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Schizofrenia morale – Inconciliabilità tra Motivazioni e Giustificazioni

Megagreenleopard, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

Il campo delle teorie morali è variegato e causa disaccordi circa i piani della motivazione e della giustificazione dell’atto morale. Uno dei discriminanti per rientrare nel campo della moralità è certamente l’avere un’attitudine altruista, in quanto parlare di etica risulta strettamente connesso alla presenza dell’altro, andando oltre “io” e “te” (Singer, 1979). Il riconoscimento dell’altro pone l’agente morale nella condizione di essere un osservatore ideale, con capacità di astrazione dal contesto che gli attribuisce uno sguardo dall’esterno.

Michael Stocker, filosofo americano contemporaneo, in The Schizophrenia of Modern Ethical Theories (1976) pone l’attenzione su quanto molte teorie etiche manchino di tener conto della correlazione tra ragione e motivazione nel momento di agire moralmente. Questa attitudine definita moral schizophrenia si riferisce ad una scissione nella psicologia morale del soggetto e ciò invalida tali teorie, andando a creare un ribaltamento delle dinamiche causa-effetto, che ne modifica l’ordine.Stocker tenta di enfatizzare come la dimensione del sistema di valori individuali, in quanto appartenenti ad individui finiti, abbia un peso significativo nella valutazione dell’azione eticamente corretta e necessita di essere presa in considerazione; pertanto, si richiede il raggiungimento di un grado di armonia e le teorie carenti di tale sincronia necessitano un grande sforzo per essere difese.

Generalmente, quello che dovrebbe verificarsi sarebbe un logico allineamento: dovremmo essere motivati dai nostri valori e dovremmo dare valore a questi ultimi che a loro volta ci motivano. Per un soggetto a l’azione giusta potrebbe essere quella in grado di massimizzare l’utilità personale o collettiva contestualmente mediante il ricorso ad un calcolo matematico,[1] per un soggetto b potrebbe coincidere con la messa in pratica di un principio secondo un senso del dovere kantiano,[2]per un soggetto c agire in linea con una condotta morale potrebbe voler dire ispirarsi ad un soggetto esemplare secondo la nozione di virtù introdotta da Aristotele.[3]In ogni caso, deve sempre esserci una corrispondenza coerente tra le motivazioni che spingono a compiere un atto morale e le giustificazioni fornite in proposito.

Il fallimento delle teorie morali contemporanee a Stocker e da lui individuato risulta doppio: da un lato distacca un’eccessiva concentrazione sul senso del dover fare e poca attenzione al versante delle relazioni interpersonali; dall’altro questa carenza le invalida in quanto teorie morali. Se da un lato rendono impossibile per un agente morale l’ottenimento del bene in modo totale, dall’altro portano incoerenza e frammentazione nelle vite delle persone. Un esempio è il caso dell’egoista, ossia quel soggetto che agisce in maniera solipsista, ossia mosso solamente dal proprio interesse personale anche e soprattutto a spese altrui: di conseguenza, essendo mosso solo dal proprio tornaconto lui non trarrebbe piacere da tali attività e relazioni, bensì solo per beneficiare sé stesso. Agire nei confronti altrui solo strumentalizzandoli per l’utilità personale vuol dire mettere in atto una condotta solipsista e non percepire il bene dell’altro come qualcosa di valore in sé; dunque, si traduce in una forma di carenza, pena l’esclusione dalla sfera della moralità.[4] L’egoista agisce verso gli altri solo per la massimizzazione dei suoi obiettivi personali, fisici o materiali, e questo tende ad invalidare le relazioni stesse: gli altri non vengono apprezzati tanto nella loro individualità ma solo presi in considerazione per l’effetto che hanno su di noi. La schizofrenia morale, in tal caso, deriva da un mancato allineamento: per ottenere quei beni personali sarebbe necessario abbandonare le proprie motivazioni poiché le ragioni non riuscirebbero ad essere incluse, trovandoci pertanto di fronte ad un caso di schizofrenia morale.

Anche le teorie utilitaristiche appaiono affette da  tendenze schizofreniche poiché mosse solo in relazione a dinamiche di piacere e dolore: quindi di nuovo un mancato allineamento tra ragioni e motivazioni. Questo contribuisce a svalutare ogni relazione interpersonale, dato che l’unica fonte di azione è mirata al piacere che se ne trarrebbe e non dall’avere quel rapporto come di valore in sé; questo condurrebbe ad un problema di impersonalità e mancanza di individualità. Tutte queste teorie, comprese quelle deontologiche, sembrano porre l’enfasi più sul versante esterno che sugli individui coinvolti negli scambi relazionali, con il risultato di una perdita e scomparsa del senso del sé. Difatti, ognuna di tali teorie “necessitate a schizophrenia between reason and motive – and just as they cannot allow for love, friendship, affection, fellow feeling, and community” (Ivi, p. 459). Per quanto complesso sia avere a che fare con gli altri, l’unico modo affinché le relazioni non diventino anaffettive sarebbe avere a cuore l’interesse altrui, agendo per il bene dell’altro in quanto base costitutiva del rapporto relazionale e non perché aderenti a teorie morali a supporto dell’azione in nome del senso del dovere.

Aldilà dell’interesse personale, quello che rende la vita umana degna di essere vissuta e soprattutto di valore aggiunto è agire con attitudine altruista in quanto motivante di per sé, oltre a costruire legami di valore con altri che a loro volta facilitano pure il raggiungimento dell’eudemonia[5], permettendo di riconoscere il valore intrinseco alla relazione interpersonale  stessa; laddove un individuo presenti discrepanze tra ragioni e motivazioni anche quando si tratta di agire nei riguardi di amici, partner o familiari sta attuando un comportamento schizofrenico. Non è possibile abbracciare completamente queste teorie e vivere aderendovi totalmente eppur avere amore o senso di affezione verso gli altri.

Il punto focale di Stocker rimanda a quanto queste teorie non facciano altro che allontanare gli uni dall’amare gli altri, in quanto: “modern ethical theories would prevent each of us from loving, caring for, and valuing ourself-as opposed to loving, caring for, and valuing our general values or ourself-qua-producer-or-possessor-of-general- values” (Ivi. p. 459). Il problema, oltre alla mancanza di personalità ed individualità, risiede nella posizione diametralmente opposta: non dare importanza al lato più personale di noi non solo porta a deumanizzare, ma ci rende rimpiazzabili dato che nessuno detiene più un ruolo determinante e chiunque può interscambiarsi. Potremmo dunque trovarsi dinanzi a casi in cui un soggetto agisce moralmente, si potrebbe dire, ad esempio prendendosi cura di un malato o di qualcuno in difficoltà – sia imparentato sia senza nessun legame formale – pur sempre non nutrendo nessuna emozione nei suoi riguardi. Sarebbe di fatto una condotta moralmente apprezzabile? Se andiamo a guardare il lato puramente dell’azione potremmo rispondere affermativamente, ma il problema nascerebbe sul fronte giustificatore. Si potrebbero fornire giustificazioni a riguardo, ma aderire e appartenere alle teorie menzionate in precedenza in maniera totale arriva a scontrarsi sul piano pratico sul punto del fattore motivante che spinge ad agire moralmente, in quanto non si manterrebbe sempre quel legame naturale di causa ed effetto tra i due piani. Verso la conclusione del testo il filosofo fa riemergere la distinzione previamente menzionata tra causa ed effetto, la cui inversione conduce a questa schizofrenia nelle teorie. Questa sorta di inversione, esemplificata nel confondere l’”effetto” con la “causa” (ivi) è il motivo esatto per cui molti rapporti sono vuoti e inumani, perché quando subentra il senso del dovere c’è una mancanza da dover colmare. Dal momento in cui iniziamo a vedere questi rapporti solo come possibili fonti di appagamento e non più certe, stiamo già svuotandoli del loro valore. Proprio questo dare valore alle relazioni nella misura in cui ci garantiscono piacere è segno di schizofrenia morale ed errore nel punto di vista. L’idea conclusiva punta a far rientrare le motivazioni nel campo morale, tuttavia senza svalutarle della loro valenza e sempre mantenendo un certo equilibrio tra tali ragioni e gli universi ideologici che sono posti dietro. Un atto moralmente giusto si costruisce su un’intenzione moralmente buono di base, che dobbiamo incarnare e in automatico metterla in atto quando agiamo nel campo etico, tenendo a mente anche il bene dell’altro.

Probabilmente la filosofia non ha la risposta definitiva in materia di azione eticamente corretta e le teorie morali non possono essere esaustive nell’indicarci universalmente il fattore decisivo per cui agire, sebbene ci siano stati tentativi come quello kantiano a dimostrare come la sola ragione può essere motivante per un agente morale. Sicuramente un appalto teorico morale, di carattere più generale e non sempre rigido, può fungere da “indice” ed essere d’aiuto nel farci orientare all’interno del campo della moralità, facendoci fare un’idea su quale sia l’azione moralmente giusta da perseguire e perché. Nemmeno lo stratagemma del supportare un’azione morale indirettamente può funzionare sul piano pratico perché spesso siamo chiamati a compiere scelte in prima persona, specie nelle dinamiche relazionali in cui sono coinvolti anche gli altri e, dunque, ad esprimerci in modo chiaro e diretto. Allora fare affidamento a tali teorie – che risultano complesse da discernere dalla sfera più intima e personale – difficili da mettere in pratica è davvero utile? Potremmo pensare di ricorrervi come mappa guida, sempre tenendo bene in considerazione la differenza di contesto in cui ci troviamo di volta in volta. In alternativa, potremmo considerare queste formulazioni solo come teorie parziali che, come tali, non dovrebbero essere prese alla lettera tantomeno accettate con la pretesa di essere esaurienti; potremmo vederle come formulazioni associate al senso del dovere poiché legate al piano normativo, nonché alla necessità di attuare una legislazione come dei pilastri su cui appoggiarsi per orientarsi nell’affrontare questioni spinose. Chiaramente casi del genere metterebbero in secondo piano la motivazione e richiederebbero l’adozione di una scelta; ammesso che se ne debba sempre compiere una può non esserci congruenza totale tra l’opzione privilegiata in un contesto dato e l’aderenza senza eccezioni a schemi teorici che presentano fallacie e mancanze.

Per quanto possa essere complesso raggiungere assoluta armonia tra motivazioni e giustificazioni, essendo noi esseri umani imperfetti ed influenzabili da molteplici fattori, bisognerebbe cercare il più possibile di agire con coerenza e come soggetti coscienziosi, evitando condotte moralmente schizofreniche. Risulta così necessario investigare periodicamente dentro di noi per verificare che le decisioni prese non siano frutto di scelte automatiche bensì di adesione consapevole alle teorie etiche a cui ci riferiamo, supportandole e non invalidandole, ricordando sempre per quale ragione agiamo in una determinata maniera e quali giustificazioni logicamente coerenti siamo pronti a dare in risposta all’aver agito in tal modo.


Bibliografia

-Hutcheson, Francis. Concerning Moral Good and Evil in An Inquiry into the Original of our Ideas of Beauty and Virtue: In Two Treatises, London Midwinter 1738.

-Kant, Immanuel. Grounding for the Metaphysics of Morals, Indianapolis Hackett 1981.

-Singer, Peter. Practical Ethics, Cambridge UK: Cambridge University Press 1979.

-Stocker, Michael. “The Schizophrenia of Modern Ethical Theories” in The Journal of Philosophy, Aug. 12, Vol. 73, No. 14, On Motives and Morals (Aug. 12, 1976), pp. 453-466.


[1] “The applying a mathematical Calculation to moral subjects […] may shew the Conveniency of this Attempt, if it could be farther pursu’d” (Hutcheson, 1725). Il calcolo applicato alle questioni morali è tipico dell’attitudine utilitarista, il cui fine ultimo è la massimizzazione in termini (anche) quantitativi del bene e dell’utilità generale.

[2] L’attinenza al senso del dovere si traduce per Kant (e i suoi sostenitori) nell’imperativo categorico, ossia la fedele aderenza a massime, leggi e principi che, essendo frutto della capacità di autogestirsi rappresentano il massimo grado di autonomia per un soggetto. L’unica motivazione è il dovere stesso, nessuna inclinazione: “[he] performs the action without any inclination at all, but solely from duty” (Kant, 1981).

[3] Aristotele, Etica nicomachea, Rusconi 1993.

[4] L’egoista non agisce avendo come motivazione l’amore verso l’altro, bensì il raggiungimento del proprio piacere.

[5] Dal greco εὐδαιμονία (eudaimonìa) è alla base dell’eudemonismo, dottrina morale che ripone il bene nella felicità e la persegue come fine naturale della vita degli uomini.


Giada Salvati

Giada Salvati (1999) è laureata in Mediazione Linguistica e Culturale. Attualmente frequenta la laurea magistrale in Lingue e Culture per la Comunicazione e la Cooperazione Internazionale presso l’Università degli Studi dell’Aquila. I suoi interessi di ricerca si muovono entro i confini della postmodernità, con focus variabile interdisciplinare incrociando tematiche quali: l’identità, il corpo, il genere e gli effetti della tecnologia.

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