Press "Enter" to skip to content

Categoria: Scienze Cognitive

Defining Intelligence as a Cognitive Capacity – A Reply to a Reader

https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Diagram_of_the_brain._Wellcome_L0008294.jpg

How do you define intelligence in the cognitive domain?

I never delved deeply into the intelligence-mind problem. Defining intelligence is a slipper problem and, in my opinion, not necessarily very interesting. Moreover, there is too much talk about it, which shows that we are possibly hitting a wall. When I first read Turing and approached the philosophy of mind, I never believed there was much promise in that space (definition of intelligence) for many reasons. One reason is the significant confusion about what we can confidently claim to know versus what remains unknown or not fully understood from the neurobiological perspective. When Turing tackled the topic, he simply demonstrated that intelligence essentially boils down to performance when it can be concretely defined. In other words, if x produces y, and if a human would produce y in a manner that we, as humans, would deem intelligent, then x is intelligent (thus, the trick lies in constructing a transitive argument for comparison, etc., which is fair enough for programmers or pure logicians attempting to create some form of computing machine). Turing was very candid in setting limits to the thought experiment. I believe that intelligence pertains to a certain type of performance that necessitates specific properties at the causal level.

[I] If S produces x through I, where I has causal capacity such that x is not produced by chance and x achieve a solution for a given problem, then S is intelligent.

Uscita volume “Il bambino di Platone. Psicologia e filosofia a confronto sull’origine e lo sviluppo della cognizione morale”

Se scrivere un libro è cosa che richiede impegno, a chi più a chi meno, farlo leggere è cosa ben più complessa.

Ma iniziamo da dove tutto è partito, col segnalare qui, ai cari lettori di Scuola Filosofica, l’uscita de “Il bambino di Platone”, la cui natura divulgativa si intuisce già dal titolo. Il libro è il quarto della collana di libri di Scuola Filosofica, edita da Le Due Torri, e tratta di come oggi il metodo scientifico utilizzato nello studio della cognizione morale del bambino piccolo possa aiutare ad affrontare domande su cui la filosofia da tempo si interroga. Fra tutte: siamo predisposti a sviluppare sin da piccolini un senso morale, attraverso una minima esposizione sociale e indipendentemente da educazione e cultura, oppure apprendiamo a distinguere il bene dal male solamente grazie all’insegnamento altrui?

Vi hanno contribuito, con interventi di spessore, professori con molti anni di studio sulle spalle (Dario Bacchini, Simona Caravita e Luca Surian) e giovani ricercatori con una solida competenza nel loro campo di specializzazione (Sonia Cosio, Grazia De Angelis e Carla Sabatti). Il libro è stato da me curato e fortemente voluto: che io sappia, non esiste nel panorama editoriale italiano un’introduzione agile ma rigorosa sul tema di come nell’uomo si sviluppano i concetti morali.

Mosso da spinte biologiche e vincolato da norme sociali stabilite culturalmente, l’essere umano rappresenta un oggetto di studio affascinante e complesso. Oggi, lo sforzo collaborativo di molti ricercatori impegnati nello studio della psicologia umana permette di affrontare con rigore scientifico un ambito di conoscenza, temi e questioni di profonda rilevanza filosofica, favorendo così un proficuo dialogo tra discipline. Siamo naturalmente predisposti a comprendere le nozioni di autorità, giustizia, equità, bene e male, nozioni su cui ruota l’organizzazione delle nostre società? Come possiamo spiegare il comportamento aggressivo e immorale? Quali sono le basi psicologiche della religione? Il libro offre un’introduzione che intende essere di facile fruizione e stimolare nel lettore la curiosità per i temi trattati e la volontà di approfondirli.

Ma perché, riprendendo il titolo, il bambino è di Platone? Il lettore è invitato a scoprirlo!

Obbedire per paura o per rispetto? Prove di una precoce comprensione dell’autorità nei bambini

Ognuno di noi conosce bene la differenza tra un potere esercitato con la prevaricazione, la violenza e l’intimidazione, e un potere al quale, invece, ci sentiamo in dovere di obbedire perché giusto e legittimamente acquisito. È la differenza tra un potere basato sulla paura e un potere basato sul rispetto.

Se questa distinzione ci risulta familiare, ben poco sappiamo su quando emerga durante lo sviluppo la capacità di comprendere la differenza qualitativa che passa tra le varie forme del potere. Nel senso comune, e per lungo tempo in psicologia, si è pensato che un ruolo importante nell’acquisizione di questa conoscenza lo giocasse l’educazione, e che il bambino dovesse aspettare molti anni prima di poter intuire che all’autorità, quando legittima, si deve obbedienza.

Con una serie di esperimenti, raccolti in uno studio recentemente pubblicato sui Proceedings of the National Academy of Sciences, insieme al Prof. Luca Surian dell’Università di Trento e alla Prof.ssa Renée Baillargeon dell’Università dell’Illinois, ho per la prima volta riscontrato la presenza, già nella prima infanzia, di una comprensione intuitiva della differenza tra una forma di potere basata sull’aggressività e una basata sul rispetto reciproco e sull’autorevolezza di chi è al comando.

Prove di una precoce sensibilità morale?

Siamo predisposti a sviluppare sin da piccolissimi un senso morale? Siamo, in altre parole, predisposti a sviluppare la capacità di distinguere, già nella prima infanzia, tra azioni moralmente corrette e scorrette e a dare la nostra preferenza a chi agisce in conformità ai principi della morale?

La ricerca in psicologia sta fornendo alcune prove della capacità di mostrare una preferenza per chi agisce nel rispetto della morale in bambini con meno di due anni di vita. Con un lavoro di meta-analisi, recentemente apparso sulla rivista scientifica Developmental Psychology, chi scrive, insieme a Luca Surian, ha raccolto le evidenze disponibili al fine di stabilire quanto forte sia l’effetto della preferenza per i ‘buoni’ mostrata dai bambini molto piccoli.

Invecchiamento e pensiero morale

Il nostro modo di giudicare la moralità di azioni e individui subisce delle trasformazioni quando invecchiamo? Se sì, quali, e perché le subisce? Ad affrontare queste domande è un’indagine sperimentale condotta da me, Janet Geipel (Università di Chicago), Constantinos Hadjichristidis e Luca Surian (Università di Trento), recentemente pubblicata sulla rivista Experimental Psychology.

Lo studio riporta che, rispetto agli adulti più giovani, gli anziani, nel giudicare la scorrettezza di alcune azioni connotate moralmente, danno maggiore peso alle conseguenze dannose dell’azione e minore peso alle intenzioni, buone o cattive, possedute da chi agisce. L’analisi morale dell’anziano è così focalizzata su quello che di fatto avviene, e non su quello che era nelle intenzioni di chi agiva.

Aspetti evolutivi del pensiero ecologico

Gentili lettori:

Desidero segnalare l’uscita del mio ultimo lavoro sul ragionamento morale ed ecologico dei bambini, scritto a quattro mani insieme al Prof. Luca Surian (Università di Trento). La pubblicazione è disponibile qui oppure sul sito della rivista. Di seguito, invece, riporto la copertura giornalistica offerta da Brainfactor. Buona lettura.

Riscaldamento globale, inquinamento acustico e atmosferico, scarsità d’acqua, perdita di biodiversità, sono solo alcuni tra i molti problemi ambientali che minacciano lo sviluppo ecosostenibile del nostro pianeta. Molti di questi problemi dipendono da decisioni e comportamenti umani. Forse, allora, nel tentativo di generare un’inversione di rotta, e, ad esempio, pianificare interventi educativi per le nuove generazioni o favorire un cambiamento culturale rispetto ai temi dell’ambiente, può essere utile capire come le persone ragionano e come il loro ragionamento si sviluppa nei primi anni di vita.

L’apprendimento probabilistico del giudizio morale

Come apprendiamo la capacità di ragionare sulle questioni morali? Come si sviluppa il nostro giudizio morale? Le macrocategorie all’interno delle quali si possono suddividere le risposte alla domanda sull’origine del giudizio morale sono principalmente due.

Da una parte, vi è la visione empirista, secondo la quale i meccanismi responsabili dell’apprendimento di un tratto psicologico o di una certa capacità sono generali per dominio. Con ‘generale per dominio’ si intende che i meccanismi attraverso i quali apprendiamo sono alla base dell’acquisizione di abilità, tratti o concetti molto diversi tra loro. Ad esempio, secondo una certa concezione dell’apprendimento, sarebbe sufficiente una storia di rinforzi positivi e negativi per apprendere abilità o facoltà molto diverse tra loro come il linguaggio, il senso morale, la cognizione numerica e così via (cfr. gli scritti di Skinner, padre del comportamentismo). L’esperienza che l’uomo fa del mondo sarebbe per tanto fonte di informazione sufficientemente ricca per i meccanismi di acquisizione generali per dominio.

Lo sviluppo dell’approvazione morale

Gentili lettori, desidero segnalare la recente uscita di un nostro lavoro sulla rivista Cognitive Development. La pubblicazione presenta i dati di una ricerca sullo sviluppo del giudizio di approvazione morale dai quattro agli otto anni, condotta presso il Dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive dell’Università di Trento. Qui segue la copertura giornalistica di Brainfactor.

Metodi di indagine dello sviluppo: il ragionamento morale – pt. 6 di 6

Foto di Tumisu da Pixabay

La natura parrocchiale del bimbo ma dell’uomo

Un ulteriore e qui conclusivo capitolo della psicologia morale è la naturale tendenza dell’uomo a dividere l’umanità in gruppi. Il che significa dividere il mondo sociale in ‘noi’, da una parte, e ‘loro’, dall’altra. Parenti, fratelli, amici, conoscenti, appartenenti al proprio gruppo, che sia razziale, linguistico, politico, confessionale o sociale, da una parte, estranei, stranieri, appartenenti ad un altro gruppo, o, sarebbe meglio dire, soprattutto non appartenenti al proprio gruppo, dall’altra. Il mondo sociale si tinge in breve e naturalmente dei colori delle parti. Non serve nemmeno ricorrere alla Storia dell’uomo per mostrare la verità di quest’affermazione, tanto la Storia è in sé stessa la storia delle divisioni dell’uomo, del suo coalizzarsi in gruppi che si oppongono a vicenda. Piuttosto, costante della Storia dell’uomo, dovremmo riconoscere un fatto fondamentale di natura psicologica, ovvero la naturale tendenza delle assemblee umane a costituirsi in gruppi spesso mutualmente esclusivi o, comunque, poi, contrapposti.