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Mese: Settembre 2012

Introduzione schematica all’Epistemologia analitica

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Ordell: Le hai sparato, ed è morta?

Luis: Be’, si, penso di si.

Ordell: Come pensi di si? Non è una risposta. Voglio sapere se è morta.

Luis: Io penso di si, io credo di si.

Ordell: Tu credi di si, quindi non sei sicuro!

Luis: E’ morta, è morta.

Jackie Brown

1. I tre generi di conoscenza e la definizione di conoscenza come credenza vera giustificata (Justified True Belief JTB).

L’analisi della conoscenza è una delle principali analisi della filosofia, in particolare della filosofia moderna. Pensatori quali Cartesio [1645], Spinoza [1675], Locke [1690], Leibniz [1714], Hume [1740] e Kant [1787] sono tutti impegnati nel fornire una teoria che dia un fondamento certo alle nostre conoscenze. Sebbene alcuni arrivino a formulare la questione in termini scettici (Hume [1740]), vale a dire che non per tutto si può avere conoscenza ma ci si deve accontentare di un raffinamento su basi statistiche (era il caso della connessione di causalità tra fatti contigui nello spazio-tempo che ricorrono spesso insieme per Hume [1740]) rimane il fatto che lo sforzo nella definizione dei fondamenti della conoscenza sia stato cospicuo. Rimane il fatto, però, che fino al XX secolo, non c’era una chiara separazione dei vari generi di conoscenza, trattazione che intende distinguere la conoscenza in tre grandi categorie: la conoscenza oggettivale (diretta), la conoscenza competenziale (know how) e la conoscenza proposizionale (per una trattazione più specifica di queste tre categorie rimandiamo a Vassallo [2002]). La conoscenza diretta riguarda ciò che intendiamo esprimere con le proposizioni del tipo “Luigi conosce Gianna”, vale a dire che il predicato “conoscere” è utilizzato per indicare l’acquisizione di un’informazione che non riguarda né un saper fare (know how) né una proposizione; così che esso definisce una relazione tra un soggetto (Luigi) e un oggetto (Gianna) e la natura di tale relazione ha a che fare con le idee di Luigi su Gianna. La conoscenza competenziale riguarda una particolare capacità a fare qualcosa così che “Luigi sa andare in bicicletta” indica quel che Luigi è in grado di svolgere con un oggetto che appartiene alla categoria “essere bicicletta”. Si può osservare la distinzione tra la conoscenza competenziale rispetto alla conoscenza diretta: la conoscenza competenziale attiene a una pratica, mentre la conoscenza diretta riguarda l’idea di un soggetto direttamente connessa con un oggetto. In fine, la conoscenza proposizionale riguarda i casi in cui un soggetto può dire di sapere una certa proposizione. La conoscenza proposizionale, dunque, riguarda la natura delle proposizioni credute da parte di un soggetto, così che non si dà conoscenza proposizionale se un soggetto non ha una credenza di qualcosa. Ad esempio, “Luigi sa che Milano è in Lombardia” ci dice che un individuo appartenente all’insieme degli esseri umani sta in nella relazione “conoscere” con la proposizione “Milano è in Lombardia”: (Conoscere(Luigi, Milano è in Lombardia). Stando a quanto appena detto, Luigi deve possedere la credenza che Milano è in Lombardia. Immaginiamo la negazione di ciò, per renderci conto dell’assurdità: se Luigi sa che “Milano è in Lombardia” non può non pensarlo, intendendo con “credere” e “pensare” due predicati che indicano la semplice presenza di una proposizione nella mente di una persona. In altre parole, si assume per convenzione che “credere una proposizione” significhi semplicemente “avere una proposizione nella testa” e non qualcosa di simile a quel che in genere si intende con “credere” nel linguaggio comune (cioè una proposizione possibile che esclude tutte le altre, come quando si dice “io credo che Dio esiste” si intende che tale credenza sconfigge tutte le altre, cioè che essa è più forte delle proposizioni contrarie possibili). Così, la conoscenza riguarda un soggetto che pensa ad una credenza e tale credenza deve essere sia vera che giustificata. Perché si dia conoscenza la credenza pensata dal soggetto deve essere vera: “Luigi sa che Milano è in Francia” è palesemente una frase falsa. In fine, la credenza deve pure essere giustificata. Infatti, la sola credenza vera non ha alcun fondamento tale per cui possiamo dire, a livello intuitivo, di possedere alcuna ragione per credere in quella particolare cosa. Ad esempio, quando ci chiedono se domani pioverà e noi rispondiamo di si, solo perché è la prima cosa che ci passa per la testa, anche ammesso che l’indomani piova, non costituisce conoscenza.

Madame Bovary – Gustave Flaubert

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Madame Bovary è un romanzo di Gustave Flaubert pubblicato nel 1856. Esso narra la storia di Emma in Bovary, figlia di un povero contadino, che si sposa con il giovane medico vedovo, Charles Bovary. Charles è quello che si può definire un uomo di ingegno mediocre e mediocri aspettative, ma non per questo prive di una loro dignità. Egli fa parte di quella turba di esseri umani priva di grande intelligenza, senza grandi aspettative ma solerte nel loro piccolo impiego ed estremamente costanti nel dispensare il loro affetto, istintivo ed irriflesso ma genuino. Egli, infatti, non è uno studente brillante, né una personalità di spicco, come si vede sin da subito. Successivamente, da ragazzo, studia alla facoltà di medicina, grazie al sostegno economico dei genitori. Dopo una breve battuta d’arresto, dovuta ad un momentaneo abbandono dell’attenzione agli studi, Charles diviene dottore in Medicina, utilizzando uno di quei sistemi che, a quanto pare, è sempre stato utilizzato e favorito: “Charles si rimise subito al lavoro e si preparò, senza perder tempo, all’esame, imparando a memoria tutte le risposte. Ottenne la promozione con una discreta media”.[1] Da principio, egli s’avvia al lavoro nel suo piccolo paese di campagna e si sposa con la signora Dubuc, la quale, da principio, sembra una buona signora, ma, ben presto, finisce per tiranneggiare il debole Charles e fargli fare ogni cosa a suo piacimento. Grazie a questi sistemi, diviene quasi antipatica allo stesso Charles, giacché, d’altronde, egli è totalmente incapace di provare forti e costanti emozioni negative, da uomo rinunciatario quale è. La situazione peggiora quando lei bisticcia con i suoceri. In fine, muore. In fondo, nessuno la rimpiangerà ma Charles rimane addolorato per la sua scomparsa fino a che non incomincia a frequentare più assiduamente la casa di un buon contadino al quale aveva curato brillantemente la gamba, il signor Rouault. Costui, infatti, lo convince a tornare più spesso:

Oltreuomo – Dopouomo

Il saggio che presento è un abbozzo delle mie idee sull’argomento di quale sarà il gradino evolutivo successivo all’uomo, che spero di sviluppare nel futuro, anche magari grazie ai commenti di casuali lettori – e parlo con Te, nello specifico!

Finalmente abbiamo un’immagine dell’Oltreuomo (o del Dopouomo, come ho deciso di chiamarlo, usando un termine maggiormente neutro, ovvero non indicante per forza di cose un superamento, ma solamente una gerarchia temporale tra l’uomo e quello che verrà appunto ‘dopo’), che non è la narcisistica proiezione dei nostri Difetti in una Bestiaccia Celeste già pronta a cadere ai piedi della nostra meschinità, ma ch’è proprio derivata da una certa analisi (ipotetica) dell’evoluzione della vita, per quanto possibile elaborata a prescindere dal nostro capriccio e dalle nostre preferenze valoriali o poetiche o religiose o, in generale, personali.

Pierre e Jean – Guy De Maupassant

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Consigliamo – Una vita di Maupassant


Pierre e Jean è il quarto romanzo di Maupassant ed è edito nel 1888. Esso tratta di una storia di una famiglia piccolo borghese di Le Havre, costituita da quattro persone: il padre, la madre e due figli. Il padre, il signor Roland, è un uomo che possedeva una gioielleria a Parigi, abbandonata per godersi la vecchiaia. Ama le gite in barca a vela, pescare e tutto quello che ricorda una vita di mare, inautentica ma comoda, nella quale si cimenta, non senza l’ausilio di un marinaio appositamente pagato. Egli si presenta come un uomo semplice, piano, un po’ rozzo, incline alla bestemmia facile in casa e ottime maniere fuori di casa, a suo modo un bonaccione senza pretesa alcuna ma risulta incapace di comprendere i più semplici sentimenti dell’animo umano, avendone, egli, così pochi. La signora Roland viene definita come “[…] una donna d’ordine, economa, borghese, un po’ sentimentale, dotata di una tenera anima di cassiera…”. Pierre, il più grande dei due fratelli, è una persona di un’intelligenza acuta, incapace, però, di tradurre il suo intelletto in azioni fruttuose, quanto meno dal punto di vista prettamente egoistico. A trent’anni, può vantare solo un grande numero di fallimenti e una laurea in medicina, giunta non senza un certo dispendio di tempo. Non ha amore, non ha amici, eccezion fatta per il vecchio farmacista, e non ha lavoro ma, tutto considerato, tutto ciò non sembra turbarlo più di tanto, vivendo in quell’atmosfera ovattata e facile che è vivere in famiglia che gli consente una vita priva di grandi iniziative e qualche sacrificio che, però, è più che tollerabile. Jean ha un carattere leggermente più docile del fratello, del quale non possiede l’intraprendenza ma, proprio per questo, vive una vita molto più lineare, senza grandi apici o discese. Il che lo conduce a possedere una laurea in giurisprudenza a venticinque anni e una testa libera da intrusioni pericolose di idee devianti dalla considerazione dell’utilità, considerazioni di un utile che, d’altronde, non diventa mai idea fissa ma solo la condizione necessaria e sufficiente per una vita già decisa a priori: lavoro, famiglia e qualche svago moderato di quando in quando. Per questo Jean, senza troppo sforzarsi, giunge ad innamorarsi della signora Rosémilly: “La giovane vedova era una donna consapevole, che conosceva l’esistenza d’istinto come un animale libero, quasi, a soli ventitré anni, avesse visto subito, compreso e soppesato tutti gli avvenimenti possibili che giudicava in modo sano, realistico e benevolo”.[1] La famiglia Roland vive momenti di alti e bassi senza vertici importanti, come tutte le famiglie piccolo borghesi, nelle quali basta poco per renderle molto infelici e per le quali ci vuole molto per renderle felici. Ma arriva un importante cambiamento. Un vecchi amico di famiglia, il signor Maréchal muore e lascia in eredità una piccola fortuna a Jean. Questo fatto sconvolge la vita della famiglia: Jean ne risulta felice all’inverosimile per le possibilità che gli si aprono di fronte.

Gli indifferenti – Un romanzo di Alberto Moravia

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Gli indifferenti è un romanzo che si svolge in una città senza nome, una città qualunque di un paese industrializzato. La vicenda è incentrata su una famiglia, gli Ardengo, i quali sono sull’orlo della miseria e hanno già ipotecato la loro abitazione. Pur essendo vicini al tracollo finanziario, pensano poco ai problemi economici relativi alla loro situazione, a parte Michele Ardengo. La madre dei ragazzi, Michele e Carla, intrattiene una relazione amorosa, ormai al termine, con un individuo abbietto, Leo Merumeci, il quale è a conoscenza dei problemi economici della famiglia Ardengo ma  non per questo, convinto di avere un buon senso per gli affari, vuole rinunciare ad una sua personale speculazione nell’acquisto della grande casa della famiglia. Ogni membro della famiglia ha una sua storia sentimentale relazionata a quella di tutti gli altri e variamente frustrante: la madre, Mariagrazia, ama Leo senza più essere ricambiata né nei sentimenti né nell’attrazione fisica; la figlia, Carla, vuole “cambiare vita” ma non ha bene idea di cosa ciò significhi, di cosa lei desideri per sé stessa e finisce per cedere alle lusinghe di Leo Merumeci; Michele, il figlio, vorrebbe ardentemente desiderare qualcosa, lottare per una buona causa, provare dei sentimenti profondi “come quelli di una volta”, ma non ci riesce, desidera ardentemente l’amore di una donna ma costei non si è ancora presentata alla porta del suo cuore e, così, egli rimane solo con il suo senso di futilità per ogni tentativo.

Cose che capitano durante i test di medicina

Per sdrammattizzare su una delle più grandi piaghe che i giovani devono affrontare ogni anno…

– Alla domanda “Di che colore era il cavallo bianco di Napoleone?” ognuno scrisse un colore diverso.

– Tutti tirarono un sospiro di sollievo quando scoprirono che non dovevano combattere la seconda guerra mondiale.

– Alla domanda “Quando morì Giulio Cesare?” non furono in pochi che si misero a piangere.

L’Impresa Umana

L’Impresa Umana è lo scopo dell’Umanità presa nel suo complesso, indipendentemente dalle singole circostanze in cui ciascuno è inserito. Essa si configura come lo scopo astratto di una vita umana qualunque, indipendentemente dal suo tempo e dal suo spazio. Le circostanze forniscono la cornice in cui si inserisce il soggetto etico che agisce e si sostanzia ma non offrono la possibilità di un’autodeterminazione in base ad uno scopo fisso. Se l’Uomo rimane vincolato alle specifiche contingenze della vita, non sarà in grado di riconoscere il suo senso all’interno della comunità globale nella quale è inserito. L’Umanità, dunque, va intesa come la somma dei singoli individui che partecipano alla costituzione della Storia, intesa proprio come insieme finito delle singole azioni individuali. Ma l’Essere Umano è tale proprio in quanto parte di questa somma di persone alle quali egli appartiene e dalla quale non può fuggire né pensare di poterlo fare: se un uomo viene ad esistere, allora egli fa parte della comunità degli uomini. In questo senso, ogni persona di ogni tempo ha la sua responsabilità di fronte alla globalità alla quale appartiene, per il solo fatto di esistere, globalità che si costituisce realmente nella Storia e si evolve nel tempo.

E’ un bene mettere al mondo un figlio?

https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Bonobo_sexual_behavior_1.jpg

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Ogni uomo e ogni donna, raggiunta una certa maturità biologica, sentono il bisogno di avere un figlio e non semplicemente di compiere atti sessuali. Esiste una differenza importante tra l’esigenza di compiere un atto sessuale e quella di avere una prole. Nel primo caso, si tratta di voler sfogare un bisogno impellente e di abbassare il proprio senso di solitudine sessuale il che può essere operato in molti modi e non necessariamente attraverso un atto sessuale che comporta, anche solo in linea di principio, la genesi della prole. Questo fatto può essere rimarcato dall’evidenza singolare e dalle statistiche sulle pratiche sessuali: molte persone preferiscono atti sessuali non vaginali per la soddisfazione del proprio bisogno, così che se tale bisogno è estinto con pratiche che rendono impossibile la procreazione e vengono preferite a quelle che, invece, possono causare la nascita di un nuovo individuo, allora può sussistere (e sussiste) la necessità esclusiva di esaurire il proprio bisogno sessuale indipendentemente dal bisogno di avere della prole. Viceversa, sussistono casi in cui si compiono atti sessuali con la finalità di avere dei figli. Tale necessità è, in genere, avvertita in modo cosciente e le persone se ne accorgono in base al fatto che la loro soddisfazione o felicità risulta indipendente dal loro benessere sessuale: si può essere sessualmente soddisfatti pur avendo il bisogno di avere un figlio. Ammesso che non sia un’esperienza umana sostanzialmente universale, riportiamo alcune evidenze che suggeriscono questa conclusione: (1) ci sono persone che sono disposte a praticare delle azioni figlie della superstizione pur di raggiungere l’agognato obiettivo; (2) ci sono persone che adottano dei bambini per averne uno; (3) ci sono persone che sono disposte a perseguire il proprio obiettivo con ogni mezzo consentito dalla scienza. Per tanto, è lecito distinguere il bisogno puramente sessuale da quello di procreare. Ne concludiamo che si parla molto spesso a sproposito di “bisogno di procreare” quando si parla di “istinto sessuale”. Da ora in poi assumiamo che le due proprietà siano distinte e, almeno parzialmente, indipendenti.