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Critica alla dottrina morale di Aristotele

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Aristotele non ritiene che la conoscenza della vita quotidiana attenga alla ragione scientifica. La ragione ha la possibilità di conoscere ciò che è necessario, ovvero, ciò che è insostituibile per vivere, per arrivare a determinare un fine, la premessa per una definizione, la deduzione logica ecc.. Ma la conoscenza attiene sempre ad un’osservazione e, in quanto tale, decide ciò che capita più spesso.

Come osserva Aristotele, nell’etica non ci può essere posto per una trattazione interamente razionale della questione in quanto non è data conoscenza a priori dei fini particolari delle deliberazioni nella vita quotidiana: essi sono, assai spesso, unici, per ciò non oggetti di osservazione ripetibile. Da un lato, è vero, il fine sommo della vita umana è quella di essere felici. Ciò, certo, non è un’ovvietà, ma è anche vero che, generalmente, sono assai pochi che ne sono coscienti e assai pochi che davvero cercano umanamente di vivere una vita beata: è questione, guarda caso, di esperienza che siano assai pochi quelli in grado di condurre una vita felice.

L’essere umano, a prescindere dal momento storico, è siffatto che, quando non è consapevole di se stesso e del prossimo, difficilmente riesce a capire ciò che è causa di bene e ciò che non lo è. Infatti, è vero, assai spesso, l’uomo delibera in merito a quel che crede di cercare, ma è anche assai raro che esso lo raggiunga senza qualche lungaggine dovuta, per esempio, alla non riconoscenza del fine come “giustificante tutti i mezzi”. Infatti, non è sempre ovvio che il fine appaghi quanto i mezzi frustrino, questo, in particolare, quando le persone non sanno quello che fanno.

Aristotele propone alla base di ogni decisione, una deliberazione, in altre parole, l’uomo, prima di agire, decide il fine a cui arrivare, in un secondo momento, successivo alla deliberazione, opera delle scelte, che sono i mezzi attraverso cui giungere al fine, a questo punto agisce. A tali operazioni corrisponde la “facoltà” pratica della volontà, decidibile a partire dalla ragione. Una deliberazione è determinata da un desiderio o da un fine razionale.

In primo luogo, secondo quale principio avviene la deliberazione? In altre parole, una decisione in merito ad un fine, anche determinato da un desiderio, implica o una conoscenza adeguata del desiderio oppure una deliberazione in relazione ad una serie di valori. Aristotele ammette questa seconda possibilità. Intanto, come si fa a prendere una decisione quando i valori sono in contrasto con il desiderio?

In secondo luogo, questi valori da dove nascono? Ovvero, se i valori nascono dalla sola conoscenza allora ogni azione è razionale e determinata dalla ragione. Ma ciò è escluso da Aristotele. Se poi i valori sono relativi, ovvero nascono, per esempio, dall’abitudine, allora noi spesso agiamo a prescindere dalle circostanze e spesso in disaccordo con esse, nella misura in cui le abitudini assai spesso sono delle maschere ad una adeguata conoscenza. Se poi i valori sono relativi per ciascuno, allora quasi mai si giungerebbe ad una possibilità di soddisfazione di quelli, nella misura in cui essi variano da persona a persona.

Quindi, i valori, in una certa misura devono essere condivisi, se no si ricade nella chiusura egocentrica che implica l’incapacità di soddisfare i propri bisogni: è evidente che per soddisfare tutti i mezzi che un fine richiede, fosse anche quello elementare di procreare, è necessario ci devono essere dei valori comuni, dunque non possono essere del tutto relativi.

In questo caso, allora, i valori attraverso cui valutiamo le cose, devono nascere, ancora o dalla ragione o dall’abitudine, dall’esperienza o da qualcos’altro. Dalla volontà non può essere giacché, anche ammettendo che esista, non dico “io voglio questo perché la mia volontà lo vuole” semmai dico “io voglio questo perché ne ho bisogno” ovvero la volontà coincide col desiderio oppure “io voglio questo perché è buono”, ovvero ad una cosa ne associo un valore positivo, che altro è che l’espressione di un aumento di potenza da parte mia, qualora lo possegga. In ogni caso, la volontà, ammesso che ci sia, può solo rimettersi a qualcos’altro che la guidi, che sia la ragione o l’abitudine o i valori.

Questi valori, dunque, abbiamo ammesso che devono essere, in una certa misura collettivi, nel senso che sono condivisi, sentiti da più persone (non che nascano da una qualche forma astratta di spirito incorporeo che non sta né in cielo né in terra). Dunque, se sono collettivi, in una certa misura dipendono da noi, in una certa misura no. In questo senso, noi non siamo che una condizione parziale per l’esistenza di tali valori che esisteranno solo perché ne esisteranno di altri. Ma come possono dei valori determinati dall’esistenza di altri, essere validi anche per me, se nascono da abitudini diverse dalle mie e da sensazioni diverse dalle mie? I valori sono condizioni astratte attraverso cui si giunge all’associazione di una qualità di un oggetto alla moralità. In altre parole, il valore è il peso specifico morale attraverso cui una cosa è pensata in relazione ad un certo soggetto. Il valore indica il “peso” di utilità, di “incremento di potenza” di qualcosa. Certo, ma se tali “valori” nascono dall’abitudine di altri, manco solo dalla mia, tali valori sono astratti come fanno ad essere parametri positivi dell’azione, un giusto metro per decidere come agire? Infatti, anche ammesso che le cose siano le stesse per tutti, anche ammesso che tali valori associno delle reali qualità (cosa non ovvia giacché non sono dipendenti dalla ragione ma dall’associazione di qualità, che non rimanda ad una conoscenza esatta delle cose ma relative ad un soggetto), rimane il fatto che essi sono a prescindere dai singoli: così, si giudicano assai spesso oggetti inutili come insostituibili e molti, frustrati da ciò, si ottenebrano la mente offuscati dall’invidia e dalla rabbia.

Dunque, i valori non sono buoni parametri di giudizio delle cose, giacché sono astratti e sottolineano solo raramente, qualità reali delle cose. D’altra parte, i valori non sono nemmeno determinati nell’esistenza dalla ragione di uno o di tutti, ma da abitudini collettive, da credenze e superstizioni. E questo è il caso della religione (non del sentimento religioso), della religione come forma di credenza che prevede una morale polarizzata senza tale che essa si riduce ad un nucleo fondamentale di credenze che, se applicate contemporaneamente, a volte provocano contraddizione: se per non uccidere qualcuno devo per forza uccidere qualcun altro, come faccio a decidere? Se posso salvare la vita di qualcuno solo rubando ( magari la mia ), cosa devo fare?

Ma Aristotele non individua nella religione necessariamente un movente. D’altra parte egli ammette che esista una volontà. Eppure egli, in sede conoscitiva, non la tratta mai. Perché sente, invece, il desiderio di utilizzarla in sede pratica? Perché nell’atto della deliberazione la volontà, e il libero arbitrio, molto più che nella determinazione dei mezzi, è richiesta, secondo lui. La ragione del desiderio sta nel fatto che Aristotele scinde l’azione pratica dal resto delle azioni, quasi che esistessero momenti distinti della vita, uno dove uno conosce e capisce o meno e un altro dove passa a decidere praticamente le proprie azioni, come se non fossero due attività, quanto meno, assai simili. Ma facciamo proprio come fa Aristotele: analizziamo prima l’uso della parola “volontà”, successivamente analizziamo le opinioni generali e vediamo cosa ne esce fuori.

In primo luogo, la parola volontà si usa in due modi diversi: “io voglio X” e “io ho voglia di X”. In effetti, si potevano usare due parole diverse, o scrivere la frase allo stesso modo: “Io ho deciso per X” e “Io desidero X”. Ma “io desidero” per “io voglio” indica che la volontà non è affatto una facoltà indipendente dal sentire-un desiderio, in questo senso, non è per niente libera. “Io ho deciso per X” non indica affatto che la volontà esista giacché la decisione è chiaramente una formulazione razionale, dunque attiene alla ragione. In questo senso o la volontà coincide col desiderio o coincide con ragione. Ebbene, i più vogliono che la volontà e il libero arbitrio esistano, senza sapere poi con precisione cosa intendano, né il luogo comune riesce a dare una definizione chiara di “libero arbitrio” senza usare una nozione di “casualità”: se il libero arbitrio è “la capacità di autodeterminazione della mente”, si deve dire quanto meno in cosa riposi tale potenza, tale possibilità, visto che la capacità è un potere; in secondo luogo cosa significa la parola “autodeterminarsi”. A questo punto, non esiste un’opinione comune giacché quei pochi che danno queste risposte non sono certo la maggior parte della persone, motivo per il quale c’è da dubitare sulla qualità delle spiegazioni accettate dal luogo comune. E anche quelli che rispondono ammettono che esista una qualche forma di casualità della mente, nulla di più sensato.

In ogni caso, abbiamo appurato che non c’è volontà che deliberi e le deliberazioni sono a partire da qualcos’altro.

Dunque, non si sa in base a quale principio si possa deliberare, visto che i valori sono inadeguati, i desideri a volte pericolosi ed, in ogni caso, determinano spesso quegli eccessi tanto sgradevoli per Aristotele. Ma, a questo punto, facciamo proprio un’analisi della possibilità dell’esistenza di questo giusto mezzo: questo “giusto mezzo” sarebbe l’espressione di due eccessi. Ora, questi due eccessi o nascono dalla mente o nascono nelle cose. Se fossero nelle cose allora potremmo dire che la natura è giusta o sbagliata: cosa che Aristotele, in questo senso, non ammetterebbe. Ed anche ammettendo che la natura sia giusta o sbagliata, bisognerebbe dire che quelle cose sarebbero sempre giuste o sbagliate e non relative, giacché, a quel punto “giusto” e “sbagliato” sarebbero attributi essenziali di quella cosa nella misura in cui ne attestano la natura.

Ma se sono nella mente queste virtù o sono collettive o sono relative. Se sono collettive allora non possono nascere che dalla ragione, nella misura in cui, abbiamo detto, i bisogni variano da persona a persona. Se fossero dalla ragione, però, non sarebbero oggetto di discussione.

Insomma, la questione dell’esistenza di queste virtù pare essere una cosa relativa all’azione in se stessa: un’azione è detta buona se fa del bene e sbagliata se fa del male ( lasciamo perdere cosa sia bene o male adesso ). In ogni caso, questa medietà, se non nasce, appunto, da due pesi, da dove dovrebbe nascere? In ogni azione umana esiste un contesto tale per cui esiste una molteplicità di azioni possibili, ma solo alcune, paritariamente magari, sono buone per sé e per gli altri, e le altre sono neutre o negative, per lo più. Questo giusto mezzo, dunque, quante azioni possibili determinerebbe? E ancora, da dove trarre la giustificazione “del giusto”? Infatti, dire che ho agito in nome della “medietà dei pesi delle azioni” non garantisce affatto la possibilità di decidere in base a quella “ispirazione”. Inoltre, sempre di un’azione si potrà dire a posteriori che essa è guidata dal giusto mezzo, ma, a partire dalla determinazione mediana, come si giungerebbe alla definizione dell’azione, senza prima essersi fatti un’idea razionale della cosa non è affatto chiaro.

Insomma, o le cose dipendono dalla ragione o no e se dipendono dalla ragione allora dipendono dalla sola conoscenza delle cose, se non dipendono dalla ragione allora dipendono o dalla natura dell’essere umano in quanto essere-vivente, oppure dipendono dalla credenza che l’essere umano si è fatto di una certa cosa in relazione ad un’associazione di idee.

In questo senso, che tipo di libertà può esserci se non quella della determinazione di sé a partire dalla propria ragione? Gli esseri umani si distinguono infatti in base alla propria conoscenza, giacché i desideri della sopravvivenza sono uguali (ma non i loro oggetti, ed è il motivo per cui si discorda nonostante si “vogliano” le stesse cose: nel senso astratto del termine è vero: “io voglio fare l’amore con “X”” è universale, ma la determinazione di “X” è particolare e soggettiva. In senso reale, quella “X” non è affatto indifferente, giacché io non faccio l’amore, ad esempio, con una scarpa). La determinazione in base alla propria conoscenza è, dunque, l’unica forma di libertà che l’uomo ha, ovvero quella di poter esprimere se stesso.

Infatti, o agisce a partire da se stesso o va a caso, giacché è casuale l’oggetto del desiderio che, come dice un bel titolo di un bellissimo film, è oscuro perché è non è chiarito dal desiderio stesso. In questo modo, la conoscenza della realtà dei fatti è indispensabile per la conoscenza dei fini.

Ma come determinare i propri fini? Ora, l’uomo è una mente e un corpo. Il corpo abbisogna di poche cose, fondamentali ma poche, per sostentare, per sopravvivere. La soddisfazione delle necessità del corpo è detta, infatti, sopravvivenza ed è in tutto simile a quella di un animale: un corpo che sopravvive è anche quello dell’essere-in coma. L’uomo, se non avesse la facoltà di conoscere non sarebbe in molto diverso da molti altri esseri.

L’uomo, conoscendo, si distingue non solo dalle altre cose, ma anche dagli altri uomini: infatti si distinguono assai di più due uomini intelligenti che due uomini ignoranti. Ad ogni modo, la conoscenza è capace di non far cadere in contraddizione l’essere umano ed è piacevole. La contraddizione, essendo negazione della propria capacità di pensare, implica sofferenza. Ma la realtà è unica, perciò, se si conosce, è coerente. La realtà pratica rispecchia in questo la realtà conoscitiva appieno e, dunque, una contraddizione è evitabile se e solo se è conoscibile, giacché una delle due strade della contraddizione deve cadere. Ma se l’uomo non conosce non sa che strada prendere e per ciò rimarrà fermo e sofferente.

In questo modo, se la conoscenza adeguata è quella della ragione, capace di soddisfare di per se stessa, giacché implica un’attività della mente capace di riconoscere se stessa e il mondo, in quanto capace di evitare contraddizioni, implica che si possa conoscere la realtà di volta in volta e determinare la strada a partire dalla sola nostra conoscenza. E dunque, il libero arbitrio esiste, sì, come vogliono i più, ma solo nel senso che se non seguiamo la ragione, allora si è costretti a rimettersi nelle mani del destino e ciò è tutta una faccenda casuale.

In conclusione, la concezione di Aristotele è inadeguata a dare una ragione delle azioni umane senza dare contraddizione. Essa paga l’idea che esista la volontà come una capacità “altra” da quella conoscitiva, tale per cui non si sa perché e come possa implicare una particolare azione. Inoltre, implicando una morale “ispiratrice” del giusto mezzo, non dice in alcun modo, ancora una volta, perché i pesi del mezzo, a prescindere dalle situazioni, dovrebbero essere positive. Infine, la predicazione del “giusto mezzo” è sempre possibile a posteriori, così, ogni descrizione del giusto mezzo è può sempre prescindere dalle circostanze pur non apparendo.


Giangiuseppe Pili

Giangiuseppe Pili è Ph.D. in filosofia e scienze della mente (2017). E' il fondatore di Scuola Filosofica in cui è editore, redatore e autore. Dalla data di fondazione del portale nel 2009, per SF ha scritto oltre 800 post. Egli è autore di numerosi saggi e articoli in riviste internazionali su tematiche legate all'intelligence, sicurezza e guerra. In lingua italiana ha pubblicato numerosi libri. Scacchista per passione. ---- ENGLISH PRESENTATION ------------------------------------------------- Giangiuseppe Pili - PhD philosophy and sciences of the mind (2017). He is an expert in intelligence and international security, war and philosophy. He is the founder of Scuola Filosofica (Philosophical School). He is a prolific author nationally and internationally. He is a passionate chess player and (back in the days!) amateurish movie maker.

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