Quale musica dopo Beethoven? Partire dalla domanda posta da Schubert al suo amico Spaun nel 1812, è un buon modo per mettere in luce le difficoltà attraversate dai musicisti tedeschi nell’Ottocento, costantemente all’ombra dell’imponente figura artistica di Beethoven, amatissimo dalla più grande nobiltà teutonica del tempo. Come poter sviluppare la propria creatività in un periodo in cui Beethoven era venerato quasi come un profeta?
Schuman sceglie la strada della nostalgia, cosa che, di fatto, lo rende in qualche modo il perfetto rappresentante del Romanticismo impregnato dei toni e dei colori del fantastico. La sua fervente immaginazione trova inizialmente terreno fertile nella forma musicale aforistica: idee musicali immaginifiche e brevissime, che daranno vita a una “… integrazione tra immagini e musica, che non aveva avuto precedenti di tale precisione e suggestione nella musica occidentale e che ebbe conseguenze di grande portata nello sviluppo delle avanguardie ottocentesche …”[1]
Il palco è a noi trionfo, e l’ascendiam ridenti: ma il sangue dei valenti perduto non sarà. Verran seguaci a noi i martiri e gli eroi: e s’anche avverso ed empio il fato a lor sarà, lasciamo ancor l’esempio com’a morir si va[1]
Il Risorgimento in Italia è un’epoca febbrile, segnata da fermenti politici, moti insurrezionali e crisi di identità personali e sociali, ma è anche un periodo di ricerca di nuove forme di libertà, di ideali e del risveglio, soprattutto tra gli intellettuali e gli artisti, di una coscienza nazionale. Anche la musica, come arte capace di veicolare ed esprimere tutta la gamma delle emozioni dell’animo umano, può farsi specchio dell’inquietudine collettiva e partecipare del vivace fermento che caratterizza questo periodo. Ma se sarà Giuseppe Verdi a realizzare in Italia la “nuova funzione sociale dell’arte come proiezione di ideali morali, civili e patriottici”[2] (impossibile non andare con il pensiero a quel famoso “Viva Verdi” che è suggestivo acrostico di “Viva Vittorio Emanuele Re d’Italia”) è comunque in questa cornice inquieta e incerta che si inserisce anche la figura di Gaetano Donizetti (1797–1848), compositore bergamasco tra i più fecondi del melodramma romantico italiano, per il quale la musica non è più, come per la precedente generazione di musicisti, semplice ornamento dell’esistenza. La vita di Donizetti, infatti, attraversa i fremiti di un’Italia frammentata, politicamente ancora dominata da potenze straniere, culturalmente viva ma scissa, lacerata tra l’anelito al nuovo e l’attaccamento alla tradizione; e, in qualche modo, la riflette. La generazione di Donizetti attraversa, quindi, come ben scrive Rostagno (2011), un periodo di grande disorientamento “che corrisponde agli anni delle cospirazioni fallite, dei tentativi insurrezionali, delle aspirazioni represse”[3]. Donizetti, pur non essendo un militante politico, riesce comunque a dar voce, nelle sue opere, seppur spesso inconsapevolmente, a un immaginario in cui eroismo, sacrificio e alienazione si fondono in un linguaggio musicale capace di parlare all’animo di un pubblico che anche nel melodramma va cercando ormai qualcosa di più di un raffinato intrattenimento. È la musica, adesso, che deve disancorarsi dall’estetica kantiana legata al bello come contemplazione, per divenire un’arte educativa e progressiva.[4] Non più “artificio dilettoso” ma “conforto”, “raggio di fiducia e di poesia”[5] per le “anime giovani”.[6]
Dissertare sulla natura del tempo e del suo scorrere ha senso nella società in cui viviamo, votata all’accelerazione e alla velocità più sfrenata, in cui più mostri di essere rapido – anche se impreciso o approssimativo – e più appari competente e in controllo?
Eppure, una riflessione sul concetto di tempo si rivela utile oggigiorno proprio perché in grado di stimolare il pensiero su altre questioni salienti: la nostra capacità di vivere il momento presente, di godere dell’attimo fuggevole; l’effettiva abilità di lasciarsi andare al flow dell’esperienza; il nostro rapporto con il passato e con i nostri ricordi – che sono il fondamento della nostra identità -; il nostro continuo immaginare un futuro che è formato di aspettative e molto altro ancora. Non possiamo esimerci da un confronto con il concetto di tempo, poiché il tempo, “è il cuore della vita […] Non è sufficiente che [lo] comprendiamo in modo appropriato dobbiamo imparare a viverlo; ogni altra cosa ruota su di esso.”[2] Ma il tempo, questo apriori della sensibilità, per dirla con Kant, così ineffabile e inafferrabile, può essere “immaginato” e pensato secondo diversi poli e assumendo differenti prospettive: omogeneità/eterogeneità; atomismo/flusso; reversibilità/irreversibilità (Kern, 1995), tutti punti di vista capaci di mettere in luce qualcosa di diverso rispetto al fenomeno stesso. Forse dovremmo parlare di “tempi” piuttosto che di “tempo” al singolare.
Arnold Schönberg parla del lungo percorso musicale che lo ha portato a quella che lui chiama la “scoperta” della dodecafonia in una conferenza del 1941 da lui tenuta all’Università della California, poi rivista e pubblicata nel 1950 nella raccolta di saggi Style and Idea. La dodecafonia, spiega, non è un “sistema della scala cromatica”, ma un vero e proprio metodo. Sono stati necessari ben dodici anni di tentativi per riuscire nella titanica impresa di creare un nuovo modo di comporre, in grado di sostituire quelle “articolazioni strutturali” che prima venivano garantite dal sistema tonale. Schönberg chiama questo nuovo metodo da lui ideato metodo di composizione con dodici note poste in relazione soltanto l’una con l’altra. La caratteristica principale di questo nuovo – e complesso – modo di comporre musica è quella di utilizzare soltanto una serie di dodici note diverse per ogni composizione: nessuna nota può essere ripetuta nella serie e questa deve obbligatoriamente utilizzare tutte le dodici note della scala cromatica in un ordine diverso rispetto a quello in cui si presentano nella scala. Come spiega Eimert nel suo Manuale di tecnica dodecafonica, “la musica dodecafonica esiste soltanto come sistema di rapporti tra le dodici note […] la più piccola unità di questa musica è la configurazione delle dodici note…”[1]: se la più piccola unità del sistema tonale è la singola nota, nel metodo dodecafonico, invece, essa diventa la serie.
Nel 1911 Schönberg entra in contatto con il pittore espressionista Wassili Kandinsky che, dopo aver ascoltato alcune composizioni del musicista viennese a Monaco, era rimasto così entusiasticamente colpito dalla sua musica, innovativa e dissacrante, da inviargli una lettera di ammirazione, in cui sottolineava anche quante affinità ci fossero tra il suo modo di fare musica e lo stile pittorico di Kandinsky stesso. Nacque, dunque, tra i due innovativi artisti un’amicizia che ebbe lunga durata e che stimolò più di una proficua collaborazione, la più importante delle quali è forse quella legata al volume Der blaue reiter, curato da Kandinsky stesso e dal collega pittore F. Marc, vero e proprio manifesto teorico dell’espressionismo nelle arti figurative. A questo volume Schönberg contribuisce, sollecitato dai due curatori, con due autoritratti (in quegli anni Schönberg si diletta, infatti, anche di pittura, e dipinge quadri piuttosto originali), con il facsimile della sua composizione Hergewächse op. 20, ma soprattutto con un breve scritto di teoria musicale, che si rivela da subito molto importante: Il rapporto con iltesto.
Stravinskij è stato spesso accusato di eclettismo dalla critica musicale per la sua inclinazione a riutilizzare e a fare propri in maniera originale i materiali sonori più disparati. Quello che non tutti i suoi detrattori tengono presente è che Stravinskij si considerava un artigiano della musica più che un artista; si riteneva simile all’artigiano medievale «il quale opera, ordina, fabbrica con i materiali a sua disposizione, tutto preso dal fascino del materiale sonoro che può maneggiare a suo piacere, non strumentalmente ma come fine a se stesso.»[1] La musica per Stravinskij nasce come ordine dal caos quando il compositore riesce a organizzare gli elementi sonori in un insieme dotato di significato, infatti, le sonorità elementari e i materiali grezzi non sono ancora musica nel senso proprio del termine, anche quando risultano piacevoli all’orecchio (pensiamo, per esempio, al canto di un uccello o al mormorio dell’acqua che scorre).
Qualche mese fa, ho ascoltato per la prima volta il Quarto Concerto per pianoforte di Ludwig Van Beethoven, fatto raro poiché il 95% di tutta la mia conoscenza musicale deriva dalla registrazione. Di recente ho sentito il secondo di Shostakovich pianoforte concerto, che è uno dei migliori mai scritti, paragonabile a quelli di Beethoven. Quindi, è stata davvero una grande emozione. Ero così concentrato nell’ascoltare tutti i diversi dettagli e sfumature che ho tenuto gli occhi chiusi in un’analisi approfondita per tutta la durata del concerto. A mio avviso, il quarto concerto è uno dei brani musicali più stimolanti di sempre. È calmo e pieno di momenti di gioia ma sempre con una sorta di cadenza sospetta. Ho sempre associato il primo movimento alle sensazioni che ho trovato nelle indagini razionali o ad alcuni momenti dell’analisi di Sherlock Holmes. È dettagliato ed emozionante, come quando ti rendi conto che stai attraversando qualcosa di grandioso e stai aprendo la profondità del campo davanti a te. È uno stato mentale emotivo di calma. La calma della ragione che svela la verità e il profondo apprezzamento che ne deriva: questo è quello che ho sempre visto in esso. È così difficile spiegare a coloro che vivono di “emozioni” disgiunte dalla ragione che non ci ho quasi mai provato, essendo una sorta di platonico-agostiniano in questo senso: accetto l’idea che solo pochi possano relativamente comprendere ciò che sto dicendo. Sto parlando della profonda connessione tra ragione e apprezzamento, per quanto calma e profonda essa sia. Mi ricorda la concezione stoica ed epicurea dello stato d’animo ideale: contemplazione razionale della verità senza ulteriori emozioni.
La musica classica è un mare magnum in cui è facile perdersi. Inoltre, come spesso accade, essa è un’etichetta che contiene una sottocategorie di grandezza non trascurabile: la musica da camera, la musica lirica, la musica sinfonica etc.. All’interno della musica da camera esiste la musica per più strumenti (sonate per due strumenti, per lo più violino e pianoforte, trii, quartetti, quintetti, sestetti fino ad ottetti) e musica per strumenti singoli (pianoforte, violino, violoncello, organo…). Tra i vari strumenti solisti la musica per gli strumenti a tastiera è sterminata. Sin da quando esistono il clavicembalo e l’organo, i più grandi compositori hanno riservato ad essi grande attenzione, un’attenzione unica. Se l’organo è uno strumento che funziona ad aria, il clavicembalo è il principale e fondamentale strumento a corda pizzicata, la base di partenza per l’evoluzione moderna di tale tipologia di strumenti che arriverà al pianoforte.
Il pianoforte è stata prima di tutto un’impresa tecnico-tecnologica che ha visto l’intervento di grandi compositori, tra cui Johan Sebastian Bach (1685-1750) e Muzio Clementi (1752-1832) su tutti. Oltre all’impresa tecnica, il pianoforte è probabilmente lo strumento più rappresentativo dell’intera musica classica, anche per via del fatto che attraverso opportuni arrangiamenti, quasi tutta la musica può essere ridotta a pezzi per pianoforte (per questo si veda l’articolo: L’importanza delle variazioni nella musica classica). In questo senso, il pianoforte consente quella che in matematica è un’operazione nota nella teoria degli insiemi: parti della teoria possono rappresentare parti di se stessa. E infatti la musica classica è un modello infinitamente reinterpretabile. Questo significa che, in generale, la musica per pianoforte è tra le componenti dominanti, tra le linee fondamentali della storia musicale.
Nelle discussioni sulla musica classica e recente è sorto un luogo comune: l’idea che la musica classica sinfonica sia qualcosa di simile ad un trattato di logica matematica, cioè qualcosa di sostanzialmente immutabile, definitivo, scritto e pensato per essere immutabile e definitivo. Nonostante l’inevitabile continua possibilità di reinterpretare continuamente il significato della musica classica, motivo per il quale essa mantiene tutto il suo senso ancora oggi, rimane il fatto che la gran parte della musica classica, cioè quella che termina agli inizi del XX secolo, per trasformarsi in musica “colta”, viene per lo più intesa come qualcosa di monolitico e unilaterale. Vale a dire un testo rigido e privo di sfumature, intrinsecamente legato ad un’interpretazione che può variare, ma solo in minima parte. L’idea comune è, dunque, che la musica classica sia un monolito. La realtà è ovviamente molto diversa, va da sé, ma vale la pena mostrare quanto questo luogo comune sia falso. Cercheremo di mostrare l’infondatezza del luogo comune utilizzando una produzione pervasiva, sebbene minore, della musica classica: le variazioni su un tema.
E’ ben noto che Johan Sebastian Bach e Ludwig Van Beethoven fossero degli eccezionali improvvisatori. L’arte dell’improvvisare musica a comando, sulla base di una variazione su un tema, non è certo figlia del jazz, che l’ha istituzionalizzata a forma principale di composizione. La musica jazz semplicemente ha potuto conservarsi principalmente grazie alle incisioni su supporti materiali esterni ai fogli di carta con pentagrammi. Per tale ragione, essa ha potuto continuare ad evolversi molto più sulla base delle variazioni che sulla selezione dei temi. La musica classica, per come la conosciamo oggi, è sostanzialmente il risultato di ciò che siamo stati in grado di conservare nella cultura della musica scritta e trascritta, perché quello era sostanzialmente l’unico strumento a disposizione per poter conservare la musica. Questo non significa che Bach, Mozart o Beethoven fossero semplicemente dei filosofi trasposti in musica, capaci di dedicarsi esclusivamente alle composizioni scritte sulla carta perché quanto più vicino ai massimi sistemi, già propri della cultura classica tedesca. Quello che vorrei mostrarvi qui è una selezione di opere di grandi della musica, i quali hanno conservato una serie di variazioni su un tema. Le variazioni su un tema non sono certamente il frutto di un’improvvisazione. Al contrario, quello che proporrò sono per lo più tra le opere più ragionate che conosca in termini musicali, ma il concetto dell’arte dell’improvvisazione è quello che fonda le variazioni e le dà un senso. Sicché sarebbe ora di rivedere le opinioni comuni su quello che è “il monolito uniforme” della musica classica.
Le “variazioni sul tema di Handel” sono un insieme di 25 variazioni di Johannes Brahms (1833-1897) su un tema di George Friederic Handel. Handel (1685-1759) fu un compositore di quella che oggi chiamiamo “musica barocca” ed è considerato uno dei fondatori della musica moderna insieme a Antonio Vivaldi e Johan Sebastian Bach. Ognuno ha il suo personale maestro di riferimento, l’esempio umano a quale si spera sempre di tendere, pur nella piena consapevolezza di non poterlo mai raggiungere. Ludwig Van Beethoven (1770-1827) era un conoscitore approfondito del suo personale maestro, Handel, di cui pare avesse anche un busto posato sopra il pianoforte. Handel, infatti, come poi anche Beethoven, era particolarmente abile a sfruttare una sorta di accumulazione di intensità mediante momenti di adagio seguiti a grandi esplosioni musicali. Di questo si ritrova ampiamente traccia nelle “Variazioni sul tema di Handel”. Dunque, è lecito iniziare dall’ascolto della suite n. 1 in Si-bemolle maggiore, HWV 434. Senza anticipare molto al lettore, la Suite risulterà abbastanza distante da quella che sarà la fruizione dell’opera di Brahms, che è il nostro oggetto principale. Tuttavia, merita la pena perché tra la composizione di Brahms (1861) e quella di Handel passa più di un centinaio di anni di musica e tra i due compositori sono state intraprese delle profonde ricerche musicali, a partire dai grandi che hanno cambiato non soltanto la musica in senso lato (Haydn, Mozart e Beethoven) ma anche nel senso più stretto delle composizioni per tastiera (Scarlatti, Mozart, Clementi, Beethoven).