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3.1 I classici della letteratura gotica

Per parlare dei successivi romanzi che hanno segnato questo genere dobbiamo arrivare all’ultimo decennio del Settecento. In questo periodo, le classi medie si erano sempre di più avvicinati alla lettura e, in grado sempre maggiore, al gotico. Quest’ultimo, infatti, aveva saputo esprimere interesse verso i problemi politici e sociali, che rientravano pienamente nelle convenzioni stilistiche del gotico, con un desiderio, spesso neppure velato, di superare tali problemi.

Fra le opere gotiche di questi anni, se ne distinsero tre, che presenterò analizzandole insieme, visto che tutte e tre si influenzarono l’una con l’altra: I misteri del castello di Udolfo (1794), L’italiano o il confessionale dei Penitenti Neri (1797) e Il monaco (1796). I primi due sono dell’autrice Ann Radcliffe, l’ultimo dell’autore Matthew Lewis.

I due autori si influenzarono a vicenda e per questo motivo sono stati presentati insieme. Lewis fu, infatti, influenzato moltissimo da I misteri del castello di Udolfo, per poter scrivere Il monaco, mentre L’italiano è la risposta al libro di Lewis.

Entrambi gli autori ebbero stili diversi ma, messe da parte le differenze stilistiche, hanno in comune la stessa problematica. Ann Radcliffe era, ai tempi della pubblicazione dei due romanzi, una scrittrice molto giovane e ispirata da altri generi letterari, come la poesia, ai quali seppe dedicare numerose citazioni. Moglie di un avvocato, appassionato di letteratura, si dedicò principalmente al genere romantico. Per questa ragione, lesse molte delle opere dei romanzieri di fine Settecento rappresentanti del romanzo sentimentale.

Nei suoi scritti si ricerca, inoltre, una visione della vita che sia poetica e, anche per questo,  nelle sue descrizioni di situazioni e stati d’animo come la sublimità, la malinconia, la tragicità non si risparmia nel citare più e più volte Shakespeare. Ma tali aspetti che da poco erano entrati all’interno della prosa narrativa crearono notevoli problemi all’autrice, nonostante possa essere considerata come la prima poetessa nella narrativa romantica[1].

Matthew Lewis, invece, fu principalmente un traduttore di numerosi testi teatrali dal tedesco, scrisse egli stesso molte opere teatrali, molte delle quali dal dubbio valore artistico. Non di origini nobili, Lewis proveniva da una famiglia che si era arricchita grazie ai possedimenti coloniali, ed era stato indirizzato dai genitori al lavoro di diplomatico e politico, che presto abbandonerà a causa del suo interesse per la letteratura.

A parte i suoi alti e bassi in ambito teatrale, il romanzo Il monaco gli conferì un notevole successo e una certa stima anche fra gli intellettuali e scrittori a lui contemporanei.

Osserviamo adesso da vicino i romanzi.

I misteri del castello di Udolfo racconta la storia di Emilia, la quale, dopo aver vissuto i primi anni della propria vita, in pace, in un castello di Guascogna, perde la madre per malattia e sin seguito anche il padre. Nel testamento, il padre lascia scritto di affidare la figlia alle cure della sorella, la signora Cheron, una donna dispotica che odia profondamente la nipote[2]. Emilia si innamorerà di un giovane di nome Valancourt, ma presto dovranno separarsi, poiché la signora Cheron decide di sposarsi con un signore italiano di nome Montoni. Emilia sarà quindi costretta a trasferirsi, prima a Venezia[3] e poi al castello di Montoni: Udolfo, sito negli Appennini, nel quale viene imprigionata nella parte centrale e più memorabile del libro[4]. La giovane dovrà, inoltre, accettare di essere corteggiata dal conte Morano. Ad Udolfo, Emilia viene perseguitata da numerosi fantasmi, i quali però vengono smascherati, così come quelli presente al castello di Le Blanc, dove la giovane si reca quando la zia viene uccisa e il Montoni vuole impossessarsi degli averi della defunta moglie[5].

La storia è un turbinio di drammi che si susseguono, ma ha un lieto fine, visto che la giovane riesce a tornare fra le braccia di Valancourt e a sposarsi[6]. La Radcliffe pone l’eroina del romanzo di fronte a numerosi pericoli e, con grande abilità nella scrittura, essi vengono descritti come minacce che stanno per realizzarsi, ma che restano incompiute: Emilia rischia di subire delle violenze, di sposarsi e di perdere gli ultimi suoi averi[7].

La protagonista viene rappresentata in modo molto dettagliato, così come il conte Montoni, che può essere considerato il cattivo della storia.

La forza della storia sta, tuttavia, nella capacità di mostrarci tutti gli aspetti psicologici che il romanzo sa trasmettere, come le numerose occasioni nelle quali l’eroina evita di situazioni particolarmente crudeli, oppure gli effetti della morte di madame Cheron. Sotto molti punti, insomma, la Radcliffe introduce elementi che fanno riflettere il lettore, senza eliminare il terrore dato dagli eventi soprannaturali, nonostante questi si rivelino, alla fine della storia, delle macchinazioni puramente inventate. Anche se si tratta di macchinazioni, proprio alla luce delle descrizioni psicologiche, il soprannaturale stesso non può che essere letto come l’eroina se lo rappresenta (riacquistando il suo valore, che, altrimenti, in quanto costruito con pure finzioni, in molti potrebbero ritenere una modo alquanto scadente per intimorire e terrorizzare il lettore)[8].

Il monaco, rispetto a Il mistero del castello di Udolfo, ha un ritmo nella narrazione molto più rapido. Il romanzo racconta due storie che, per gran parte, possono essere considerate separate. La prima, è incentrata sulla figura del monaco Ambrosio, monaco stimato in tutta Madrid per i suoi sermoni, il quale scopre di avere fra i novizi una donna di nome Matilda (“padre! … Sono una donna”[9]). Questa inizierà a corteggiare il monaco, che non saprà dirle di no.

Non soddisfatto, Ambrosio si invaghisce di Antonia[10] e con l’aiuto di Matilda e dei suoi poteri soprannaturali pianificano alle sue spalle un modo per avvicinare la giovane ingenua al monaco.

La madre si accorge degli intenti del monaco, tanto che Ambrosio arriva ad ucciderla per paura che le sue segrete intenzioni vengano svelate. La vicenda si chiude con il monaco che porta Antonia, creduta morta, in una cripta, dove, grazie ai poteri demoniaci riesce a svegliarla. Nella cripta la giovane verrà violentata dal monaco[11].

Nel frattempo, viene raccontata la storia di Raymond e di Agnes. Questi sono due giovani innamorati, ma costretti a dividersi a causa della famiglia di lei, che la vuole destinare al convento. Agnes è, quindi, costretta dai suoi parenti, che la persuadono a prendere il velo, a recarsi a Madrid in un convento vicino a quello di Ambrosio. I piani di fuga fra Agnes e Raymond sono mandati in fumo.

A Madrid la Badessa decide di fare di Agnes un esempio e la sottopone alla prigionia, la ragazza viene però salvata da Raymond, durante una sommossa anticlericale, dove la Badessa stessa trova la sua morte[12]. Intanto, i soccorritori di Agnes trovano il monaco Ambrosio e la sua vittima, uccisa questa volta definitivamente, e lo costringono a confessare le sue malefatte davanti all’Inquisizione.

Matilda tenta Ambrosio, di nuovo, per vendere la sua anima a Satana in cambio della libertà. Tuttavia, Satana agisce affinché il monaco muoia, mentendogli sul loro patto[13].

In questo romanzo, Lewis pone numerose citazioni su elementi di molte leggende care ai romantici: come il Faust e il patto con il demonio.

Nonostante qui il soprannaturale sia presente in forme molto più nette rispetto a Il mistero del castello di Udolfo, la narrazione prosegue in modo limpido a chi si appresti a leggere l’opera, facendo apparire reali gli eventi magici, in modo quasi opprimente.

Gli elementi psicologici sono, però, nuovamente riproposti nella descrizione dei pensieri dei due personaggi principali Agnes e Antonia, che vivono in modo sofferto tutte le situazioni, fornendo quindi un retroscena all’ambientazione spesso antica e arcana, descritta da Lewis.[14]

Inoltre, la meticolosità di Lewis nel fornire una storia complessa è pari a quella della Radcliffe. All’interno de Il monaco vi sono, infatti, numerose storie raccolte l’una nell’altra, che ne impreziosiscono il racconto e possono così mostrare le capacità stesse dell’autore di presentare contemporaneamente più storie, citate dai vari personaggi.

Ma di ancor maggiore importanza è il processo instituito da Lewis, secondo il quale, il gotico subisce una trasformazione. La trasformazione consiste in una serie di narrazioni, che si convalidano a vicenda, per cui elementi irreali vengono trasformati in qualcosa di vivo e reale. Lewis annuncia, quindi, attraverso i numerosi rimandi fra le storie, l’irrealtà come una realtà, che è presente nel mondo come qualcosa di vero e tangibile, in un modo che prima d’ora nessuno credeva fosse possibile.

La risposta a Il monaco, da parte della Radcliffe, è L’italiano o il confessionale dei Penitenti Neri, dove l’autrice migliora le proprie capacità di scrittura, così da intrecciare i vari avvicendamenti dei singoli personaggi, per cercare di dare un tocco di realismo in più rispetto a Il monaco.

Ancora un volta la storia vede al suo centro una coppia di innamorati: Elena e Vivaldi. La madre di Elena si oppone al loro amore e, per questo motivo, si fa consigliare dal suo confessore, il monaco Schedoni, il quale suggerisce di mandare la figlia nel convento di Santo Stefano. Qui Elena soffrirà moltissimo.

Il piano di Schedoni, in risposta a Vivaldi che si opporrà al triste destino della sua amata, cercando di sposarla di nascosto, sarà di consegnare nelle mani dell’Inquisizione lo stesso Vivaldi e di uccidere Elena. Tuttavia, Schedoni non metterà in atto il proprio piano quando scoprirà di essere, in realtà, il padre di Elena; egli cercherà allora di far giocare il fatto a proprio favore, per poter ricattare la madre della fanciulla.

Intanto, Vivaldi incontra nelle sale dell’Inquisizione uno strano ecclesiastico, Nicola di Zampari, il quale lo informa di tutte le malefatte passate di Schedoni e che questi non è padre di Elena, bensì lo zio, nonché assassino del proprio fratello e marito della madre di Elena.

Schedoni viene arrestato e per sfuggire alla propria pena decide di avvelenare sé stesso e Nicola, permettendo la riunificazione di Vivaldi e Elena[15].

Per la Radcliffe, L’italiano è un ulteriore prova nella quale può mettere in mostra le sue capacità di introdurre dialoghi dalla notevole profondità psicologica (come quelli fra i componenti dell’Inquisizione, o fra la madre di Elena e Schedoni), dove i personaggi mostrano anche atteggiamenti nettamente al limite del patologico.

L’ambientazione de L’italiano è quasi completamente italiana, le scene avvengono nei pressi di Napoli, riprendendo una tradizione inaugurata da Il castello di Otranto.

I dialoghi, poi, ci informano anche di altre storie, che la Radcliffe incorpora nella storia principale, ma che spesso sono messe fra le pagine per ingannarci. Molte di queste, infatti, si rivelano essere false oppure dalle grandissime possibilità, tanto da cambiare l’inerzia della storia, come quando Schedoni incontra un contadino, che sembra essere a conoscenza di fatti alquanto scabrosi sul suo passato[16]. Tuttavia, l’ecclesiastico è indeciso fra l’interrogare il contadino, riguardo le sue conoscenze, ed esporsi, oppure disinteressarsi delle sue storie, per evitare che quest’uomo si insospettisca.

Ecco, questo è un esempio dell’abilità dell’autrice nel presentare la psicologia dei personaggi, che hanno un vero e proprio mondo mentale al loro interno, fatto di incapacità decisionali, sentimenti veri, immaginazione, atteggiamenti patologici o fantasie, che contrastano con un mondo esterno, in grado di limitare fortemente le azioni.

Questo è, poi, ciò che accomuna Lewis alla Radcliffe, una continua volontà di caratterizzare i propri personaggi negli aspetti socio-psicologici, nonché di punire alcuni sentimenti che poco si addicono al mondo esterno. La sensibilità è una fra queste. Le persone sensibili vengono sempre descritte come alla ricerca di una giustizia nella vita reale, un modo per dare al mondo un ordine, che in realtà non è presente, a causa del caos che aleggia in ciascuna storia. I sensibili sono, allo stesso tempo, martoriati dagli stessi autori, proprio per il loro carattere che poco permette una loro sopravvivenza.

La sensibilità di Emilia de Il castello di Udolfo, inoltre, le garantisce di rifugiarsi nella propria fantasia, una fantasia distante dagli eventi che la coinvolgono. Da tale “mondo” lei riesce a vedere e a percepire gli eventi soprannaturali che riempiono le pagine del romanzo, come se fosse una realtà che ha una vita propria, tanto che gli altri personaggi della storia vedono questo fatto in modo negativo, quasi come se si potesse rimanere imprigionati nella realtà creata.

Proprio nella creazione di una fantasia personale, la sensibilità può degenerare nella pazzia, riprendendo un elemento già presente in The recess, in quanto proiezioni della propria paranoia e frustrazione, ed è proprio questo quello che sta per accadere ad Emilia de Il castello di Udolfo.

Chiaramente, coloro che sono inseguiti dai propri fantasmi, non possono fare altro che rifugiarsi in ambientazioni che non sono per nulla adatte ad aiutare persone in gravi difficoltà psichiche: castelli, fortezze, abazie e sotterranei[17].

Tutto questo mostra, quindi, un ulteriore nemico per i protagonisti delle storie, loro stessi, o meglio il loro carattere, che viene portato agli estremi nelle più disparate circostanze. Ne sono un esempio due istituzioni sociali molto presenti nei libri di Lewis e Radcliffe: la famiglia e la Chiesa. Entrambi non sembrano essere nei romanzi per una volontà di contrastarle da parte degli autori, piuttosto per cercare di creare un ambiente che permetta di portare ancora di più agli eccessi gli effetti dei sentimenti dei protagonisti. Chiesa e famiglia funzionano come mezzi per alienare ancora una volta i personaggi e per far mancare loro l’equilibrio, che tanto vanno cercando nel mondo esterno[18].

Certamente, i due autori si presentano come antirealisti, ciò però giova loro, sia per l’intenzione dei due autori di ambientare la storia nel passato, tale da non richiedere pignolerie nelle descrizioni di edifici o paesaggi, ma anche per un motivo che si riallaccia al nostro discorso. L’antirealismo ha permesso agli autori di concentrarsi più sulla psicologia, che su altre descrizioni accessorie, sostituendo a queste, in modo molto ampio, descrizioni delle istituzioni, le paure e angosce da esse generate, dei timori dati dalle azioni perpetrate dal cattivo e quant’altro[19].

Ma oltre alla caratterizzazione di aspetti psicologici, ciò che rientra in scena in queste opere è il longiniano elemento del sublime. La sublimazione viene riportata in auge, principalmente, negli scopi dei cattivi. Raggiungere la sublimazione può significare, come per il monaco Ambrosio, che si fa trasportare nel finale de Il monaco ai sublimi piaceri che aveva da tanto cercato. La Radcliffe, invece, identifica la sublimazione con il rapporto fra l’individuo e l’ambiente esterno, in questo caso basti pensare ad una scena de I misteri del castello di Udolfo, in cui Emilia e suo padre sono sulle montagne:[20] «La via di Beaujeu saliva rapidissimamente: ei si trovarono in mezzo a’ più eccelsi monti; la serenità e purezza dell’aere, in quell’alte regioni, entusiasmavano i tre viaggiatori; l’anima loro ne pareva alleggerita, ed il loro spirito diventato più penetrante. Ei non avevano parole ad esprimere emozioni tanto sublimi, quelle di Sant’Aubert ricevevano un espressione più solenne: le lagrime irrigavangli le guancie, e camminava in disparte»[21].

Insomma, questi sono i principali elementi che accomunano e, in alcuni casi dividono, le opere della Radcliffe, rispetto a quella di Lewis, anche se, in breve, deve essere ricordata, come ultima precisazione, che l’istituzione sociale della famiglia svolge un ruolo di catalizzatore più nelle opere della Radcliffe, in confronto a quella di Lewis. Gli aristocratici desiderano non mischiarsi con gli altri ranghi sociali e amano vivere in modo appartato e separato rispetto al resto della popolazione[22]. Lewis sfrutta, invece, punti di vista molto più individualistici, e le ossessioni affiorano non all’interno di un’istituzione, quanto negli incubi di cui soffre un cattivo come Spalatro, un personaggio minore. Incubi che gli causano dei fremiti prima di colpire le sue vittime. Degli stessi fremiti soffre anche Ambrosio, mentre la cella nella quale per poco non viene segregata Elena riproduce la cripta de Il monaco.

Ecco che risultano chiari i numerosi rimandi fra i romanzi e come essi subiscano influenze l’uno dall’altro.

Comunque, da qui in poi la letteratura gotica non sarà più una letteratura d’evasione, essa si trasformerà in qualcosa di più ricercato, soprattutto nel cambiamento proposto nelle opere precedenti. Wolpole, Reeve e Lee avevano mostrato come il limite fra fantasia e realtà fosse sottile e come, su suggerimento soprattutto della Lee, fosse possibile comporre il testo con la propria libera iniziativa, riunendo documenti e conversazioni insieme un po’ alla volta, spingendosi fino al punto che il lettore stesso debba diffidare dall’autore. Un suggerimento che la Radcliffe farà suo ne L’italiano. L’italiano mostra una visione distorta della realtà e, fra le opere presentate in questo paragrafo, può essere eletto a libro che presenti una maggiore abilità, vista anche la capacità di tenere insieme le varie sottotrame[23].

Affrontata questa triade di romanzi, che hanno posto le basi della letteratura gotica, presentando delle novità, di cui tutto ciò che verrà scritto successivamente ne dovrà tenere conto e facendo proprie le “lezioni” dei romanzi che li hanno preceduti, è giunto il momento di concentrarci su opere fortemente permeate da alcune simbologie: il vampiro, il vagabondo e il ricercatore di una conoscenza proibita. Questi simboli hanno reso celebre, nell’immaginario di tutti, il genere gotico.

I primi ad averli al centro delle loro storie sono il racconto Il vampiro (1818) di John Polidori e Frankenstein (1818) di Mary Shelley[24].

Il vampiro di Polidori non ha molto a che vedere con la pratica di succhiare il sangue dal collo delle giovani fanciulle, piuttosto ha a che fare con il sesso. Sembra che l’autore abbia raccolto conoscenze folkloristiche, provenienti dall’Europa orientale, di seconda mano, mentre la sua attenzione era principalmente rivolta alla società inglese dell’epoca. In questo periodo, la classe borghese era sempre più in ascesa e sembrava dimostrare maggiore sensibilità verso le classi inferiori, nonostante la sempre più crescente avidità di denaro[25].

Il protagonista del racconto, Lord Ruthven, è infatti un signore affascinante che causa scompiglio, utilizzando le proprie abilità nel saper affascinare, nel tessuto sociale. Nuovo nell’ambiente londinese, tutti vengono colpiti dal suo charme e dalla sua bellezza[26], tuttavia, coloro che vengono attratti dal suo fascino non fanno altro che portare agli estremi aspetti negativi del loro carattere.

Polidori insiste tanto sul fatto che, in realtà, le disgrazie non vengono tanto da Lord Ruthven, quanto da coloro che gli prestano attenzioni. Lord Ruthven rappresenta un simbolo di puro allontanamento da qualsiasi interesse verso gli altri, il suo disinteresse però crea un alone di mistero, che lo avvolge, conferendogli piena originalità fra i personaggi dei romanzi[27].

Ciò che viene reso esplicito è, tuttavia, che il personaggio rappresenta una vera e propria fantasia, una specie di pura idealizzazione. Questo sembra essere Lord Ruthven, una specie di sogno fra le altre persone,[28] così distante dagli altri e, allo stesso tempo, una calamita per le donne, che tentano di attirarlo a sé[29].

Il vampiro e il sogno sono collegati, entrambi promettono ed entrambi svaniscono alla luce del sole. Tutti cercano, però, in lui una liberazione sessuale, un appagamento, in extremis, sul punto di morte, e tutti vedono in lui un essere onnipotente, irresistibile e ipnotico, un essere mitizzato sul quale scaricare le proprie responsabilità. Ma il vampiro è solo un essere su cui scaricare le proprie colpe, nulla di più.

Il vampiro rappresenta la vecchia borghesia, ma allo stesso tempo ricerca ciò a cui più facilmente lo associamo con la nostra immaginazione: il sangue. Il sangue delle famiglie, il sangue è l’emblema dell’aristocrazia. Proprio come l’aristocrazia, ormai in declino all’inizio del XIX secolo, Lord Ruthven è morto, ma non riesce ad ammetterlo, un individuo mitizzato di una classe mitizzata.

Il vampiro, come già accennato, è una figura antiborghese nella cultura inglese, un cinico, un maestro nell’arte della seduzione, una persona senza codici morali. Nella versione di Bram Stoker, egli incarnerà il mito di una classe sociale ormai defunta; come vedremo, sarà sconfitto dalle nuove scoperte nel campo della scienza, del razionalismo e del conformismo etico. Sconfitto poiché si è trasformato in un “fossile” del passato e, in quanto tale, non riesce a stare al passo con i tempi[30].

Poiché ribelle proveniente dal passato il vampiro si avvicina anche alla figura del vagabondo. Il vagabondo è una figura proveniente dalla letteratura romantica, si tratta di un persona che sta ancora espiando la punizione per aver commesso un atto che non doveva compiere. Secondo varie sfumature date al vagabondo, in realtà, in molte storie, egli neppure si ricorda quale errore ha commesso e sta espiando la propria colpa da tantissimo tempo. Solitamente, ciò accade a causa di un Dio geloso, che punisce gli uomini per la loro aspirazione.

Tuttavia, egli diventa, avendo compiuto una malefatta, il simbolo dell’oppressione e la vittima di un’eterna persecuzione, nonostante si trovi fra due mondi: il reale e l’irreale. Irreale, in quanto, avendo toccato ciò che non poteva toccare è stato bandito, a sua volta, ad essere intoccabile: un fantasma fra i vivi. Avendo sfidato Dio ed essendo diventato un fantasma, il vagabondo incarna la paura, ma è anche fonte di grande terrore, poiché maledetto[31].

La figura del ricercatore della conoscenza proibita è centrale in Frankenstein, un’opera considerata una pietra miliare della letteratura gotica. Frankenstein nasce come storia dell’orrore, facendo propri gli insegnamenti di molti romanzieri tedeschi e di romanzi degli scrittori fin qui citati (principalmente i libri della Radcliffe e di Lewis), e portando in scena i miti di Prometeo e di Faust.

Ora, Prometeo, anch’egli ricercatore di una conoscenza proibita, fu punito con una perpetua tortura e non con un infinito vagabondaggio[32]. È necessario fare chiarezza.

Il rapporto fra Frankenstein, Prometeo e Faust è ambiguo. Innanzitutto, sembra essere Frankenstein, lo scienziato, il ricercatore della conoscenza proibita a sfidare Dio, tuttavia è il mostro che egli crea a subire le conseguenze del suo creatore.

La storia ha una trama molto lineare. Victor Frankenstein è un appassionato studioso che, dopo aver frequentato un’università tedesca, diventa il più eminente conoscitore della filosofia naturale. Acquisite conoscenze, fra l’altro, in campo medico, Victor si dedica, nottetempo, a disseppellire morti nei cimiteri e ad unire insieme le parti trovate per generare una creatura vivente. Quest’idea era presente da lungo nella mente di Victor, nata dopo il grave danno psicologico causato dalla morte della madre per scarlattina.

Dal suo esperimento prende vita una mostro deforme e sgraziato, dotato solamente di una forza fisica disumana. Il mostro fuggirà dalla casa di Frankenstein portandosi dietro il diario del proprio creatore.

Terminati gli studi, un giorno, il fratellino minore di Victor muore. Si pensa che la colpa sia della governante della famiglia, la quale, ingiustamente accusata, muore rinchiusa in una stanza della casa dei Frankenstein. Si scopre essere stato il mostro ad ucciderlo, avendo seguito attentamente le indicazioni sul diario. Sarà il mostro stesso ad informare il suo creatore di questo fatto, quando, successivamente, si incontreranno in Francia, dove la creatura di Frankenstein si era rifugiata, aiutando una famiglia di contadini. Qui, egli farà una richiesta insolita al proprio creatore: il mostro chiederà una donna come lui, con la promessa di ritirarsi in America del Sud, per sempre, lontano dalla sua famiglia e dalla sua vita. Il patto viene stipulato e accettato da entrambe le parti.

Ritiratosi in un’isola delle Orcadi, Victor inizia a lavorare alla donna ma, proprio quando deve darle la vita, decide di abbandonare l’esperimento. Scoperto dal mostro, Frankenstein fugge in Irlanda.

Dopo una serie di peripezie, Frankenstein si sposterà in Svizzera, dove sposerà Elizabeth. Il mostro creato da Frankenstein colpirà di nuovo, uccidendo Elizabeth la sera delle nozze e facendo prendere un colpo apoplettico, a causa della morte improvvisa dell’adorata nipote, al padre di Victor.

Frankenstein, addolorato dalle numerose perdite, decide di inseguire il mostro, andando dietro alle sue tracce per il mondo, dalla Svizzera al Mediterraneo, dalle steppe russe fino al Polo Nord. Qui termina il racconto[33].

Innanzitutto, è importante capire che il ruolo di Frankenstein all’inizio del libro è completamente identificabile con quello del ricercatore, a cui interessa svelare i misteri della natura, con cui si confronta, senza altre distrazioni : «Ho descritto me stesso come sempre pervaso dalla bruciante smania di penetrare i segreti della natura e, nonostante le intense fatiche e le meravigliose scoperte dei filosofi moderni, ritornavo dai miei studi sempre  scontento ed insoddisfatto. Si dice che Isaac Newton avesse confessato di sentirsi come un bambino intento a raccogliere conchiglie sulla riva del vasto ed inesplorato oceano della verità. I suoi successori in ogni branca della filosofia naturale da me conosciuti apparivano anche alle mie intuizioni di ragazzo come principianti impegnati nella stessa ricerca[34] ».

Fin dalle prime pagine, il protagonista viene presentato come intenzionato a rivolgere la propria ricerca fuori da qualunque dogma morale o inclinazione, oppure da qualsiasi semplice remora. Una posizione che la Shelley disapprova sottolineandolo in vari modi[35].

Ma oltre a questo, la sua ricerca che lo porta fra cimiteri e ossari, non fa altro che alimentare la sua tendenza a dissociarsi dagli altri esseri viventi («Era nella mia natura evitare le folle ed attaccarmi affettivamente solo a pochi»[36]), portandolo in un “mondo” tutto suo di sognante, concentrato solo sull’impresa da compiere. La nascita del mostro è, però, come si può vedere, fondata su concetti innaturali e, una nascita innaturale, non può che portare conseguenze innaturali: «Come posso narrare le mie emozioni di fronte a tale catastrofe, o descrivere quell’essere miserevole , che con infiniti tormenti e cure mi ero adoperato a creare? Le sue membra erano proporzionate e i suoi tratti li avevo selezionati aspirando alla bellezza. Bellezza?! Buon Dio! La sua pelle gialla a fatica riusciva a coprire l’intreccio di muscoli ed arterie al si sotto; i suoi capelli erano fitti e di un nero lucente, mente i suoi denti di un bianco perlaceo, ma queste virtù non facevano altro che offrire un contrasto più orrido con quegli occhi acquosi che parevano avere lo stesso colore delle orbite lattescenti in cui erano incastrati, con la sua pelle rinsecchita e le nere labbra tirate»[37].

Lo scienziato non accetta da subito la propria creazione e la respinge semplicemente per il suo aspetto esteriore. Non si sofferma, quindi, a riflettere sulla sua intelligenza o il suo carattere, non riconoscendogli la propria paternità soltanto per via della sua bruttezza.

La Shelley non è, però, intenzionata ad accusare irrevocabilmente lo scienziato, bensì suggerisce, fra le righe, di provare simpatia verso il povero Frankenstein, mentre allo stesso tempo non dipinge la creatura come un mostro.

La creatura di Frankenstein viene considerata dalla Shelley, seguendo le teorie di Rousseau come una tabula rasa: un essere né cattivo, né buono ma, come i bambini appena nati, privo di inclinazioni morali o pregiudizi[38].

Neppure le prime esperienze di rifiuto sconvolgono la coscienza del mostro, giacché egli, incontrando Frankenstein sulle Alpi, lo avverte: «“Mi aspettavo una simile accoglienza,” disse il demonio. “Tutti gli uomini odiano i disgraziati; quanto, dunque, devo essere odiato io che sono la più disgraziata fra le creature viventi! Perfino tu, mio creatore, detesti e disprezzi me, la tua creatura, a cui sei stretto da un legame che può esser sciolto solo con la distruzione di uno di noi” [39]».

Da una parte Mary Shelley non vuole biasimare il mostro, dall’altra neppure Frankenstein. Cerca sempre di far allontanare il lettore dalla prospettiva della creatura, in modo abbastanza irragionevole, per avere un effetto di disaffezione nei suoi confronti, tuttavia tale punto di vista è impensabile per chiunque legga il romanzo, visto che l’unico motivo per cui viene rifiutato è solo per il suo aspetto. Il velato disprezzo risulta molto meno fra le righe se riflettiamo sul fatto che anche l’autrice decide di non dare un nome al mostro.

Mary Shelley è anche abile nel creare un libro che si legga a vari livelli diversi, questa è una delle ragioni per cui la sua opera è diventata famosissima. Purtroppo, però, i vari livelli non coincidono fra di loro. Innanzitutto, sembra esservi una sorta di ottimismo di fondo. L’ottimismo è dato dalle possibilità che il mostro possa diventare una persona buona e giusta. Questa teoria, ripresa da William Godwin[40], ma sottoscritta dalla stessa Shelley, ipotizza che gli esseri umani possano, da una condizione priva di moralità, una tabula rasa, come ho detto prima, migliorare in stadi successivi di giustezza e bontà, solo se le condizioni lo permetto, ovvero se si verificano le giuste possibilità di migliorarsi. Ma alla creatura di Frankenstein non è concesso migliorarsi e viene abbandonata. La Shelley ci suggerisce che se il suo creatore si fosse dedicato ad altri interessi, come la politica o la psicologia, la creatura avrebbe potuto diventare buona[41].

L’altro livello di lettura è quello della paura del brutto, che conferisce, in maniera assoluta e irrevocabile, un ruolo di emarginato al mostro. Frankenstein può aver commesso un errore sociale, ma resta pur sempre un essere umano. Il mostro, invece, è una creatura diversa e per questo deve essere punita.

Oltre all’irragionevole colpa dell’estetica della creatura, vi è anche dell’altro. Quando viene ucciso il fratellino di Frankenstein, lo scienziato vede qualcosa muoversi fra gli alberi: «…intravidi nell’oscurità una sagoma che sgattaiolava via da dietro un folto d’alberi vicino a me; rimasi fermo a scrutare attentamente: non potevo essermi sbagliato. Il balenio di un lampo gettò luce su quella cosa, mostrandomi chiaramente la sua forma; la sua statura gigantesca, la deformità del suo aspetto, troppo orrendo per appartenere ad un essere umano, mi fece all’istante capire che  si trattava dell’abominevole, empio demonio al quale avevo dato vita. Che cosa faceva lì? Poteva essere lui (e rabbrividii al pensiero) l’assassino di mio fratello? Quell’idea si era appena affacciata nella mia mente che mi convinsi della sua verità: i denti presero a battermi e fui costretto a cercare sostegno appoggiandomi ad un albero. La figura si allontanò velocemente da me, andandosi a perdere nell’oscurità. Nessun essere umano avrebbe potuto spezzare la vita di quell’amabile bambino. Era stato lui ad ucciderlo! Non avevo dubbi. La semplice presenza di tale idea ne era una prova inconfutabile[42]».

Di nuovo, il mostro è colpevole e lo è in quanto non appartenente al genere umano. Non solo questo aspetto è messo in luce.

Nella descrizione della scena, Frankenstein dovrebbe sentirsi in colpa per la morte del fratello, poiché essendo egli il creatore di colui che ha portato alla morte il proprio caro, dovrebbe verificarsi un transfert di colpa. Tutto ciò non avviene, invece, essendo il mostro relegato allo status di esiliato e ricercando in lui qualcuno su cui addossare la colpa.

Mary Shelley sembra puntare molto su questo aspetto. Proprio perché lei prende a cuore maggiormente i propri propositi morali, rispetto a quanto avevano fatto Lewis e Radcliffe, l’estrema razionalizzazione porta ad un ritorno ai valori morali, sociali e politici, che possiamo leggere come motivo di fondo della stessa storia[43]. La mancata sensibilità del protagonista lo fa cadere in un vortice senza fine di dolori e la sofferenza è riservata ad un particolare rango sociale: di nuovo, il rango altolocato ritorna per essere colpito dal fato.

Le ragioni per cui il fato si erge così ingiustamente nel controllare le vite umane, in queste storie, può essere meglio compreso se si riflette sulla società che leggeva questi romanzi. Fra fine 700 e inizio 800, le persone avevano preso coscienza dell’impossibilità di spiegare tutto attraverso la ragione. Essi si erano resi conto dell’ingiustizia in parecchi ambiti, come nella della differenza fra i sessi, e avevano visto l’ascesa della borghesia, che si guardava indietro, chiedendosi i motivi di un così improvviso successo.

Ecco le motivazioni per cui i simboli presi in considerazione, il vagabondo, il vampiro e il ricercatore hanno tutti desideri che sono socialmente insaziabili, perché il loro appagamento scuoterebbe la società, mutando l’ordine precostituito e portandolo al caos assoluto. Tutte queste figure sono insoddisfatte dalle restrizioni imposte dalla società ordinata in cui si trovano a vivere: ecco perché è importante guardare al processo storico che le ha generate; senza questa riflessione non sarebbe comprensibile il motivo della loro nascita.

Prima di affrontare l’evoluzione della letteratura gotica nella modernità, vorrei soffermarmi su un altro romanzo, ossia l’opera di Charles Robert Maturin: Melmoth l’uomo errante (1820). Maturin era un pastore protestante di origine irlandese, appassionato di letteratura, scrisse alcuni libri di non sorprendente successo, fino ad approdare alla stesura di Melmoth[44].

Ancora una volta, in Melmoth si riaffaccia l’eredità della Radcliffe e di Lewis, presentandosi come un romanzo molto complesso, dai numerosi tratti psicologici e costituito da un insieme di storie, che si intrecciano fra di loro.

Il romanzo racconta di Melmoth, un giovane che eredita da un anziano zio un manoscritto e un dipinto, assieme a tutti i suoi averi. Nel testamento dello zio vi è, però, espressamente scritto di distruggere il dipinto e il manoscritto. Ma Melmoth non obbedisce alle ultime volontà dell’anziano signore e si mette a leggere ciò che è scritto in quest’ultimo.

Il manoscritto ripercorre la storia di un certo Stanton e del patto che egli stipula con un antico antenato di Melmoth, tale patto, stretto in un manicomio, sembra offrire al parente di Melmoth una vita felice, in cambio della sua anima.

In quel momento, la casa di Melmoth è circondata dal maltempo e dei marinai cercano riparo vicino alle coste, prossime alla residenza del giovane. Questi darà riparo ad un marinaio spagnolo di nome Moncada, il quale si mette a raccontare una serie di storie avvincenti, ambientate in tantissimi luoghi diversi dall’Europa all’India.

In tutte queste storie è, nuovamente, presente la figura simbolica del vagabondo che, in questo caso, sembra portare sciagure a tutti quelli che incontra, incarnando la figura di Satana.

Infine, il romanzo ripercorrerà numerose vicende del parente che ha stipulato il patto e della sua attesa, una volta raggiunto i suoi ultimi istanti, dei diavoli che verranno a prenderlo per portarlo nelle tenebre[45].

La paura e la disperazione riaffiorano nelle pagine del romanzo, per queste sensazioni Maturin prende i classici luoghi comuni, come la paura di essere preso per matto, e gli dà un ulteriore giro di vite, accendendo i toni con le sue descrizioni. Le descrizioni dei tormenti dei personaggi vengono sempre generalizzate, come se fossero appartenenti all’intero genere umano[46]. Ma oltre a questi elementi Melmoth aggiunge un’importante novità, ossia la volontà sempre presente dell’autore di andare contro a qualunque credo religioso che prometta di concedere la salvezza dell’anima.

La religione, e principalmente quella cattolica, contro cui si scaglia Maturin, è un male che lascia tutti i personaggi privi di ogni speranza. La sola realtà, che viene spesso presentata in modo satirico nelle pagine di Melmoth è l’inutilità della religione di fronte alle macchinazione diaboliche degli uomini e della vendetta divina, unica costante nell’universo in cui si muovono i personaggi di Melmoth[47].

Chiudiamo, concludendo questo paragrafo, che è iniziato all’insegna dei romanzi della Radcliffe e di Lewis. Questi hanno infatti dato maggiore risalto al genere gotico, portandolo a livelli molto più elevati, complicandone la trama dei romanzi, con intrecci fra storie e drammi psicologici ben più vivi e realistici.

I romanzi che ne sono seguiti devono molto a questo piccolo nucleo o “dialogo di opere” fra i due autori, per questa ragione possono essere considerati come “figli” di quelle letture. Adesso, prima di addentrarci nel gotico americano, dovremo fare un salto in avanti di alcuni anni, per vedere come si presenta la letteratura gotica nella modernità, rielaborando tutti gli elementi che abbiamo trovato finora.

[1] Cfr. David Punter, Storia della letteratura del terrore, pp. 57-59

 [2] Ann Radcliffe, Il mistero del castello di Udolfo, Progect Gutenberg Literary Archive Foundation (ebook in formato pdf), Vol.I, 2010, p. 39

[3] Ann Radcliffe, Il mistero del castello di Udolfo, Vol.II, p. 3

[4] Ann Radcliffe, Il mistero del castello di Udolfo, Vol.II, p. 22

[5] Ann Radcliffe, Il mistero del castello di Udolfo, Vol.III, pp. 29-30

[6] Ann Radcliffe, Il mistero del castello di Udolfo, Vol.III, pp. 63-71

[7] David Punter, Storia della letteratura del terrore, p. 62

[8] Cfr. David Punter, Storia della letteratura del terrore, p. 63

[9] Matthew Lewis, Il monaco, in I grandi romanzi gotici, a cura di Riccardo Reim, pp. 114

[10] Riccardo Reim, a cura di, I grandi romanzi gotici, pp. 206

[11] Riccardo Reim, a cura di, I grandi romanzi gotici, pp. 268-270

[12] Cfr. Riccardo Reim, a cura di, I grandi romanzi gotici, pp. 148-193

[13] Cfr. Riccardo Reim, a cura di, I grandi romanzi gotici, pp. 280-300

[14] Cfr. David Punter, Storia della letteratura del terrore, p. 64

[15] Cfr. David Punter, Storia della letteratura del terrore, pp. 65-66

[16] Ann Radcliffe, L’italiano o il confessionale dei Penitenti Neri, in I grandi romanzi gotici, a cura di Riccardo Reim, p. 494

[17] Cfr. David Punter, Storia della letteratura del terrore, pp. 69-72

[18] David Punter, Storia della letteratura del terrore, p. 76

[19] David Punter, Storia della letteratura del terrore, p. 77

[20] David Punter, Storia della letteratura del terrore, p. 79

[21] Ann Radcliffe, Il mistero del castello di Udolfo, Vol.I, p. 20

[22] David Punter, Storia della letteratura del terrore, pp. 80-84

[23] David Punter, Storia della letteratura del terrore, pp. 87-88

[24] Cfr. David Punter, Storia della letteratura del terrore, p. 89

[25] http://digilander.libero.it/MirkalArtieLettere/LordRUTHWEN.pdf, articolo a cura di Cristiano Felice, p. 2

[26] John Polidori, The Vampyre, A tale, Gutenberg Literary Archive Foundation (ebook in formato pdf), 2004, p. 5

[27] http://digilander.libero.it/MirkalArtieLettere/LordRUTHWEN.pdf, articolo a cura di Cristiano Felice, p. 3

[28] Cfr. John Polidori, The Vampyre, A tale, p. 5

[29] John Polidori, The Vampyre, A tale, Gutenberg Literary Archive Foundation (ebook in formato pdf), 2004, p. 5

[30] Cfr. David Punter, Storia della letteratura del terrore, p. 105-107

[31] Cfr. David Punter, Storia della letteratura del terrore, p. 104

[32] Cfr. David Punter, Storia della letteratura del terrore, p. 108

[33] http://it.wikipedia.org/wiki/Frankenstein

[34] Mary Shelley, Frankenstein, Feltrinelli Editore, Milano, 2011, p. 90

[35] David Punter, Storia della letteratura del terrore, p. 109-110

[36] Mary Shelley, Frankenstein, p. 87

[37] Mary Shelley, Frankenstein, p. 112

[38] David Punter, Storia della letteratura del terrore, pp. 111-112

[39] Mary Shelley, Frankenstein, p. 163

[40] William Godwin fu un pensatore di stampo anarchico. La sua influenza suscitò interesse fra scrittori più tardi: fra questi vi era anche la Shelley, Charles Robert Maturin e, con molta probabilità, almeno nello stile di scrittura, anche Arthur Conan Doyle. Si appassionò alla politica, tanto da dedicare ad essa numerose opere. Per lo stampo gotico, unito ai suoi interessi politici deve essere ricordato Caleb Williams (1799). Il romanzo presenta un mondo permeato dalle proprie leggi rigide e barbariche e racconta la storia di Caleb che lavora come segretario per il ricco Falkland. Quando scopre che quest’ultimo ha ucciso una persona, Falkland decide di tenere in pugno Caleb e di perseguitarlo, sapendo che è venuto a conoscenza del suo segreto. La storia prosegue con i tentativi di Caleb di sfuggire alle numerose macchinazioni del ricco uomo, ma di stampo cavalleresco e conservatore.

Falkland rispecchia l’idea, nella mente di Godwin, di potere assoluto, in grado di piegare chiunque non gli si assoggetti. Una forza in grado di perseguire il povero Caleb. Il mondo del protagonista vede molto da vicino i tratti appartenenti al gotico: mano a mano che la storia prosegue, Caleb si muove in un mondo generato in gran parte dalle proprie paure. Una paranoia che già avevamo trovato nelle opere della Radcliffe.

[41] Cfr. David Punter, Storia della letteratura del terrore, p. 112

[42] Mary Shelley, Frankenstein, p. 135

[43] David Punter, Storia della letteratura del terrore, pp. 112-113

[44] http://it.wikipedia.org/wiki/Charles_Robert_Maturin.

[45] Cfr. David Punter, Storia della letteratura del terrore, p. 126

[46] Cfr. David Punter, Storia della letteratura del terrore, p. 128

[47] David Punter, Storia della letteratura del terrore, p. 127


Umberto Rossolini

Nato a Poggibonsi nel 1986, consegue la laurea triennale e successivamente la laurea magistrale in Filosofia, presso l’Università degli Studi di Siena. Da sempre appassionato di fantascienza, in tutte le sue forme, dai libri alle rappresentazioni cinematografiche, e di fumetto. Proprio sulla nona arte ha dedicato e dedica gran parte del suo tempo libero, leggendo libri che ne approfondiscono la storia, fumetti di tutti i generi e di qualsiasi provenienza (i più conosciuti e ultimamente anche quelli underground) e seguendo soprattutto artisti indie sui vari social network. Insieme alla filosofia il fumetto è decisamente la sua passione più grande. Co-fondatore del sito comicsviews.it, che tratta articoli e recensioni di ambito fumettistico.

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