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Autore: Simone Di Massa

Nato nel 2002, laureato in Lettere Moderne all'Università degli Studi di Milano con una tesi di Filologia Romanza, mi occupo di filologia e linguistica delle letterature romanze medievali, nonché di letteratura latina, dedicandomi con acribia e passione a ciò che è propriamente un culto degli studi, e una ragione d'esistere.

Il coraggio di una donna romana: l’exemplum di Arria Maggiore nella letteratura greco-latina [Litterae ex Oblivio]

Pierre Lepautre, Jean-Baptiste Théodon, “Arria et Paetus”, 1968-95, Parigi, Louvre.
Copyright: Wikimedia Commons, https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Louvre_arria_et_paetus_mr2029.jpg

Introduzione:

Nell’ambito della letteratura pre-ottocentesca, come noto, è relativamente raro trovare i nomi di autrici giunte alla pubblicazione, soprattutto se il numero è comparato a quello degli autori. Non sarebbe chiaramente un confronto sensato, in quanto le condizioni socio-politiche e culturali hanno influito in maniera significativa su questo esito. A partire dal Medioevo, latino e romanzo, i nomi di autrici vedono un aumento: è da qui che si stagliano figure del calibro di Ildegarda di Bingen, Maria di Francia, santa Chiara d’Assisi (autrice di una corrispondenza con Agnese di Boemia), santa Caterina da Siena, Christine de Pizan, e ancora, seguaci del petrarchismo, Vittoria Colonna e Gaspara Stampa, e con loro la veneziana Veronica Franco.

Ben più rari sono invece i nomi di autrici se si guarda alla classicità greco-latina: dopo il magnifico magistero di Saffo, la letteratura a nome di donna è spesso limitata alla corrispondenza.[1] Caso peculiare è quello di Agrippina Minore (n. 15 – m. 59), moglie dell’imperatore Claudio e autrice di un’opera di taglio autobiografico, ad oggi perduta, come testimoniato da Tacito negli Annales, oltre che da Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia e da Cassio Dione.[2]            È ben noto invece che le donne fossero tra i soggetti prediletti della poetica d’amore in lingua latina, come dimostrano gli scritti indirizzati a donne amate firmati, tra i vari, da Catullo, Tibullo e Properzio. Ugualmente prolifica è la produzione che può dirsi in voce di donna, vale a dire la narrazione poetica, o più raramente prosastica, di una protagonista femminile ma a firma di autore maschile, e in ciò basti l’esempio assai eloquente delle Heroides di Ovidio.

A Roma antica, quantomeno sul piano idealistico, era tenuta in massima considerazione la virtus, ben nota tra i valori del mos maiorum: la letteratura ha ampiamente celebrato gli uomini virtuosi, gli eroi di guerra come i sapienti, e chiunque avesse virtuosamente contribuito allo splendore dell’Urbe. Ma la virtus non era certamente prerogativa dei soli uomini. Il presente contributo si premura di analizzare l’affascinante figura di Arria Maggiore, e il ruolo di exemplum di virtù a cui è stata elevata nella cultura romana. Si andranno dunque ad analizzare le apparizioni della figura nella storiografia, e più in generale nella letteratura greco-latina, per infine considerare cosa una tale vicenda, ad oggi, ha ancora da raccontare e insegnare.

L’oratore siriano Gerio: un profilo sulla base delle fonti (Sant’Agostino, Confessiones IV, xiv, 21) – [Litterae ex oblivio]

Botticelli, Sant’Agostino degli Uffizi. Painting, 15th century; copyright: https://timelessmoon.getarchive.net/amp/media/botticelli-santagostino-degli-uffizi-b582fc

Introduzione:

Le Confessioni di Agostino (Tagaste, 354 – Ippona, 430) si propongono, secondo le parole dell’autore stesso nelle sue Retractationes, di lodare Dio per tutte le azioni compiute, ambo quelle buone e quelle cattive, e di elevare a Dio la mente e il cuore dell’uomo («Confessionum mearum libri tredecim et de malis et de bonis meis deum laudant iustum et bonum, atque in eum excitant humanum intellectum et affectum»; Retr. II, 6). Antonio Cacciari, nella sua Introduzione (2007: VI), sulla medesima scorta, individua i due cardini principali dell’opera agostiniana: laudant e excitant, le Confessioni di Agostino sono una lode e un protrettico a Dio.

Nella complessa biografia del Santo, comprendente la stesura di oltre un centinaio di opere, omelie e lettere, è fondamentale individuare alcuni momenti, al fine del presente lavoro: completati gli studi a Cartagine nel 370, decisivo spartiacque nel pensiero di Agostino fu la lettura dell’Hortensius di Cicerone, un’esortazione alla filosofia conservato in maniera frammentaria, e per la cui conoscenza le informazioni contenute nelle Confessioni (III, iv, 7-8) sono state fondamentali. Nel 374 fu grammaticus a Tagaste, e nel 375 iniziò la sua carriera alla cattedra di retorica a Cartagine, ove rimase per otto anni. Nel 383, a seguito della delusione maturata progressivamente dalla carriera esercitata, si reca a Roma, prima di assurgere, nel 384, alla cattedra di retorica di Milano grazie al prefetto Simmaco. È sul periodo che conduce al 383, ossia al primo distacco dal nord-Africa, che si concentra il presente lavoro.

Elisa Pappalardo – Itaca [Recensione e intervista alla poetessa]

A cura di Elisa Pappalardo e Simone Di Massa

Introduzione:

Nel corso dei secoli, l’arte del poetare ha subito drastici ridimensionamenti, passando dall’essere prerogativa e appannaggio di pochi, spesso dotati di una profonda erudizione, all’essere accessibile pressoché universalmente. Un percorso, certo, di democraticizzazione dell’ars poetandi, e mi arrogo di ritenere che questo carattere di accessibilità ben meglio assolva alla missione salvifica della poesia: in un mondo dai connotati spesso tragicomici, la poesia è il mezzo con cui ognuno può nobilitare il proprio animo. Si ha forse ragione di ritenere che l’anelito poetico sia connaturato all’animo umano, e meglio di me ha saputo dirlo Roberto Benigni nel film La tigre e la neve (2005), con la celebre frase «Cos’è la poesia? Non chiedermelo più. Guardati dentro, la poesia sei tu». Un invito, quello di Benigni, ad abbracciare l’arma della poesia, dono concesso a chiunque lo voglia ricercare, e al contempo a rispettare questa sacra e potente attività («E vestitele bene le poesie! Cercate bene le parole!»).

[Recensione] Antonio Rinaldis – Nuove lezioni di filosofia. I temi fondamentali del pensiero umano (Diarkos, 2025)

Copyright: Diarkos Editore, https://diarkos.it/index.php?r=catalog%2Fview&id=321

Nel tentativo di proporre voci e parole nuove nell’ambito del dibattito filosofico, plurisecolarmente e polifonicamente articolato e sviluppato, è talvolta necessario sovvertire l’impostazione manualistica che passa in rassegna, spesso cronologica, i pensatori, esaminando i loro lasciti e le loro ideologie, e proporre invece una  disquisizione che parta dai grandi temi che interessano l’animo umano, volente o nolente, per poi addentrarsi nelle singolarità dei filosofi che ne hanno dibattuto.

Filigrane arnaldiane nei versi di Ezra Pound (Personae; Canzoniere; Canti Pisani)

Copyright: Wikimedia Commons (<https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Arnautdaniel0.jpg>)

Introduzione e status quaestionis:

Il tormentato rapporto di Ezra Pound (1885-1972) con Arnaut Daniel, e più in generale con la lirica trobadorica, passa attraverso una fascinazione nata dai suoi studi presso l’Hamilton College di New York, e in seguito durante il dottorato mai concluso presso la University of Pennsylvania, e si struttura in una serie di fasi susseguenti, prima fra tutte quella del riconoscimento del limite linguistico delle traduzioni in lingua inglese operate en fin de siécle sulla scorta dei mitologizzanti preziosismi vittoriani, e con un apprezzabile mea culpa, eslege se si pensa a Pound come a un eccentrico innovatore, ben meno se si riconosce il suo rispetto devozionale per la letteratura trobadorica, Pound riconosce di aver di ciò peccato nell’operare le traduzioni di Guido Cavalcanti. È inoltre doveroso premettere alcuni dettagli sul confronto che Pound ebbe con la lirica arnaldiana: innanzitutto, Oltreoceano la letteratura europea medievale non aveva ancora visto un’incontrastata accettazione critica, né tantomeno era reverenzialmente studiata e ammirata; seguitamente, Pound approderà alla lirica del trovatore perigordino attraverso una prima fascinazione per i trovatori Peire Cardenal, Raimon de Miraval e Guiraut de Bornelh, e anche tramite la mediazione dello scritto esoterico Les secretes des troubadours. De Parsifal à Don Quichotte (1906) dello «stravagante scrittore occultista»[1] Joséphine Péladan, che egli acquistò a Parigi durante un suo deluso soggiorno.

Un gioco editoriale di Jean-Paul Sartre: la finzione filologica de ‘La Nausea’

Jean-Paul Sartre
Copyright: Wikimedia Commons, https://picryl.com/media/jean-paul-sartre-fp-7caa91

Introduzione:

Nel 1938, alle soglie della Seconda Guerra Mondiale, Jean-Paul Sartre pubblicò per Gallimard l’opera La nausea, certamente non un romanzo stricto sensu, quanto più la pubblicazione delle pagine di un diario di Antoine Roquentin, studioso di storia nella fittizia città di Bouville, condannato a una solitaria esistenza in nome del vuoto che è l’esperienza di vita. Nell’opera si concentrano le inquietudini che l’autore avvertiva e proiettava su ogni aspetto, sino al più intimo e personale, della vita di ognuno, inquietudini che si riverseranno in egual modo, e con attenzioni ancor più penetranti, nei racconti che compongono Il muro (1939).

La mia formazione e i miei interessi di ricerca mi hanno portato certamente a godere del romanzo sartriano, ma ugualmente a notare il modus operandi dell’autore: Sartre si rende editore fittizio delle pagine diaristiche di Antoine Roquentin, attuando a tutti gli effetti un’operazione editoriale, e dunque simil-filologica. Il presente contributo parte dalla scelta di accettare il gioco proposto da Sartre: ci si propone dunque di analizzare le scelte compiute dal Sartre filologo-editore delle pagine di Roquentin, concentrandosi in particolare sulle note, per quanto relativamente esigue, che egli appone, e che testimoniano lo stato dell’immaginario manoscritto di partenza, proponendo fini e curiose congetture, ma ugualmente facendo emergere una perniciosa problematica di stampo paleografico.

Il gioco del ‘telefono senza fili’ come metafora della tradizione testuale

“Dettaglio pagina di un manoscritto”; Wikimedia, Creative Commons;
Copyright: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Dettaglio_pagina_di_un_manoscritto_2.jpeg

Introduzione:

La diffusione delle notizie di bocca in bocca è un complesso fenomeno sociale che da sempre caratterizza la socialità e la vita organizzata. È ben noto come un tale mezzo di diffusione, vale a dire privo di alcuna fissazione scritta della notizia, ne permetta una modificazione costante, sia che ciò avvenga scientemente e per volontà di modificare il fatto in questione, o inopinatamente, a seguito di una serie di avvenimenti e condizioni. Si può pensare al modo in cui si diffondono e mutano i pettegolezzi, con l’aggiunta di dettagli o la rimozione di altri, minando immancabilmente, e talvolta irreversibilmente, la notizia di partenza.

Des fames, des dez et de taverne (ms. Paris, BnF, fr. 25545, f. 4r) – Elementi per una nuova edizione critica

Des fames, des dez et de taverne (ms. Paris, BnF, fr. 25545, f. 4r)

Introduzione e status quaestionis:

Passando in rassegna i manoscritti di recueil della letteratura medievale oitanica si trovano, anche in codici di primario interesse critico, testi che non hanno goduto di attenzione filologica e linguistica, e lungo sarebbe discorrere se ciò sia a buon diritto o meno. Diversi sono i testi le cui edizioni critiche sono di vecchia data, ma ciò spesso perché insuperate, o completamente assenti.[1] Un caso interessante proviene dal ms. Paris, Bibliothèque Nationale de France, 25545 (siglato I),[2] codice membranaceo (217×145 mm.) della prima metà del XIV sec., vergato in gotica francese:[3] alla carta 4ra-rb si trova un testo in versi piuttosto peculiare. Il titolo, adottato anche dagli editori, è Des fames, des dez et de taverne (lett. “Sulle donne, sui dadi e sulla taverna”)[4] e conta 74 versi in quartine. I versi mischiano lingua antico-francese in apertura di verso e latino in chiusura di verso e in coda alle quartine. Questo carattere miscellaneo complica la definizione precisa della metrica del testo, che è di contro identificabile per i versi interamente latini.

G. Pili, R. Kolodii – Intelligence & Interviews. Il mondo dell’intelligence in Ventotto interviste (2024)

Copyright: Società Italiana di Storia Militare, 2024; Nadir Media Srl

L’approccio al mondo dell’intelligence, composto di pluralità tecniche e terminologiche, richiede una base di partenza per acquisire nozioni applicabili a un’indagine proficua tanto in sincronia quanto verso il futuro. In un mondo continuamente in evoluzione, teatro di avvenimenti dall’intrinseca complicazione, come i conflitti in atto, comprendere i fenomeni e padroneggiare conoscenze del mondo dell’intelligence, utili anche a ragionare su quanto attendersi dal futuro, diventa fondamentale. È indubbio che la miglior conoscenza sia da ricercare negli esperti del settore, coloro che quotidianamente si interfacciano con il carattere plurivoco degli eventi, operando in un settore in continuo mutamento e trasferendo nella praticità nozioni teoriche, tra cui la conoscenza delle strutture di interconnessione globale, il modus operandi degli attori e la natura di conflitti, passati e presenti. Ipso facto, i principali esponenti dell’attività d’intelligence diventano la fonte principale da interrogare per ottenere risposte complete.

L’epitome di Ianuario Nepoziano a Valerio Massimo: una riflessione socio-letteraria – [Litterae ex oblivio]

Valerius Maximus's Facta et dicta memorabilia: Opening Page of Book VIII of Valerius Maximus's Facta et dicta memorabilia
Valerius Maximus’s Facta et dicta memorabilia: Opening Page of Book VIII of Valerius Maximus’s Facta et dicta memorabilia. Copyright: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Flanders,_15th_century_-_Opening_Page_of_Book_VIII_of_Valerius_Maximus%27s_Facta_et_dicta_memorabilia_-_1952.274.1_-_Cleveland_Museum_of_Art.jpg#filelinks

 

Nota dell’autore: il presente contributo, sull’epitome latina di Ianuario Nepoziano, è il primo della rubrica Literrae ex oblivio (lett. “Letteratura dall’oblio”), finalizzata a rendere nota e merito di opere di letteratura latina di ogni tempo, dagli albori con Livio Andronico (III sec. a.C.) fino agli esemplari medio-latini, opere che la fortuna editoriale e l’impostazione scolastica hanno, tutt’altro che a buon diritto, dimenticato; opere affascinanti e meritevoli di studio critico filologico, linguistico e letterario.

Introduzione:

L’arte dell’epitomare, ossia del sunteggiare un’opera tendenzialmente di imponenti dimensioni, non è sicuramente prerogativa esclusiva del Tardo-Antico: la difficoltà nel gestire una mole tale di informazioni da risultare ingovernabile era un problema già sollevato, e in un certo senso affrontato con successo, già dal periodo dello splendore letterario augusteo (27 a.C. – 14 d.C.). Un suggerimento rilevante ci giunge, in questo senso, da Valerio Marziale (38/41 d.C. – 104 d.C.), che in uno dei suoi epigrammi (Apophoreta, 14, CXC)[1] rende noto di essere in possesso di un’epitome degli imponenti 142 libri dell’Ab Urbe condita di Tito Livio (59 a.C. – 17 d.C.) riassunti in un unico codice pergamenaceo (cfr. Conte 2019: 194). Le dimensioni dell’opera liviana,[2] e con esse la rilevanza storiografica della materia trattata, richiesero giocoforza una resa in epitome, difatti la tradizione manoscritta ha tramandato le Perìochae, ossia un «Livio ‘epitomizzato’ (probabilmente a scopo didattico)» (Ibidem).[3]