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Spiegazione della prova ontologica di San Anselmo

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Anche La prova ontologica spiegata ad un amico


La proposta di Anselmo si basa sui due significati distinti del verbo “essere”: presenza e essenza[1]. Una proposizione vera o è suffragata dai fatti oppure è vera indipendentemente da quelli: la distinzione di Kant è chiara. Esistono proposizioni sintetiche e proposizioni analitiche. Le proposizioni analitiche sono le deduzioni logiche a partire da premesse (2 + 2 = 4 è una proposizione analitica giacché è un’inferenza dalle premesse dell’algebra, la definizione di numero e di somma algebrica). Le proposizioni sintetiche nascono dall’esperienza: “Oggi c’è il sole” è vera se e solo se c’è effettivamente il sole.

Nei vari tentativi di dimostrare l’esistenza di Dio, si è sempre privilegiato l’aspetto “analitico” giacché esso propone una dimostrazione indipendente dalla mutevolezza dei dati di senso e dipende esclusivamente dalle premesse del discorso.

Anselmo propone di definire Dio come “l’essere di cui non si può pensare il maggiore”. Per “Essere” si può intendere genericamente un’entità definita dalle sue stesse proprietà. Per quanto riguarda il predicato “di cui non si può pensare il maggiore” è, forse, un predicato senza senso, cioè a cui non corrisponde alcun che dal momento che si mischia una proprietà soggettiva (non si può pensare) a una oggettiva (maggiore) e, soprattutto, è un predicato da cui non nasce una proposizione falsificabile (in questo senso, il predicato non è definibile attraverso un procedimento controllabile e finito di passi ma infinito). Ad ogni modo, presentiamo qui la sua idea.

Se di un lago si può pensare un’entità più grande (il mare), se del mare si può pensare un’entità più grande (l’oceano) se dell’oceano si può pensare un’entità più grande, di Dio non si può pensare un’entità più grande, cioè esso non ha limiti. L’essere è sia presenza che essenza. Se l’essenza di Dio (cioè l’insieme delle sue proprietà) è espressa dalla proposizione “Dio è l’essere di cui non si può pensare il maggiore” allora essa implica la “presenza”. Se di Dio non si potesse predicare che esiste (esiste come si usa per dire “il mio computer sta sulla scrivania”) allora sarebbe limitato. Ma questo contraddirebbe la sua stessa definizione, dunque, Dio esiste necessariamente. La “necessità” nasce dalla relazione “essenza-presenza” dove l’essenza implica la presenza.

Questa dimostrazione è valida solo per Dio, essendo tutte le altre entità a lui inferiori, ovvero, limitate.

E’ curioso osservare come questa dimostrazione dell’esistenza di Dio sia in contraddizione con la concezione “credi per capire”: se io conosco Dio attraverso una dimostrazione logica allora io lo conosco attraverso la ragione. Ma ciò implica che non lo stia conoscendo attraverso la fede. In altre parole io non “credo” ma “so” che Dio esiste! E qui non siamo di fronte ad un paradosso, ma ad una vera e propria contraddizione!

Mediterraneo


[1] Per le due definizioni, rimandiamo alla scheda presente in “Parmenide”.


Giangiuseppe Pili

Giangiuseppe Pili è Ph.D. in filosofia e scienze della mente (2017). E' il fondatore di Scuola Filosofica in cui è editore, redatore e autore. Dalla data di fondazione del portale nel 2009, per SF ha scritto oltre 800 post. Egli è autore di numerosi saggi e articoli in riviste internazionali su tematiche legate all'intelligence, sicurezza e guerra. In lingua italiana ha pubblicato numerosi libri. Scacchista per passione. ---- ENGLISH PRESENTATION ------------------------------------------------- Giangiuseppe Pili - PhD philosophy and sciences of the mind (2017). He is an expert in intelligence and international security, war and philosophy. He is the founder of Scuola Filosofica (Philosophical School). He is a prolific author nationally and internationally. He is a passionate chess player and (back in the days!) amateurish movie maker.

6 Comments

  1. FrancescoG FrancescoG 22 Ottobre, 2020

    Obietto però che forse nella contraddizzione finale “credi per capire”; di fatto Anselmo voglia premettere che se ipotizzi l’esistenza di un dio, ti poni già nell’ipotesi di “creder-ci”, in senso verbale.
    Ovvero che: il sapere razionalmente che dio esiste, rende strano o è opposto al dire che tu non possa credere che esiste un dio.
    In sintesi sta tutto nel verbo ‘credere’, che magari presupponeva già al tempo un atto di fede.

    • Redazione Redazione 24 Ottobre, 2020

      Gentile Francesco,

      Beh… sinceramente non penso. Alternativamente, perché volere una dimostrazione valida a priori dell’esistenza di Dio? Se fosse una questione di pura fede, non ci sarebbe alcuna scommessa logico-filosofico-teologica qui. Quindi, credo che Anselmo ovviamente già assumesse l’ovvietà dell’esistenza di Dio almeno come dogma di fede. Ma il problema non è perché lui o qualcuno ci “creda” (ovvero lo assuma come vero indipendentemente dalle evidenze empiriche). Il problema è il volerlo dimostrare filosoficamente e quindi con i puri strumenti della ragione.

      Grazie per aver posto il quesito,

      Giangiuseppe

  2. Silvio Silvio 4 Aprile, 2022

    Dio non è “dimostrabile” nel senso comune matematico, empirico. Se fosse “dimostrabile” non sarebbe dio, e allora sì, ci sarebbe contraddizione nella intuizione di Anselmo, infatti, Anselmo stabilisce sul piano logico una successione concettuale necessaria che nulla toglie alla fede dal momento che Dio è incontenibile quindi non può essere “definito” in senso proprio tale che la mente possa averne, del suo essere, una percezione plastica, come per es. la certezza che esista Roma. La “prova ontologica” anselmiana si limita a cogliere concettualmente la necessità di attribuire a Dio l’Essere se lo concepisco come Dio, dunque solo un limitato approccio razionale e astratto che non soddisfa la mancanza di fede. Dio si fa “conoscere” solo attraverso l’esperienza personale interiore che presuppone un atto di fede.

    • Redazione Redazione 6 Aprile, 2022

      Ciao Silvio,

      Grazie per il commento! Beh, però, la sfida di Anselmo *consiste* nel voler dimostrare l’esistenza di Dio. Ed è tale l’idea tecnica che infatti non è l’unico. Sostanzialmente tutti i filosofi della modernità razionalisti accettano una versione o un’altra della dimostrazione. Il caso più clamoroso è Spinoza (che ne accetta una versione rivista da Cartesio), perché egli era di origine non cristiana e, dunque, meno incline a doverne accettare le conseguenze in termini filosofici. Kant tentò di mostrare che tale dimostrazione è basata su delle premesse che infatti vanno ben oltre ciò che la ragione (umana – o simil umana) può “dimostrare”. Non essendo Dio un concetto derivato dall’esperienza (non è un fatto) né un concetto puro della ragione (e quindi vero indipendentemente dalla ragione) di esso si può dire sostanzialmente qualsiasi cosa (purché non sia contraddittoria. Ma pur rimanendo nella consistenza puramente logica, di Dio infatti si può predicare molto lo stesso). Ora, nonostante Kant, Hegel e altri hanno accettato la versione “dimostrativa” di Anselmo. Fino ad arrivare a Godel, che tentò di dimostrare l’esistenza di Dio all’interno di un sistema logico-modale la cui plausibilità lascia sempre spazio all’immaginazione, essendo ogni logica vincolata e limitata alle premesse. Una visione di Dio potrebbe essere, in termini modali, l’insieme dei mondi possibili. Infatti, di tale “insieme di mondi possibili” non si sa cosa sia il referente né come intenderlo (come anche la nozione stessa di mondo possibile).

      Quindi, Anselmo ha un grande merito nella storia (e nella) filosofia, che è proprio quello di aver preteso di poter dimostrare analiticamente Dio. Poi, è sempre stata mia modesta opinione che se Dio fosse dimostrabile, allora nessuna fede avrebbe alcuna ragion d’essere esattamente per il fatto che Dio non sarebbe in alcun modo ragione di fede ma, appunto, di pura ragione. Ma questa era la sfida di Anselmo.

      Grazie per il gradito commento,

      Giangiuseppe

  3. Gianni Gianni 13 Ottobre, 2022

    salve a tutti. Vorrei precisare quanto segue:
    1. Anselmo non intende intaccare le prerogative della fede. La fede basta a se stessa.
    2. Il problema nasce quando non si ha fede e si afferma che Dio non esiste
    3. Anselmo si rifà proprio al salmo 13«lo stolto disse in cuor suo: Dio non esiste» (Salmo 13,1, e Salmo 52,1) nel contrastare la pretesa assurda dell’ateo.
    4. Se l’ateo non ha fede, in quanto uomo avrà la ragione che se rettamente usata porta alla dimostrazione dell’esistenza di Dio a partire dalla sua definizione.

    • Redazione Redazione 14 Ottobre, 2022

      Caro Gianni,

      Grazie per il commento!
      (1): validato.
      (2): validato.
      (3): ammetto di non poter validare con la mia sola memoria dei manuali, non ho letto Anselmo direttamente. Ma è chiaramente possibile.
      (4): questo è quello che vorrebbe Anselmo, naturalmente. Il problema è, per come la vedo io, che se Dio è dimostrabile, la fede non serve. Ma se la fede non serve, allora perché invocarla in (1-3)? Di fatto (4) segue indipendentemente dalle assunzioni, come si vede bene perché l’ateo non le accetta di principio. Quindi, il paradosso che ci ho sempre visto io, è che se Dio è dimostrabile attraverso la ragione “rettamente” usata, allora la fede cade di importanza. Ma questo è esattamente il contrario dell’obiettivo di colui che, in fede, crede di dover dimostrare. Se non in questo articolo, questo tema è stato affrontato da qualche altra parte nel blog.

      Comunque, penso che possiamo essere d’accordo sulla tua assiomatizzazione e che (4) è indipendente da (1-3) e che quindi è necessario ma ha conseguenze. Aggiungo velocemente che vedo problemi nella nozione di “avrà la ragione che se rettamente usata…” non tutti son d’accordo sulla validità della prova, ma il riconoscimento di validità richiede l’uso della ragione, quindi il fatto solo di avere la ragione e usarla bene, non comporta la conseguenza necessaria di accettare la prova in sé come valida, sebbene sia già sufficiente per rifiutarla.

      Un caro saluto e grazie per l’interessante commento.

      G

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