Profezia della conversione della Filosofia e della Scienza come San Tommaso
Fonte delle cinque immagini: Le prime due sono opera di Caravaggio, con “Incredulità di San Tommaso”, 1600-1601, di Wikipedia, di pubblico dominio.
L’Incredulità di San Tommaso è un dipinto a olio su tela di 107 × 146 cm realizzato tra il 1600 ed il 1601 dal pittore italiano Caravaggio. È conservato nella Bildergalerie di Potsdam della Germania. Ulteriori versioni eseguite dal maestro sono conservate in una collezione privata a Bologna e a Parigi.
A Milano, dal 27 Febbraio al 5 Aprile, presso la Galleria “Limbo” era visitabile la mostra denominata Falene, con le opere degli artisti Ludovica Anversa, Federico Arani e Leilei Wu. Esteticamente, si percepisce la dialettica d’una contaminazione che si purifica per rispecchiamento, sino alla riproduzione. La falena è un insetto che s’attiva di notte. A quella si potrà associare la simbologia d’un cattivo presagio. Fenomenologicamente, il limbo non rispecchia (dal passato) né riproduce (per il futuro). Simbolicamente, la falena illuminerà il viatico per chi si crogioli nell’ansia. Ma almeno dall’arte la sospensione potrà “purificarsi” tramite lo svolazzamento? A Milano, la mostra aveva avuto la curatela di Zoe De Luca Legge.
Nel 1938, alle soglie della Seconda Guerra Mondiale, Jean-Paul Sartre pubblicò per Gallimard l’opera La nausea, certamente non un romanzo stricto sensu, quanto più la pubblicazione delle pagine di un diario di Antoine Roquentin, studioso di storia nella fittizia città di Bouville, condannato a una solitaria esistenza in nome del vuoto che è l’esperienza di vita. Nell’opera si concentrano le inquietudini che l’autore avvertiva e proiettava su ogni aspetto, sino al più intimo e personale, della vita di ognuno, inquietudini che si riverseranno in egual modo, e con attenzioni ancor più penetranti, nei racconti che compongono Il muro (1939).
La mia formazione e i miei interessi di ricerca mi hanno portato certamente a godere del romanzo sartriano, ma ugualmente a notare il modus operandi dell’autore: Sartre si rende editore fittizio delle pagine diaristiche di Antoine Roquentin, attuando a tutti gli effetti un’operazione editoriale, e dunque simil-filologica. Il presente contributo parte dalla scelta di accettare il gioco proposto da Sartre: ci si propone dunque di analizzare le scelte compiute dal Sartre filologo-editore delle pagine di Roquentin, concentrandosi in particolare sulle note, per quanto relativamente esigue, che egli appone, e che testimoniano lo stato dell’immaginario manoscritto di partenza, proponendo fini e curiose congetture, ma ugualmente facendo emergere una perniciosa problematica di stampo paleografico.
Paolo Villaggio, attraverso la figura di Fantozzi, ha costruito uno dei più efficaci dispositivi filosofici della cultura italiana del secondo Novecento. Lontano dal filosofo accademico, Villaggio ha saputo parlare all’Italia e solo all’Italia, radicando la sua critica non nell’astrazione teorica, ma nell’esperienza vissuta, concreta, quotidiana. Fantozzi non è solo una caricatura comica: è un tipo umano, un “uomo senza qualità” capace di incarnare le contraddizioni e le miserie del piccolo borghese nella società industriale avanzata. Attraverso la satira e l’iperbole, Villaggio mette in scena la crisi dell’individuo, la mediocrità dei rapporti sociali, la vacuità delle istituzioni – azienda, famiglia, Stato, religione – svuotate di senso e trasformate in meccanismi di oppressione. La sua forza sta nel mostrare ciò che la filosofia spesso astrae: l’uomo umiliato, silenzioso, ridicolo, che tuttavia continua a vivere, ad amare, a esistere. Fantozzi è il simbolo dell’alienazione moderna, ma anche della resistenza minima e quotidiana. È un antieroe che non si ribella per sé, ma che trova il coraggio di farlo quando guarda negli occhi chi lo ama. Villaggio agisce sul linguaggio, sulle immagini e sulle situazioni per scardinare le narrazioni dominanti. Il lessico assurdo, le situazioni iperrealistiche, la comicità grottesca sono strumenti per restituire dignità al dolore comune. In questo, Fantozzi è filosofia incarnata: non sistema, ma esperienza. Una riflessione sull’uomo in quanto tale, più antropologica che politica, dove il riso è l’unica forma di catarsi possibile. A distanza di decenni, Fantozzi continua a parlare perché è ancora vero. Perché nella sua goffaggine, nella sua solitudine, nella sua tenacia, c’è l’eco di qualcosa che riguarda tutti noi. Villaggio ha mostrato che anche l’umiliazione, se raccontata con onestà, può diventare un gesto di pensiero.
Nota dell’Autore
Dopo una giornata di lavoro, quando il cielo si tinge di grigio o il tardo pomeriggio cala, spesso l’unica via di fuga è immergersi in una serie di intrattenimento. In queste serate, tra il torpore e la distrazione, ho iniziato a esplorare alcune produzioni che trattano di teorie su antichi cataclismi mai confermati scientificamente e di avvistamenti alieni. Mentre guardavo, nella mia mente si formavano pattern fantasiosi e speculazioni di ogni tipo, fino a quando non mi sono fermato a riflettere: la narrazione sugli alieni, sulle civiltà perdute e sui cataclismi che avrebbero cancellato interi continenti in tempi non troppo remoti, senza lasciare traccia, non è forse simile, per struttura e finalità teorica, a quelle narrazioni che spesso sentiamo da politici ed economisti sullo stato della nostra economia? Queste storie, benché sembrino distanti, hanno in comune una struttura narrativa che spesso va oltre la realtà tangibile. Comprendo e condivido le critiche che si possono sollevare contro questa analogia, ma mi domando: sono davvero così diverse queste due narrazioni? Vorrei approfondire questa riflessione partendo proprio da un episodio di una delle serie che ho guardato, per esplorare più a fondo questa intrigante somiglianza.
By Joseph Karl Stieler – Google Arts & Culture, rotated and cropped to remove the potentially copyrighted photo of the frame., Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=133271390
Ludwig van Beethoven (1770-1827) is an unreplaceable milestone in the history of Western civilization, whose dimension is so crystal clear that, no matter the weaving moment of political and moral fashion of the day, his music is executed everywhere in the world. The reason is simple. Those who had the fortune to encounter and understand his music will never stop to be baffled by it, by its unique capacity to embed human sentiments inside a strict iron rational logic.
Differently from Chopin, who is so emotional to be undigestible to some, differently from Bach, whose love for abstract structure makes him the embodiment of the XVII century mechanicism, Beethoven is the unique pinnacle of intellect, reason and sensibility, a rare Kantian union of different aspects of human cognition and experience. But what about the life behind the music? Is Beethoven a man unlike many others? The answer is ambivalent when reading a selection of biographical notes and other annotations left in his Conversation Books and here, I will only draw some remarks without entering in the specificities of Beethoven’s life, which is assumed sufficiently known to the reader.
What I want to report here are the common threads that Beethoven shared with many other great thinkers. Yes, thinkers, because Beethoven only by accident was a musician, as his music is a philosophical act as Kubrick’s movies. As argued elsewhere, philosophy is not the land of written language necessarily but of argumentation for the sake of truth reached through a merciless critique of language. As such, it is pointless to draw a rigid line between Beethoven and Kant or Spinoza, to mention two major thinkers whose life wasn’t as different from Beethoven’s – Gens una sumus.
Humans purposefully act every day and all the time. They act differently, however, every single time, as they are all immersed in a changing environment.[1] As such, all actions are different, at least, according to time, where ‘time’ here is intended as conventional and landscape-time (meaning, the natural flow of events).[2] Instead, from a human perspective, it is the action taken that determines the perception of time flow and the related awareness and meaning of time change.[3] This is a flat way to understand different types of actions, however, because the order in which actions are executed does not tell anything about their different nature, that is, the type of causal events they are immersed and part of in relation to some desired effect to be determined.
As Ludwig von Mises argued, human action is based on the premise of change: “Human action is purposeful behavior. Or we may say: Action is will put into operation and transformed into agency, is aiming at ends and goals (…) [human action] is a person’s conscious adjustment to the state of the universe that determines his life.”[4] Although all actions are taken according to specific dispositional belief, that is, according to a given intention formulable in a sentence in which the factual components indicate the desired state of affairs to be reached,[5] they can be classified according to what piece of reality they are intended to bring change.
Preconditions and Premises for Understandability of Human Actions
The best way to understand the different typologies of actions is to divide them into causal/effect categories. Any purposeful human action is rationally calculated in function of given desired effects intended to be reachable through a given intention to be fully translated into the realm of extension.[6] For understanding how humans act, it is necessary to assume that they know how they can make a meaningful difference in the world of the extension.[7] In other words, they assume that they can translate their intentions into proper action, where the action is causally determined by a correspondent state of the mind, whose factual determination is also the definition of the goal to be achieved through the action itself.[8] It is assumed that any mental state is part of a chain of causes whose result is action and its associated state of mind.[9]
A Roma, presso l’Associazione Operatori Culturali “Flaminia 58”, dal 2 al 20 Dicembre era stata allestita la mostra Pretty power, con le opere dell’artista Ron Laboray. Esteticamente, a lui interessa che la trasparenza della plastica sublimi la “macchia d’olio” sul potere. A parità di serialità, la praticità del pop al materialismo avrebbe il contraltare all’influenza d’una costellazione, astrattamente. Christo alla land art soleva impacchettare gli edifici, affinché noi evitassimo di dare per scontato il nostro sguardo. Il potere metaforicamente si spiega attraverso la ciliegia, se una tira l’altra. Ron Laboray esporrebbe la figura della pietra preziosa. La plastica (derivata dagli idrocarburi) ci permette di confezionare un funzionamento di sistema, per un oggetto artificiale che eluda i limiti della Natura. Ron Laboray tamponerebbe l’istinto al potere (che è molto radicato nella storia umana). Quasi alla specularità installativa con Christo, si tratta di svelare per dilatare. Questo può accadere nella classica teca. Alla teoria, un confezionamento aumenta il suo potere mediante la celebrazione. Alla prassi, si rispetterà un paradigma (che la plastica sa emblematizzare). La stella si percepisce come un tampone per la luce, che scoppia blandamente (al paradosso) come una sorgente d’influenza. Le figure al surrealismo di Ron Laboray rivisiterebbero le carte da gioco: fra l’uomo con l’armatura, od i semi (sia cristallizzati a “fiocchi” di neve, sia “sgommanti” alla vegetazione d’un dado). Alla sociologia, la pop art “smonta” tranquillamente il potere invasivo della pubblicità. Nel telo di plastica, l’alchimia della vernice sul pennarello trasformerebbe la costellazione solo orientante in un accattivante intarsio da sbandierare. Lo riassumeremo dalla griglia di partenza per le ruote sgommanti. Infatti l’artista ha disegnato Shirley Muldowney: la prima donna a competere per le corse col dragster. La vernice del telo per lei sarà stata tramutata in carburante fucsia (alla gustosità della ciliegia), dalla combustione del rosa. Più genericamente, il pubblicitario dovrà celebrare un logo. Ma un artista sublima anche il consumismo. A Ron Laboray interessa la rivalsa per iniziativa personale, anziché l’intrattenimento da uno status quo. La carta da gioco servirebbe a “rimbalzare fuori” dal caleidoscopio ipnotizzante? Ron Laboray celebra sia chi ha vinto (come Shirley Muldowney, contro il maschilismo), sia chi ha provato a vincere (come Kurt Cobain, contro le majors). A Roma, la mostra era stata curata da Camilla Boemio.
Figura 1: Cartografia di un’anziana donna di Trieste con un lungo corno sulla fronte. Il suo corno è un tronco d’albero secco, e il suo fardello è un grande cimitero. Nulla è cambiato della mappa ed ho aggiunto solo i colori
Una pareidolia che lascia perplessi
A volte alcune mappe di città e luoghi in genere mi permettono di disegnare vignette di scenari interessanti che mostrano persino personaggi storici, un tutto che si rivela addirittura profetico. La cartografia sopra mostrata è una di queste vignette che ho disegnato in questi giorni che, a differenza di tante altre che ho disegnato, non ha avuto bisogno di correzioni. Si è delineata attraverso le strade principali e ho dovuto solo aggiungere i colori per far delineare bene uno strano personaggio che ha mi colpito, conoscendo la storia degli ultimi anni di dopo la seconda guerra mondiale, l’atroce eccidio italiano-croato-sloveno di tutta l’area della vecchia disposizione della Venezia Giulia.
Passando in rassegna i manoscritti di recueil della letteratura medievale oitanica si trovano, anche in codici di primario interesse critico, testi che non hanno goduto di attenzione filologica e linguistica, e lungo sarebbe discorrere se ciò sia a buon diritto o meno. Diversi sono i testi le cui edizioni critiche sono di vecchia data, ma ciò spesso perché insuperate, o completamente assenti.[1] Un caso interessante proviene dal ms. Paris, Bibliothèque Nationale de France, 25545 (siglato I),[2] codice membranaceo (217×145 mm.) della prima metà del XIV sec., vergato in gotica francese:[3] alla carta 4ra-rb si trova un testo in versi piuttosto peculiare. Il titolo, adottato anche dagli editori, è Des fames, des dez et de taverne (lett. “Sulle donne, sui dadi e sulla taverna”)[4] e conta 74 versi in quartine. I versi mischiano lingua antico-francese in apertura di verso e latino in chiusura di verso e in coda alle quartine. Questo carattere miscellaneo complica la definizione precisa della metrica del testo, che è di contro identificabile per i versi interamente latini.