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Lavoro nell’età dei robot – Una riflessione sul futuro prossimo?

Ispirato dalla recente lettura de Work in the Age of Robots (Encountering Books, 2018) del saggista e futurologo Mark Mills, vorrei qui ragionare sul principale argomento del libro, ovvero l’avvento dell’automazione non determinerà la fine del lavoro per come lo conosciamo. Ora, a differenza di certi testi giuridici che fonderebbero taluni stati, vorrei iniziare questa brevissima riflessione dando una definizione di lavoro del termine centrale: ‘lavoro’. In questo contesto, il lavoro è il processo necessario per trasformare una risorsa in bene di consumo. Ovvero:

(L) Il lavoro L è il processo P di passi finiti p1… pn capace di trasformare una serie finita di risorse x1…xn in un bene di consumo c.

Mettiamo alla prova la definizione. Se il processo P fosse di passi infiniti il lavoro non terminerebbe. Quindi i passi di transizione di trasformazione delle risorse in bene di consumo deve essere finito. Questo si lega, più in generale, con la nozione generale di relazione aurea tra mezzi e fini che ho esplorato estensivamente in altro loco (Filosofia pura della guerra, Cap. 5): ovvero, se un fine è ragionevole allora i mezzi per raggiungerlo devono essere necessariamente finiti (e possibilmente il numero minore possibile – ma qui subentra una nozione di efficienza che non è necessario considerare). Un argomento simile si può applicare anche alle risorse.

Se il lavoro fosse esclusivamente un fatto processuale, privo di risorse, allora sarebbe vuoto, con il che si intende che qualsiasi lavoro richiede la trasformazione di risorse, quale che sia la natura di queste risorse. E’ banale constatare che qualsiasi trasformazione di risorse (quindi lavoro) è un processo soggetto alle leggi della fisica, sicché anche lavori puramente intellettuali non violano la definizione di lavoro e richiedono risorse: informazione ed energia elettrica/biochimica. Quindi, qualsiasi lavoro ha un costo in termini di tempo e di energie che va considerato anche nella definizione perché qualsiasi lavoro richiede energie per trasformare le risorse nel bene di consumo. Infine, anche le risorse devono essere finite: se fossero infinite anche il processo per trattarle sarebbe ipso facto infinito. Se devo fare una torta con infinita farina devo anche girare infinita farina… Quindi:

(L1) Il lavoro L è il processo P di passi finiti p1… pn capace di trasformare una serie finita di risorse x1…xn attraverso l’impiego di energia in un bene di consumo c.

Quindi il lavoro è diviso in tre componenti: (a) l’organizzazione delle risorse, (b) le risorse e (c) l’energia richiesta per consentire la trasformazione di (b) grazie ad (a) in bene di consumo. A questo punto siamo convinti che nessuna delle componenti individuate sia negoziabile: senza processo non c’è trasformazione, senza energie non si dà il processo e senza le risorse non si crea alcun oggetto (o, per meglio dire, non si modifica la realtà in modo da avere un prodotto finito come lo vorremmo noi). E non è un caso che i tipi di lavoro si distinguono in base al tipo di processo richiesto e risorse che esso richiede.

Ancora, per comprendere, e terminare, la chiarificazione della nozione di lavoro impiegata, dobbiamo considerare, pur brevemente, il bene di consumo.

Se i beni di consumo esistessero in natura, non sarebbe necessario lavoro. Questa logica si applica anche nei casi in cui i beni di consumo siano il risultato di un processo naturale (dove con ‘naturale’ intendo semplicemente ‘spontaneo senza l’ausilio diretto dell’uomo’). Una mela esiste in natura ma la sussistenza dell’albero, il mantenimento della sua salute e del prodotto finito, nonché del suo trasporto, sono tutte componenti del lavoro dell’agricoltore che, infatti, è un nome per una categoria di molti lavori (processi). Una immagine paragonabile allo stato di natura hobbesiano in questo ambito potrebbe essere proprio il paradiso dell’Eden, dove il lavoro era infatti assente: nella tradizione ebraico-cristiana il lavoro è infatti per definizione una punizione divina. Nell’Eden la natura era essa stessa un bene di consumo dove Adamo (e poi Eva) non dovevano fare niente per godere dei suoi frutti. Ovvero, essi non dovevano trasformare le risorse in beni di consumo perché la natura stessa era un bene perfetto.

Qualsiasi oggetto, che viene impiegato dall’uomo con la parziale eccezione di se stesso, è un bene di consumo che, in quanto tale, può essere usato da chiunque ne abbia la capacità e bisogno. Quindi, un bene di consumo non è altro che un mezzo per un fine, la cui natura è determinata da alcune caratteristiche non soggettive (l’oggetto in sé) e altre che invece sono eminentemente soggettive (il modo di consumo e lo scopo). Quindi, il lavoro non esisterebbe senza la necessità di creare un bene di consumo, ovvero un oggetto che ha un particolare valore per un insieme di individui. Qui con ‘valore’ intendo solamente una generico grado di interesse che misura l’appetibilità del bene rispetto ad un particolare soggetto. Senza un consumatore, non si dà lavoro! Infatti, senza consumatore non si dà il bene di consumo, che è il fine del lavoro. Quindi, il lavoro è giustificato in funzione della presenza di un consumatore che rende razionale il processo economico coinvolto nella produzione dell’oggetto che non esisterebbe altrimenti in natura. Benissimo. Ma in tutto questo, la nostra definizione è silente circa la natura del soggetto che svolge lavoro:

(L1) Il lavoro L è il processo P di passi finiti p1… pn capace di trasformare una serie finita di risorse x1…xn attraverso l’impiego di energia in un bene di consumo c.

 

In questa definizione, il lavoro può addirittura essere qualcosa di spontaneo, come un orologio che nascesse da solo: è statisticamente molto bassa la probabilità di avere un simile oggetto in natura senza l’ausilio dell’uomo – o di un altro essere razionale, ma è pur sempre possibile. Il problema è simile a quello dell’orologio. Tutto ciò che è parte dell’orologio esiste in natura come risorsa, ma la combinazione delle risorse in modo tale che alla fine si costituisca un orologio non esiste in natura ma solamente in accordo con la natura. Ovvero, il lavoro è il risultato di una particolare applicazione delle leggi di natura alle risorse che la natura ha disposto. Dato il fatto che l’essere umano definisce fini in base alla sua capacità di applicare la ragione ai suoi desideri, egli stesso crea la necessità di oggetti immaginari la cui invenzione richiede lavoro. Supponiamo che l’uomo non applicasse la sua ragione ai suoi desideri: egli sarebbe come un animale che spontaneamente fa quel che desidera senza ulteriore diversificazione di fini e mezzi. L’animale ha priorità preimpostate e rigide (come dimostrò bene il paradosso dell’asino di Buridano, non a caso amato da Spinoza). Ma l’essere razionale definisce e cambia le sue priorità sino al punto di essere capace di annullarle.

Quindi, la creazione di un bene di consumo – che è un oggetto di qualche tipo – richiede che un pezzo della realtà naturale, ovvero del cosmo, segua una precisa traiettoria. Per fare questo, gli esseri umani non dispongono di altro che se stessi per farlo. Infatti, supponiamo che le cose stessero esattamente così: non c’è bisogno dell’uomo per trasformare gli oggetti in beni di consumo. Questa, di nuovo, sarebbe la condizione del paradiso terrestre!, ovvero la condizione in cui la natura è esattamente come l’uomo la vuole: la natura è il bene di consumo. Ma come tante immagini della Bibbia, questa è una immagine indotta dalla nostra stessa immaginazione: è come un uomo normale desidererebbe il mondo, ovvero ai suoi piedi. Peccato che questa sia esattamente la condizione inversa in cui ci troviamo. Solo l’uomo può creare beni perché la natura non è sufficiente a darglieli così come li vorrebbe.

La domanda è sempre la stessa: ma allora è possibile il lavoro senza l’uomo? Una risposta a questa domanda è semplice: non esisterebbe il lavoro, per come lo stiamo intendendo qui, senza i consumatori dei beni di consumo grazie ai quali il lavoro assume un senso. Quindi, l’estinzione dell’umanità (e di ogni essere razionale finito che esistesse nell’universo!) determinerebbe ipso facto l’estinzione del lavoro. Ma con esseri razionali supposti esistenti le cose cambiano e una natura recalcitrante a fare spontaneamente ciò che essi desiderano, ecco che il lavoro si impone come una necessità. Infatti, dato il fatto che il lavoro è un processo d’ordine sulla materia, esso richiede trasformazione di energia, ovvero un aumento di entropia complessiva per ridurre localmente il disordine (il lavoro, cioè, riduce il disordine localmente per aumentarlo o dissiparlo globalmente).

Nella storia del mondo gli uomini, in quanto esseri razionali, sono stati gli inventori del lavoro, che è probabilmente in sé la più grande rivoluzione del cosmo, a condizione che qualcun altro non l’abbia inventato prima di noi. Tuttavia, progressivamente, l’uomo ha inventato strumenti per sostituirsi all’interno di particolari processi lavorativi. Egli, cioè, ha sostituito se stesso con pezzi di universo (meccanismi) capaci di fare ciò che egli stesso è in grado di fare! Tutto quello che le macchine fanno, l’uomo lo ha fatto prima e solo in seconda istanza ha trovato il modo di farsi sostituire. L’argomento di Mills è questo: questo processo non porta, però, all’eliminazione dell’uomo da ogni processo ma solo da alcuni processi. Ovvero, i meccanismi automatici rendono più efficiente una certa parte del processo produttivo e questo significa che essi liberano spazio: l’uomo non è più richiesto e quindi si sposta.

L’automobile ha eliminato gli stallieri (al 90%) ma ha assorbito gli stallieri nella produzione delle automobili (ovviamente il percorso è più complicato di così ma è una semplificazione che fa capire). Cioè l’evoluzione tecnologica ha creato più lavoro di quanto ne abbia distrutto. Questo è testimoniato proprio dal fatto che più tecnologia richiede oggi una quantità di esseri umani mai così tanto numerosi nella storia del Pianeta. Naturalmente, sul breve periodo può darsi il caso di situazioni contrarie (nell’immediato meno manodopera può gestire la produzione di più prodotti, come avvenne nel periodo di Taylor). Ma questo non vale sul lungo periodo. In che modo potrebbe essere altrimenti?

Se il lavoro è una trasformazione di risorse in un bene mediante l’impiego di energia, ipso facto il disordine complessivo del sistema aumenta e non diminuisce. Più tecnologie impieghiamo, più ne servono per mantenerle funzionanti e più energia è richiesta al sistema per automantenersi. Il risultato è che l’uomo trasforma la funzione del suo lavoro: egli diventa sempre più il giardiniere di un orto in cui le piante sono le sue macchine e quindi da aratro (energia meccanica) diventa bue (energia biochimica) e da bue diventa conducente (energia elettrica) e forse da conducente diventa ingegnere e autista. Il processo non è infatti di semplificazione ma di complicazione. Oggi usiamo una moltitudine di meccanismi che ci lasciano al di fuori di loro come l’organismo di un animale che aggiustiamo solo quando serve. Ma appunto dobbiamo essere in grado di aggiustare.

La creazione dei robot umanoidi non determinerebbe la fine del lavoro anche il giorno in cui i robot diventassero esseri senzienti razionali. Intanto, perché in questo caso essi stessi diverrebbero dei consumatori e richiederebbero o definirebbero nuovi beni di consumo ipso facto (come l’automobile richiese lo sviluppo di propellenti adeguati che i cavalli non potevano bere!). In secondo luogo perché, ancora una volta, la complessità del sistema complessivo sarebbe aumentata e non diminuita: i robot e noi stessi continueremmo a produrre richieste che la natura continuerà a non esaurire se non appositamente guidata. Quindi, il lavoro cambia perché il tipo di intervento dell’uomo sulla natura si trasforma in funzione del tempo. Ma non c’è nessuna possibilità che il lavoro venga eliminato né oggi né mai. Con o senza robot.

Il vero problema semmai è per chi si ritroverà sul momento senza lavoro… il paradosso! Ma questo naturalmente è del tutto privo di interesse in questa disamina filosofica. Perché il problema non è la sparizione del lavoro (allora) ma come gestire le transizioni dei lavoratori precedentemente allocati e ora privi di immediato impiego. Mi pare che la storia abbia insegnato sufficientemente che non esistono soluzioni ottimali per quest’ultimo problema perché attiene a quel mondo delle percezioni in cui ognuno invoca la sua parte senza considerare il tutto.

E il chiacchiericcio sulla fine del lavoro è solamente parte di questi nostri tempi in cui l’apocalisse sta arrivando (sia essa una nuova guerra o una catastrofe naturale) si contrappone alla liberazione totale dai mali del mondo (malattie e solitudine in primis) attraverso una nuova formula magica che assume la forma di un oggetto meraviglioso. Ma queste sono solo puerili proiezioni della media degli esseri umani che invocano il diluvio universale per ripulire il male che c’è nel mondo. La liberazione totale dai mali aggiornata al mondo dei robot, che quindi ci ricorda solamente che il mondo è duplicemente visto come il migliore dei beni che è al contempo la causa di ogni nostro male. Come il lavoro, che infatti è e rimarrà parte della nostra vita su questo Pianeta.


Giangiuseppe Pili

Giangiuseppe Pili è Ph.D. in filosofia e scienze della mente (2017). E' il fondatore di Scuola Filosofica in cui è editore, redatore e autore. Dalla data di fondazione del portale nel 2009, per SF ha scritto oltre 800 post. Egli è autore di numerosi saggi e articoli in riviste internazionali su tematiche legate all'intelligence, sicurezza e guerra. In lingua italiana ha pubblicato numerosi libri. Scacchista per passione. ---- ENGLISH PRESENTATION ------------------------------------------------- Giangiuseppe Pili - PhD philosophy and sciences of the mind (2017). He is an expert in intelligence and international security, war and philosophy. He is the founder of Scuola Filosofica (Philosophical School). He is a prolific author nationally and internationally. He is a passionate chess player and (back in the days!) amateurish movie maker.

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