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Breve chiarificazione: ‘Cos’è l’Experimental Philosophy?’

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Obbiettivo dello scritto è chiarire cosa si intende per “filosofia sperimentale”.

La filosofia sperimentale (anche detta x-phi, abbreviando la denominazione inglese) è una nuova tendenza d’indagine filosofica che integra l’ormai tradizionale metodologia d’indagine della filosofia analitica con il metodo scientifico della scienza cognitiva. La filosofia sperimentale è diffusa soprattutto negli Usa (Yale, Arizona, Buffalo), mentre in Italia viene sostanzialmente ignorata.

Il punto centrale è questo: il filosofo è detto sperimentale quando si occupa di indagare attraverso la ricerca e il metodo empirico, ovvero attraverso uno studio sistematico, rigoroso e scientifico, il pensiero e le intuizioni dell’uomo comune sulle questioni che stanno a fondamento della discussione filosofica.

Dunque, chiarire e contribuire a risolvere i tradizionali problemi filosofici raccogliendo informazioni, attraverso un procedimento controllato e scientifico, su cosa le persone di fatto pensano e dicono degli esperimenti mentali del filosofo. Ma più in generale sono le intuizioni del filosofo a dover essere vagliate criticamente e scientificamente. Prima cioè di poter asserire con sicurezza che l’uomo naturalmente pensa così o dice così, bisogna sottoporre a verifica sperimentale l’ipotesi che l’uomo pensa e dice così.

Prima di chiarire cos’è un esperimento mentale, noto che l’esigenza di vagliare l’aderenza dell’intuizione del filosofo a quella della persona comune (ovvero del non-filosofo), ha una chiara origine. Non è raro sentire l’opinione per cui la divisione dei compiti tra scienziato e filosofo è la seguente: il filosofo si occupa di fare l’analisi concettuale al fine di definire il contenuto dell’immagine ordinaria del mondo; lo scienziato si occupa di fare ricerca sperimentale per costruire l’immagine scientifica (Marraffa, 2010). Il filosofo effettua l’analisi concettuale anche attraverso il ‘metodo dei casi e delle intuizioni’(cioè attraverso gli esperimenti mentali). Per decidere se accettare o rifiutare l’analisi di un concetto ordinario, il filosofo inventa un esperimento mentale in grado di creare un’intuizione che funge da perno attorno al quale ruota l’accettazione o il rifiuto dell’analisi: se l’analisi si accorda con l’intuizione allora è corretta, nel caso contrario è scorretta. Ora, è chiaro, l’intuizione è qualcosa di evidente, di chiaramente vero. Non è chiaro invece di chi sia questa intuizione. Anche se è chiaro di chi per forza deve essere. L’intuizione non può appartenere al solo filosofo che formula l’esperimento mentale, ed essere in contraddizione con le intuizioni degli altri. Non discuteremo nemmeno questa possibilità. Ma l’intuizione non può appartenere nemmeno solamente alla classe dei filosofi professionisti, perché (a) nessuno fin’ora ha portato evidenza di una differenza tra le intuizioni del filosofo e quelle del non-filosofo, (b) l’intuizione del solo filosofo non è abbastanza neutrale da permettere un lavoro non compromesso di valutazione di teorie filosofiche antagoniste. Allora l’intuizione deve appartenere alla classe degli umani (non-filosofi). Questo implica che quando il filosofo afferma che la sua intuizione è rappresentativa dell’intuizione ordinaria, egli si impegna in una tesi empirica, cioè che l’uomo comune di fatto condivide la sua stessa intuizione. È qui che propriamente nasce l’esigenza di condurre ricerche empiriche atte a determinare se e quanto l’intuizione del filosofo è condivisa dal non-filosofo: quest’esigenza prende il nome di ‘filosofia sperimentale’.

L’esperimento mentale è un metodo d’indagine usato dalla filosofia (e fino dai tempi dei filosofi pre-socratici (Rescher, 1991), ma non solo: l’esperimento mentale è usato nelle scienze naturali,[1] vedi ad es. il gatto di Schrödinger, il diavoletto di Maxwell, l’ascensore di Einstein, la congettura di Poincaré etc.). In ambito filosofico l’esperimento mentale è usato ed importante soprattutto in etica, in filosofia del linguaggio e in filosofia della mente. Cooper (2005) argomenta in favore della continuità tra esperimento mentale usato in campo filosofico ed esperimento mentale usato in campo scientifico; è possibile pensare che non ci siano differenze tra gli esperimenti mentali usati nella filosofia e quelli usati nella scienza. Sommariamente, l’esperimento mentale può essere definito come uno strumento dell’immaginazione usato per investigare la natura delle cose. Attraverso esso è possibile guadagnare nuova conoscenza in assenza di nuovi dati empirici. Secondo la definizione di Gendler (1998, pg. 398)[2] condurre un esperimento mentale è giudicare cosa accadrebbe, se il particolare stato di cose descritto in uno scenario immaginario, fosse reale. Ci sono poi diverse maniere di categorizzare gli esperimenti mentali, non tutte valide. Ad esempio Popper (1959) propone un’interessante, anche se troppo generale, tassonomia dell’esperimento mentale: esistono esperimenti mentali euristici, cioè che fungono da illustrazioni alla teoria; critici, cioè che fungono elemento critico per confutare una teoria; apologetici, cioè che fungono da elemento critico in favore di una certa teoria. Per chiudere la nota sugli esperimenti mentali osservo solamente che questi, per distinguersi dal semplice fantasticare su mondi possibili più o meno probabili, devono essere rigorosi; ma va sempre tenuto a mente che un esperimento mentale può essere sempre ripensato (ovvero reinterpretato; Bokulich, 2001) e che la sua evidenza è relativa al contesto storico e sociale in cui è pensato (McAllister, 1996). Noto infine, in sede critica, che non è sempre chiaramente e facilmente determinabile quanto un esperimento mentale è, di fatto, affidabile, e questo è tanto più problematico nel momento in cui, come si ha la forte sensazione, l’esperimento mentale, in filosofia, è spesso abusato (e deliberatamente, come già avverte Dennett, 1985 – basta pensare agli esperimenti mentali sull’identità personale, ad es. Parfit, 1987). Pertanto non è sarebbe negativo un sano scetticismo nei confronti di questa metodologia di indagine, senza che questo certo porti a visioni detrattrici dell’esperimento mentale come quella di Duhem (ma applicate allo studio filosofico; per una critica spietata dell’esperimento mentale in filosofia vedi Wilkes, 1998); vanno cioè senz’altro determinati requisiti rigorosi di individuazione del successo di un esperimento mentale.[3]

Torniamo al nostro discorso: esemplifichiamo il procedere della filosofia sperimentale. Saul Kripke, in Naming and Necessity, propose un esperimento mentale in supporto alla sua nuova teoria del riferimento. Secondo la teoria tradizionale, da Kripke chiamata ‘teoria descrittivista’, formulata da Frege e da Russell e nella versione più seducente dal Wittgenstein delle Ricerche Filosofiche, un nome è sinonimo di una descrizione definita, che specifica la persona o la cosa in questione. Kripke non condivide questa teoria e ne propone un’altra (anche se più che di teoria dovremo parlare di immagine, seguendo gli stessi suggerimenti dati da Kripke durante l’esposizione delle sue idee): i nomi arrivano ad avere un riferimento alla realtà per mezzo di una procedura di battesimo, cioè l’attribuzione di un nome a una persona o a una cosa, primo passo con cui si origina una catena causale collegante referente e parlante. Questa teoria o abbozzo di teoria è chiamata da Kripke ‘teoria causale del riferimento’. Ora, per mostrare la falsità della visione tradizionale per cui i nomi propri sono sinonimi di descrizioni o agglomerati di descrizioni (nella versione data da Wittgenstein), Kripke, tra le altre argomentazioni, ne adduce una che prende la forma di un esperimento mentale. Immaginiamo che il teorema di Gödel sia in realtà il frutto del lavoro di un certo Gianni. Il teorema è chiamato ‘di Gödel’solamente perché il Sig. Gödel è entrato in possesso del manoscritto redatto da Gianni e lo ha spacciato per suo. L’esperimento è proposto proprio per mostrare che il nome‘Gödel’, dai più conosciuto solo in relazione al famoso teorema, secondo la teoria tradizionale del riferimento, dovrebbe stare per ‘quello che ha inventato il teorema’, ovvero altrimenti riferirebbe a Gianni. Ma, dice Kripke, ovviamente non è così, è evidente che noi, quando parliamo di Gödel, non ci stiamo riferendo a Gianni. Kripke si appoggia al senso comune. Ma è davvero solido l’appoggio?

Un esperimento mentale, per essere accettabile, deve necessariamente soddisfare almeno questi due requisiti: (a) poggiare su intuizioni accettabili; (b) non creare delle contraddizioni logiche. Ora, il requisito (a) è controverso, dal momento che non è sempre chiaro quando un’intuizione è accettabile: alle volte l’uomo si inganna nel credere intuitivamente evidente e accettabile qualcosa che invece non lo è. La questione dell’affidabilità delle intuizioni è il maggiore contributo e la ragione d’esistenza della cosiddetta filosofia sperimentale.

Nel caso dell’esperimento proposto da Kripke, il filosofo sperimentale andrebbe a indagare se è proprio vero che ‘noi’, quando parliamo di Gödel, non ci stiamo riferendo a Gianni. È quello che hanno fatto Machery et al. (2004). Lo studio da loro condotto dimostra che le intuizioni a proposito del riferimento variano culturalmente: i soggetti americani (occidentali), di fronte a situazioni con una forma del tutto simile a quella dell’esperimento mentale proposto da Kripke, rispondono nel modo che il logico americano avrebbe ritenuto evidente e ovvio, mentre i soggetti cinesi (asiatici) hanno delle intuizioni diverse, più consonanti con la teoria tradizionale di Frege e Russell. Uno studio del genere, se può certo invalidare un argomento a supporto della teoria di Kripke, invalidando la presunta ovvietà dell’intuizione su cui si basa, ad opinione di chi scrive, non riesce affatto ad invalidare la teoria di Kripke.

Un altro lavoro interessante (e fin troppo conosciuto) è quello di Knobe (2003a, 2003b) che mostra come le valutazioni di tipo morale possono influire sull’applicazione di alcuni concetti della psicologia del senso comune (ad esempio il concetto di intenzionalità).

Più in generale la filosofia sperimentale porta questo messaggio: la filosofia, se vuole essere rigorosa, deve (a) passare al vaglio critico e scientifico le intuizioni su cui si appoggia nei propri ragionamenti, (b) conoscere il dato psicologico per evitare di proporre teorie psicologicamente implausibili.

Chiudo con una nota critica. Trovo improprio e confuso l’uso della formula ‘filosofia sperimentale’ per designare un nuovo metodo d’indagine filosofica o anche solo un nuovo messaggio di rinnovamento trasmesso alla filosofia. Non mi pare sia sorta una nuova disciplina, o un nuovo campo del sapere; semplicemente alcuni filosofi si stanno impegnando per rinnovare i modi dell’argomentazione filosofica. Niente di più, niente di meno.

Si segnalano alcuni siti dedicati alla filosofia sperimentale e dintorni:

1) http://www.x-phi.org/

2) http://www.philosophyexperiments.com/

3) http://epi.arizona.edu/links.html

4) http://pantheon.yale.edu/~jk762/ExperimentalPhilosophy.html

5) http://eerg.buffalo.edu/

6) http://experimentalphilosophy.typepad.com/experimental_philosophy/


Bibliografia

– Appiah, K. (2007). The New New Philosophy. The New York Times. (http://www.nytimes.com/2007/12/09/magazine/09wwln-idealab- t.html?pagewanted=1).

– Bokulich, A. (2001). Rethinking Thought Experiments. Perspectives on Science. 9, pp. 285–307.

– Brown, J. & Fehige, Y. Thought Experiments. The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Fall 2011 Edition). Zalta (ed.), URL = http://plato.stanford.edu/archives/fall2011/entries/thought-experiment/

– Brown, J. (1991). The Laboratory of the Mind. London: Routledge. Pg. 76.

– Cooper, R. (2005). Thought Experiments. Metaphilosophy. 36, pp. 328-346.

– Dennett, D. (1995). Intuition Pumps. In J. Brockman (ed.), The Third Culture, New York et al.: Simon & Schuster, pp. 181–197.

– Duhem, P. (1913). La théorie physique son objet et sa structure. 2nd edition, Paris:  Chevalier & Rivière, tr. eng. P. Weiner, 1960, Aim and Structure of Physical Theory, Princeton: Princeton University Press.

– Gendler, T. (1998). Galileo and the Indispensability of Scientific Thought Experiment. British Journal for the Philosophy of Science. 49, 397-424.

– Knobe, J. (2003a). Intentional Action and Side Effects in Ordinary Language. Analysis. 63, pp. 190-193.

– Knobe, J. (2003b). Intentional Action in Folk Psychology: an Experimental Investigation. Philosophical Psychology. 16, pp. 309-324.

– Knobe J., Nichols S. (2008). Experimental philosophy. Oxford: Oxford University Press.

– Kripke, S. (1972). Naming and Necessity. In Davidson, Harman (pp. 253-355); trad. it. Nome e necessità. Boringhieri, Torino 1982.

– Kuhn, T. (1981). A Function for Thought Experiments. In Scientific Revolutions, edited by Hacking, 6–27. Oxford: Oxford University Press. First published in 1964.

– Mach, E. (1905). Über Gedankenexperimente. In: Erkenntnis und Irrtum, Leipzig: Verlag von Johann Ambrosius Barth, pp. 181–197. Translated by J. McCormack, in Knowledge and Error, Dordrecht: Reidel, pp. 134–147.

– Machery, E., Mallon, R., Nichols, S., Stich, S. (2004). Semantics, Cross-cultural Style. Cognition. 92, 3, pp. B1-B12.

– Marraffa, M. (2010). La neuroetica: due perplessità. Giornale Italiano di Psicologia. 4, pp. 809-814.

– McAllister, J. (1996). The Evidential Significance of Thought Experiments in Science.  Studies in History and Philosophy of Science. 27, pp. 233–250.

– Norton, J. (1991). Thought Experiments in Einstein’s Work. In Thought Experiments in Science and Philosophy, edited by Horowitz & Massey, 129–48. Lanham, Md.: Rowman and Littlefield.

– Parfit, D. (1987). Reasons and Persons. Oxford: Clarendon Press. (vedi esperimento mentale della divisione della persona a modo di un’ameba).

– Popper, K. (1959). On the use and misuse of imaginary experiments, especially in Quantum Theory. In The Logic of Scientific Discovery, London: Hutchinson, 442 -456.

– Rescher, N. (1991). Thought Experiments in Presocratic Philosophy. In T. Horowitz and G. Massey (eds.), Thought Experiments in Science and Philosophy, Lanham: Rowman & Littlefield, pp. 31–42.

– Sorensen, R. (1992). Thought Experiments. Oxford: Oxford University Press.

– Wilkes, K. (1988). Real People: Personal Identity without Thought Experiments. Oxford: Oxford University Press.


[1]  L’uso dell’esperimento mentale è così generalmente accettato nella scienza. Pertanto la posizione detrattrice e restrittiva di Duhem (1913; pp. 304-311), che appunto condanna l’uso dell’esperimento mentale nel processo di conoscenza scientifico, è decisamente minoritaria.

[2] Altre definizioni, seppur insoddisfacenti, perché non generalizzabili ai diversi tipi di esperimenti mentali usati nella scienza e nella filosofia o perché più in generale problematiche (vedi Cooper, 2005), sono state proposte da Kuhn (1981; 1964), Norton (1991), per cui ogni esperimento mentale è un argomento, Brown (1991, p. 76), che propone una visione platonica, e Sorensen (1992), che recupera la visione di Mach (1905) categorizzando gli esperimenti mentali come veri e propri esperimenti (ovvero esperimenti reali = esperimenti mentali, dal momento che i due termini condividono molte e basilari caratteristiche).

[3] Da non sottovalutare a proposito è il problema della sottodeterminazione.


Francesco Margoni

Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive dell’Università di Trento. Studia lo sviluppo del ragionamento morale nella prima infanzia e i meccanismi cognitivi che ci permettono di interpretare il complesso mondo sociale nel quale viviamo. Collabora con la rivista di scienze e storia Prometeo e con la testata on-line Brainfactor. Per Scuola Filosofica scrive di scienza e filosofia, e pubblica un lungo commento personale ai testi vedici. E' uno storico collaboratore di Scuola Filosofica.

2 Comments

  1. Pio Pio 25 Febbraio, 2012

    Peccato che di filosofia sperimentale in italia se ne parli veramente poco e che testi divulgativi in lingua italiana non ce ne siano.
    Però sarei molto interessato all’argomento della filosofia sperimentale che ho appreso in questa pagina e sulle pagine della rivista “Scienze” numero 522 febbraio 2012.
    Però se ci fossero interventi nuovi sulle pagine del vostro sito o l’uscita di pubblicazioni italiane in merito all’argomento, sarebbe cosa molto gradita essere aggiornato in qualche modo al mio indirizzo mail pio.sapone@libero.it.
    Grazie, e buon proseguimento.

  2. Giangiuseppe Pili Giangiuseppe Pili 28 Febbraio, 2012

    1) Di filosofia sperimentale in Italia si parla poco, come di gran parte della filosofia anglosassone e, in generale, di filosofia analitica. Ciò per disfunzioni tutte istituzionali e per ragioni di spinta sociale. Questo è testimoniato addirittura da internet, nel quale la libertà di espressione dovrebbe essere più trasversale e meno vincolata alle istituzioni. Ma la verità è che l’interesse verso il dibattito analitico e, dunque, anche sperimentale in senso ampio è molto basso.
    2) Sulla filosofia sperimentale c’è, però, da domandarsi quanto essa sia un’etichetta per un contenuto nuovo, piuttosto che un nuovo nome per un vecchio contenuto. Come anche viene segnalato nell’articolo, sarei propenso a considerare la “filosofia sperimentale” come un prolungamento naturale e usuale della filosofia. Tutti i filosofi fanno “filosofia sperimentale”, basti pensare all’esempio di Socrate…
    2.1) La vera “novità” consiste nell’idea di fissare in qualche modo rigoroso quelle che sono le vere “intuizioni comuni” e di non lasciare che sia il filosofo a stabilire cosa sia il “senso comune”. Questo approccio è effettivamente innovativo, sebbene abbia molti limiti. Innanzi tutto, il senso comune cosa è? E’ l’insieme delle credenze condivise da una comunità linguistica? E’ l’insieme delle intuizioni di una comunità linguistica? In ogni caso, esso è determinato da molti fattori disgiunti e contingenti, soggetti alla variazione del tempo e della società… probabilmente, parlare di un unico “senso comune” è fuorviante in senso molto forte. Faccio un esempio: all’epoca del 1600 un pazzo non era un essere “anormale” perché non esisteva il senso di “normalità” così come lo intendiamo oggi. Le intuizioni che regnavano sulla follia erano molto diverse da quelle che abbiamo oggi. Motivo per il quale il “senso comune” della società del seicento era molto diverso da quello attuale.
    2.2) Se la filosofia sperimentale non vuole diventare paradossale e, soprattutto, limitata da un punto di vista filosofico e teorico, deve superare l’ostacolo del suo stesso soggetto, cercando di chiarire una metodologia e uno scopo unificati. Fino a questo momento, a quanto pare, essa sembra essere una disciplina vecchia con un nome nuovo.

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