Si tratta di un testo che ha dei suoi fondamenti meta-economici e meta-manageriali. Il principio della “massimizzazione della prosperità” è sostanzialmente il principio utilitarista classico, che viene formulato prima in ambito legale (da Bentham) e poi morale (sempre da Bentham e da Mill). Il principio secondo cui ognuno deve svolgere il compito che gli è più adatto (“most fit”) è addirittura riconducibile a Platone, mentre il metodo di analisi impiegato è in tutto analogo a quello proposto da Cartesio nel suo celebre Discorso sul metodo. Infine, la visione psicologica di Frederick Taylor potrebbe essere stata influenzata dalla filosofia di David Hume o, forse, a quella di Adam Smith. E non ci sarebbe da andare a scavare poi così tanto, visto che Taylor vive nel mondo americano in cui la filosofia inglese ha sempre dominato su ogni altra. E d’altra parte, Taylor stesso applicava, a quanto pare, i suoi propri principi alla sua stessa vita (ad esempio, selezionando sempre il percorso più ottimale per compiere meno passi tra due luoghi).

In questo articolo ci premeva riportare le proposte di Taylor per quelle che sono, non per le loro implicazioni storiche o morali che possono avere oggi (il paragone tra i buoi e l’operaio sarebbe oggi causa di licenziamenti e vituperi pubblici – e magari elogi privati -, se dovesse divenire pubblica. Figuriamoci pubblicarla in un lavoro scientifico). Quale che sia l’opinione del lettore, ci sembra importante sottolineare l’impressionante validità e interesse, sia storico che culturale, dell’opera di Frederick Taylor il quale, nonostante tutto, è giustamente considerato una delle persone più influenti del XX secolo e, probabilmente, della storia umana perché, grazie a lui, sono state rese possibili le creazioni di cose prima impossibili e la liberazione di una forza lavoro capace di rendere oggi l’uomo forse eccessivamente ottimista nei confronti delle proprie possibilità.


Riportiamo qui per comodità una possibile assiomatizzazione della teoria di Taylor.

(I) Massimizza la prosperità della tua forza lavoro.

(II) Massimizza la prosperità del capitalista.

Def.: La prosperità è misurata in termini di paga e di utili economici.

(III) Massimizza la prosperità del sistema (lavoratori + capitalista)

(IV) La massima prosperità dell’azienda è possibile solo se gli operai e le macchine conseguono al massimo risultato possibile.

(V) Studia il compito da svolgere.

(VI) Semplifica (V) minimizzando al massimo il numero di gesti e risorse indispensabili per svolgere (V).

(VII) Scrivi le linee guida in accordo con (VI).

(VIII) Seleziona scientificamente la manodopera in modo da trovare individui sensibili alla remunerazione economica e capaci di svolgere il proprio compito.

(IX) Sorveglia la manodopera e aggiorna le linee guida e accorda i giusti riconoscimenti economici.


[1] Taylor, Frederick; (1911), The Principles of Scientific Management, Amazon, UK, p. 38.

[2] Ivi., Cit., p. 2.

[3] Ivi., Cit., p. 4.

[4] Ivi., Cit., p. 5. Corsivo nostro.

[5] Ivi., Cit., p. 5-6.

[6] Ivi., Cit., p. 3.

[7] Ivi., Cit., p.7.

[8] Ivi., Cit. p. 31.

[9] Ivi., Cit. p. 60.

[10] Ivi., Cit., p. 40.

[11] Ivi., Cit., p. 43.

[12] Ivi., Cit., p. 43.

[13] Ivi., Cit., p. 44.


Giangiuseppe Pili

Giangiuseppe Pili è Ph.D. in filosofia e scienze della mente (2017). E' il fondatore di Scuola Filosofica in cui è editore, redatore e autore. Dalla data di fondazione del portale nel 2009, per SF ha scritto oltre 800 post. Egli è autore di numerosi saggi e articoli in riviste internazionali su tematiche legate all'intelligence, sicurezza e guerra. In lingua italiana ha pubblicato numerosi libri. Scacchista per passione. ---- ENGLISH PRESENTATION ------------------------------------------------- Giangiuseppe Pili - PhD philosophy and sciences of the mind (2017). He is an expert in intelligence and international security, war and philosophy. He is the founder of Scuola Filosofica (Philosophical School). He is a prolific author nationally and internationally. He is a passionate chess player and (back in the days!) amateurish movie maker.

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