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Parmenide – Vita e opere

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Consigliamo – Eraclito – a cura di Giangiuseppe Pili e l’intervista al Professor Tagliagambe


Vita

Di una cosa si può star certi, della sua esistenza, che sembra poco ma è già tanto: nacque ad Elea, colonia focese sulle coste dell’attuale Campania, attorno al 510 a.C.. Lì visse, studiò, divulgò il suo pensiero.

Fu forse discepolo di Amina, pensatore pitagorico, altri dicono che invece il suo maestro fu Senofane, ma entrambe le possibilità non si possono escludere, nella misura in cui il suo pensiero si discosta abbastanza tanto dalla visione pitagorica che di Senofane. Possiamo solo congetturare. E sempre di una congettura si tratta quando si dice che il suo pensiero abbia subito l’influenza della filosofia di Eraclito. In questo senso è dibattuto il fatto che visse prima l’uno o l’altro: c’è chi sostiene addirittura il contrario, cioè che fu Eraclito ad essere influenzato da Parmenide e ciò mostra a quale livello di incertezza stiano le nostre ipotesi.

Sappiamo con certezza che scrisse un trattato di filosofia in versi, esametri, “Sulla natura” del quale abbiamo i primi trenta versi ed in totale i frammenti rimasti sono centocinquantaquattro. L’opera è divisa in due parti fondamentali più un prologo, pervenutoci interamente. Nella prima parte si parla della verità e della realtà agli occhi del vero: la via dell’essere e della verità. Nella seconda parte si parla delle opinioni dei più: la via dell’opinione e del falso.

Opere

Scrisse un’opera “Sulla natura” di cui ci sono pervenuti centocinquantaquattro frammenti. Sino ad Aristotele tale opera esisteva integralmente, tuttavia essa non ci pervenne attraverso Aristotele e i suoi successori, ma attraverso un’altra linea di trasmissione. Oggi, purtroppo, si ha quasi la certezza di una sua perdita definitiva.

 

Schema di ragionamento

Ipotesi P(armenide) 1: l’arché, principio primo di tutte le cose, è l’essere.

Inferenza. Se il principio primo di tutte le cose è l’essere, se tutte le cose sono essere allora di tutto si può predicare che è ( essere ).

Tesi PI: dunque di tutto ( si può predicare che ) è ( essere ).

Ipotesi P2: l’essere-è.

Specifica a: che poi l’ipotesi si può derivare dalla tesi PI.

Specifica b: per comprendere da dove Parmenide possa aver inferito che l’essere sia ciò che unifica  tutto, ciò che esiste realmente prendiamo queste affermazioni:

l’essere cane è un mammifero quadrupede della famiglia dei canidi.

l’essere umano è animale dotato di ragione.

l’essere barca è galleggiare sulle acque.

l’essere acqua è un elemento materiale da cui tutti i viventi traggono la vita.

l’essere terra è un elemento materiale pesante su cui tutti poggiano.

Se guardiamo bene, notiamo subito che tutto ciò che v’è di comune tra le varie espressioni è che l’essere è. Lo facciamo vedere mettendo alcune parentesi:

l’essere ( cane ) è ( un mammifero quadrupede della famiglia dei canidi ).

l’essere ( umano ) è ( animale dotato di ragione ).

l’essere ( barca ) è ( galleggiare sulle acque ).

l’essere ( acqua ) è ( un elemento materiale da cui tutti i viventi traggono la vita ).

l’essere ( terra ) è ( un elemento materiale pesante su cui tutti poggiano ).

Naturalmente si possono fare infiniti esempi, ma per far capire il ragionamento dovrebbero bastare questi.

Se ora togliessimo le parentesi noteremmo che tutto ciò che rimane è solo l’espressione “l’essere è” e, in questo senso, è ciò che tra tutte le affermazioni c’è di comune ( e ciò, a prescindere poi dalle determinazioni ontologiche, è vero! ).

Parmenide a questo punto avrà notato che di tutte le cose sempre si dice che sono. Da qui egli ne trae una conseguenza ontologica: l’essere è. Da solo questo enunciato si può dire che l’essere è uno, è immutabile ( in quanto anche al variare delle sue determinazioni egli, in quanto unità, non varia ), è eterno, è perfetto, è immateriale.

Specifica c: la filosofia, è bene saperlo, si comporta un po’ come la fisica moderna: ad ogni nome corrisponde una cosa che non sempre ha lo stesso significato nel senso comune. Dunque qui proponiamo la definizione di alcuni termini che spesso usiamo o inconsapevolmente o con significati diversi da quelli che usava il filosofo in questione.

Immutabile: ciò che non varia al variare delle sue singole parti ( vedi anche la voce “Mutabilità” ).

Mutabile: ciò che varia per quantità e qualità. La quantità è la dimensione, la grandezza materiale di un oggetto, la qualità è la sua forma. Ciò che cambia o diminuisce o aumenta la sua grandezza, così, allo stesso modo, se una cosa muta o differisce per forma o ne acquisisce una diversa da quella precedente. Il movimento stesso è mutazione in quanto è, per i greci, determinato da una differenza quantitativa-qualitativa rispetto a ciò che una cosa era precedentemente ( vedi anche la voce “Immutabile” ).

Tempo: predicato di ciò che varia secondo il fluire degli eventi. Senza eventi non c’è tempo. In questo senso, il tempo fa parte della predicazione del mutevole: ciò che una cosa è adesso, non-era prima, dunque è cambiata. Un vecchio era giovane e il giovane sarà vecchio: questo cambiamento si esprime secondo il fluire del tempo. Perché una cosa sia eterna dovrebbe essere non nel-tempo ma al di là di esso ( vedi anche la voce “Eterno” ).

Spazio: predicato di un oggetto definito in base alla sua estensione. Lo spazio è uno dei limiti dell’oggetto e, in questo senso, fa parte dei predicati del divenire. L’essere ora in uno spazio implica che un oggetto sia qui ma poteva essere anche là e, infatti, spesso le cose cambiano di ubicazione. In questo senso, lo spazio di un oggetto non è solo lo spazio occupato dall’oggetto ma pure una delle sue stesse de-limitazioni. In quanto poi le dimensioni ( spaziali ) dell’oggetto sono soggette al mutamento, anche lo spazio sarà soggetto al mutamento.

Eternità: ciò che non ha tempo nel senso che è al di fuori del tempo. Una cosa infatti non ha tempo è al di là di qualunque cambiamento e, per ciò, rimane sempre la stessa. L’eternità si può predicare solo di ciò che è al di là dell’apparente fluire delle cose ( vedi anche la voce “Tempo” ).

Perfezione: ciò che è compiuto, che non ammette ulteriore sviluppo in quanto già finito. La perfezione non è un predicato “estetico”, esso qualifica la condizione di un oggetto che non subisce ulteriore cambiamento. Ciò che non cambia è perché non necessita di ulteriore mutevolezza. Solo in quanto la mutevolezza è un concetto negativo la perfezione, per i greci, diventa un attribuzione di qualità positiva ( vedi anche sotto ).

Noi usiamo la parola “perfezione” per indicare una cosa che ha la massima qualità per ciò che le compete, ovvero ciò che svolge nel modo più efficiente possibile la sua stessa funzione: “quella pizza è perfetta” significa che riesce a trasmetterci il massimo del suo nutrimento e, con esso, il piacere. I greci usavano definire un oggetto come perfetto quando, semplicemente, era comple(ta)to. La perfezione, per loro, non era una attribuzione funzionale ( quindi relativa ad un soggetto ) all’oggetto ma era una caratteristica di una cosa in quanto tale.

Imperfezione: ciò che non ha raggiunto la completezza, ciò che per natura necessita di altro per esistere e, di conseguenza, muterà continuamente per ricercare una maggiore compiutezza. In quanto l’imperfezione implica una condizione costante di precarietà e incertezza, implica anche una costante mutevolezza. Per ciò, l’imperfezione è anche associata ad un valore negativo ( vedi anche sopra ).

Immateriale: ciò la cui essenza non concerne la materia. In altre parole, è ciò che per esistere non richiede alcun sostrato materiale.

E’ una delle questioni più dibattute nell’antichità quella della materialità-immaterialità del reale, ciò che realmente esiste. Per esempio, Aristotele senz’altro ammetteva l’esistenza di esseri immateriali, tuttavia ammetteva che le singole cose non sono forme di un’unica estensione, bensì di singole sostanze. Platone avrebbe sostenuto certamente che la materia esiste ma che, nello stesso tempo, essa non costituiva la vera essenza delle cose: le idee, la vera essenza dei sensibili ( cioè delle singole cose esistenti ) erano ciò che, se tolto, avrebbe tolto qualunque cosa che ricadesse sotto quell’essenza.

Così, se tolta l’idea di cane, ogni singolo cane semplicemente non sarebbe più esistito, il che, se pensiamo per esempio al DNA non è un’ipotesi così assurda come potrebbe sembrare ( tolto il DNA del cane al principio, anche tutti i cani non sarebbero più… ).

Parmenide rientra sicuramente in quella corrente di pensiero che concepisce pienamente l’essere come incorporeo: tutte le cose materiali sono apparenza le une distinte dalle altre e sono mutevoli. L’essere invece non muta né in base al tempo né in base allo spazio, né cambia quantità o qualità: dunque egli è sempre predicato di tutte le cose ma tutte le cose non sono un predicato dell’essere.

Si tenga conto che tutti questi termini sono predicati del mondo fisico, sono qualificazioni delle cose e solo in un secondo momento di qualità morali. In questo senso, bisogna pensare che i greci quando usavano parole come “perfezione” o “mutabile” non certo indicavano quello che indichiamo noi con le stesse parole. Le categorie mentali, per quanto comuni in certa misura e, dunque, comprensibili, erano diverse da quelle nostre. Di ciò bisogna tenere conto.

Se l’essere è tutto ciò che esiste, se il non-essere è ciò che non-esiste allora il non-essere non è.

Tesi PII: dunque il non-essere non-è.

Se l’essere-è e il non-essere non-è allora o l’essere-è e il non-essere non-è o l’essere-non è e il non essere-è. Ma l’essere non può non-essere e il non-essere non può essere ( per l’ipotesi P2, e la tesi PII ).

Tesi PIII: dunque l’essere-è e il non-essere non-è.

Specifica a: questa dimostrazione si basa sull’idea che non si possa predicare una possibilità col suo contrario, cioè non posso affermare ciò che è contraddittorio. Parmenide mostra come continuamente predichiamo l’essere delle cose. Dunque se le cose esistono allora sono. Questo “essere” delle cose è, appunto, ciò che tutte le cose hanno in comune.

Ma spesso ci contraddiciamo nella misura in cui affermiamo che le cose non-sono: una cosa è un tavolo e non è una sedia, non è di colore rosso ma marrone e così via. Dunque, il nostro modo di dire è contraddittorio: nel momento in cui dico che una cosa è non posso negare che essa sia. Dunque se l’essere-è non posso non ammettere che il non-essere non-sia, a meno di contraddirmi.

Ipotesi PIV: l’essere è il logos.

Ipotesi PIVb: il logos è pensiero-ragione-realtà.

Specifica a: il logos è la ragione stessa, ragione che è coincidente in Parmenide col pensiero e con la verità ( del logos abbiamo parlato molto approfonditamente per Eraclito, saremmo tentati di rimandare i lettori che desiderano maggiore chiarezza ).

Se l’essere è il logos, se l’essere-è, se il logos è la ragione, se la ragione coincide col pensiero, se il pensiero coincide con la realtà allora il logos è ciò che ci può far conoscere l’essere.

Tesi PIV: dunque il logos è ciò che ci può far conoscere l’essere.

Specifica a: anche perché il logos, in quanto coincidente col pensiero che coincide con l’essere, coincide con l’essere stesso.

Specifica b: da ciò possiamo trarre che l’essere sia qualcosa di ordinato e dunque perfetto, al di là dell’apparenza molteplice. Esso infatti permane nel suo ordine eterno e non varia né in base all’essenza, in quanto è sempre la stessa cosa, né in base alla presenza, ovvero alle sue qualità-quantità in quanto egli stesso non ammette né qualità né quantità.

La ragione stessa andrà oltre la molteplicità apparente e riscontrerà nel solo essere ciò che esiste.

In questo senso vogliamo far notare che, in realtà, non esiste né nascita né morte in quanto, per l’essere, tutto è sempre, o meglio, l’essere è. Se l’essere è allora va da sé che mai nasce, mai muore. Insomma, gli stessi esseri nascono e muoiono solo apparentemente, in quanto in realtà non esistono come distinti l’uno dall’altro ( per chi voglia approfondire questo tema si vedano anche sotto gli “Spunti di riflessione” in merito ).

Se l’essere-è e il non-essere non-è allora non posso dire che l’essere non è.

Tesi PV: dunque non posso dire che l’essere non-è.

Specifica a: qui ricordiamo ciò che abbiamo detto più volte. Per Parmenide è contraddittorio dire che una cosa è X-Y e non-è W-Z in quanto sto affermando e negando che quella cosa sia e ciò non è possibile. In questo senso Parmenide dirà “vieto sia di dirlo che di pensarlo”.

E al di là delle variazioni importanti, ancora oggi, nella vita quotidiana, condanniamo un politico, per esempio, qualora si contraddica o ce la prendiamo con la nostra ragazza in quanto, e ciò accade così spesso!, dica una cosa e dica l’esatto opposto senza che sia in grado di rendersene conto. Gli storici della filosofia sostengono che Parmenide era riuscito ad enunciare compiutamente il principio di non contraddizione grazie alla sua assidua frequentazione con le donne e politici![1]

Se l’essere-è e il non essere non-è, se non posso dire che l’essere non-è, allora devo usare delle espressioni di qualificazione negativa che non prevedano l’uso del “non”.

Tesi PVI: dunque devo usare delle espressioni di qualificazione negativa che non prevedano l’uso del “non”.

Specifica a: Parmenide dunque non è che non ammetta per la molteplicità un che di negativo: tutt’altro. La molteplicità, per quanto apparente, esiste e prevede molte limitazioni. Tuttavia, quando si parla dell’“essere” di qualcosa, non possiamo contraddirci. Il problema si risolve semplicemente usando delle espressioni positive ( anche quando affermano attributi negativi ) che non impongano una contraddizione.

Specifica b: per esempio, se devo dire che un cane non-è bello allora dirò semplicemente che è brutto. Se devo dire che una persona non-è perfetta dirò che è imperfetta. Se devo dire che una cosa non-è in quel luogo, dirò che è in un altro e così via. Parmenide dunque non ammette negazione dell’essere ma non negatività nell’apparenza.

Filosofia

Se si dovesse dare un titolo alla filosofia di Parmenide, uno possibile sarebbe questo: “l’essere e il non-essere, problema dell’autodeterminazione della ragione”. Un altro: “la nascita dell’ontologia”.

L’inchiesta parmenidea parte dal presupposto di una realtà che ha dei caratteri propri, completamente distinti e diversi dall’apparenza. Tale dissomiglianza radicale, tra ciò che appare superficialmente e la più profonda verità, trapassa anche alla dimensione stilistica della filosofia di Parmenide: egli utilizza un linguaggio astratto e ricco di metafore esplicative che mostrano la stessa difficoltà del filosofo a far penetrare un contenuto astratto anche a chi non ha seguito già il suo ragionamento. In questa profonda astrazione si può trovare una grande differenza con i pensatori che l’hanno preceduto che mai sono stati capaci di discostarsi dalla concretezza, se non altro e soprattutto, sul piano linguistico.

L’opposizione profonda tra verità e apparenza, tra ragione e opinione, già forte e presente in altri presocratici, arriva con Parmenide alla sua massima espressione e chiarezza. Egli prende atto della irriconducibilità del molteplice alla ragione e ne trae semplicemente le conseguenze.

Proprie del divenire sono la molteplicità delle cose, l’indefinita quantità e qualità degli enti. Le cose appaiono distinte l’una dall’altra, definite da limiti e ristrette nei loro confini, si distinguono per qualità che si predicano solo di loro stesse. E ancora sappiamo che i singoli enti hanno anche altre caratteristiche: la continua mutevolezza e la capacità  di muoversi. Continua mutevolezza e capacità di muoversi sono associate, come sappiamo, in quanto la capacità di muoversi non è da associare esclusivamente ad un singolo corpo, ma anche alle sue parti, che ne compongono la quantità e la qualità. Il corpo in movimento varia le sue quantità e le sue qualità e così muta di forma e dimensione. Le cose sono in punto e non sono in un altro, sono in un tempo e non sono in un altro: il divenire muta continuamente.

Divenire significa esser-in continua-potenza, essere incompiuto, incompleto, insomma, imperfetto. Il divenire è sempre un’esplicazione sempre parziale della natura di qualcosa: se sono perfetto, non cambio, rimango immobile. Gli esseri sono costretti al movimento proprio perché non-sono tutto, hanno costantemente bisogno di qualcosa dalla quale trarre nutrimento: quando andiamo al frigo lo  facciamo perché abbiamo fame, cioè siamo privi di sostanza che il nostro corpo reclama. Quando riteniamo di essere nel vero, le opinioni altrui non ci scalfiscono minimamente, allo stesso modo, se una cosa è perfetta, secondo i greci, tende a rimanere quella che è: la perfezione è immobile ed eterna.

In parole un po’ più complicate ma adatte, divenire significa esser potenzialmente qualcosa sia nel senso “esistenziale” del termine ( poter diventare nel mondo qualcosa di diverso da quel che si è ), sia nel senso spaziale ( poter essere in un altro luogo da quello in cui si giace ), sia nel senso logico ( nel senso che ogni qualità inerente a qualcosa può essere adesso, in questo momento, e non-essere domani ): il divenire è inerente tanto sotto il profilo “fisico”, spazio-temporale, che ontologico, dell’essere in sé delle cose.

Tutto questo è in contrasto con la ragione e più precisamente con il logos, che con Parmenide coincide con la verità stessa. La verità, il logos, di-svela la realtà dall’apparenza e mostra come tutto sia riconducibile ad un unico principio. In questo senso, l’apparenza non è solo di natura percettiva, ma pure di natura concettuale: tutti gli uomini credono in quell’apparenza fittizia dalla quale esprimono opinioni personali e discutibili, lontane da quella verità innegabile, indicibile e inaudita ( da altri tranne che dal filosofo ) che è propria del logos, verità che diventa voce dell’essere stesso, espressa attraverso il filosofo.

In Parmenide è completamente assente il concetto di evoluzione, di sviluppo, proprio della filosofia moderna, postcartesiana, ormai trapassata nel luogo comune. Il suo unico strumento per concepire un ordine, è porre un’unità al molteplice, concepito come un caotico magma imprevedibile, è dunque l’uso della ragione come criterio necessario e sufficiente per pervenire alla verità.

Per descrivere la relazione tra verità e il filosofo, Parmenide usa la metafora dell’apparizione della dea e che gli indica la giusta via e gli spiega come il senso comune sia erroneo. In ciò troviamo i punti cardinali della filosofia parmenidea: il principio secondo il quale non è la voce del filosofo da ascoltare, ma quella dell’essere. La coincidenza voce-filosofo/voce dell’essere è una coincidenza reale ma non logica. Così una cosa è dire: “è mia la verità” ( come se si potesse possedere ) e un’altra cosa è dire “sono io l’enunciatore della verità”. Nel primo caso si tratta di una “verità” singolare, privata, interna al soggetto e quindi ad esso relativa, nel secondo caso la verità è comune a tutti e bisogna solo saperla ascoltare per comprenderla. In questo ultimo senso, la verità non è appannaggio di una tautologia del soggetto ( è vero ciò che dico io ) ma è l’oggetto universale di ogni ricerca.

Oggi molti storcerebbero il naso, il senso comune rifiuterebbe quest’approccio antisoggettivistico, eppure è proprio quel che lo stesso senso comune fa quando vuole dimostrare qualcosa: l’uomo ha bisogno di “autorità” superiori a sé per dimostrare ciò che dice. Così quando i più dicono: “l’ha detto Tizio o Caio” sta proprio facendo appello a questa necessità dimostrativa. La dimostrazione è valida solo se non è relativa ma, presa per sé, è assoluta.

Non è un caso infatti che tanti rifiutino l’idea di cercare una verità proprio perché essi la concepiscono come riflessione di una visione soggettiva, in nulla oggettiva. In questa s-oggettività della verità, un relativismo universale della verità, si perde il contatto con la ragione ed è una conseguenza logica che coloro che affermano tale concezione solipsistica del vero siano persone incapaci di comprendere e facilmente si arrendono all’evidenza della loro tautologia: si zittiranno da sé perché incapaci di sondare la realtà e saranno del tutto incapaci di capire le altre persone.

Secondo Parmenide, esistono solo due vie nella conoscenza: la via del logos e la via dell’opinione. Una via è giusta e una è sbagliata. L’esser-giusto, per gran parte della filosofia antica ( da ciò probabilmente si discostano solo i sofisti e, forse, in una certa misura Aristotele ) significa tanto “esattezza” che “ragione-morale”.

Per Parmenide solo della prima si può ammettere l’esistenza e non della seconda: la via giusta-vera è la via dell’essere. Se infatti ammetto l’esistenza dell’essere allora non posso anche pensare, senza contraddirmi, che l’essere sia e non sia allo stesso tempo.

Una cosa è ( esiste, è-qualcosa ) e non si può dire null’altro. Parmenide per primo si limita ad esprimere, di fatto, un principio logico e ne trae le sue conseguenze: il principio di non-contraddizione. Non posso dire, senza cadere nell’assurdo, che una cosa esiste qui e adesso e non esiste più qui e adesso. Se ti dico che ho un cane e che non ho un cane o ti metti a ridere o chiami la neuro perché dev’essere partito qualche cosa nel cervello.

La seconda strada è la strada del mutevole e del cangiante, dunque dell’opinione. L’opinione è una credenza su qualcosa. Ma se io dico “io credo in X” sto affermando l’esistenza di “X” dunque sto ammettendo l’esistenza stessa di quel qualcosa. Subito Parmenide mi farebbe notare che quel qualcosa di cui credo l’esistenza è anche un non-essere: esso è qualcosa ma non-è molto altro. Dunque è non-essere, mi sto contraddicendo e quindi sto affermando un’assurdità.

Se dico “io credo che X sia” sto anche dicendo che “io credo che X non sia”-questo, quest’altro e quest’altro ancora. E ciò è proprio una contraddizione. In questo senso, una volta che ammetto l’esistenza dell’essere, e non posso dire che esso non sia in quanto lo affermo di continuo, allora non posso anche ammettere che esista una qualche forma di non essere. Se lo farò, mi starò contraddicendo.

Se c’è chi può mettersi a ridere per questo ragionamento, ci ragioni un po’ sopra e si renderà conto da solo che non c’è molto da ridere. Ma se non soddisfatto, voglio dire che questo ragionamento, di fatto, sarà un problema per tutti i filosofi antichi e, la distinzione tra dimensione logica e reale ( quella confusione dalla quale Parmenide genera poi tutta la sua filosofia ), avverrà solo con Kant: tenuto conto che Kant è nato nel 1724, pubblica la prima edizione de “La critica della ragion pura” nel 1781, saranno passati solo circa 2200 anni dall’enunciazione del problema da parte di Parmenide. Dunque, se tale problema ha riscosso tanto successo, merita un po’ di riflessione.

La strada della giustizia, indicata da Parmenide, è la strada stessa dell’essere che impone solo di dire ciò che è(siste) e null’altro. Il linguaggio è specchio fedele della realtà: la dimensione ontologica deve venire rispecchiata anche nella lingua. Il nulla non-è, è niente, dunque è una cosa che non esiste: così se ammettessi l’esistenza del nulla ammetterei anche l’esistenza del non-essere. Ma ho appena affermato che si può dire solo ciò che è, dunque mi contraddirei se affermassi anche l’incontrario. Come abbiamo visto, ciò non si può affermare.

Parmenide assume il principio di non-contraddizione sia sotto un profilo logico che sotto un profilo esistenziale: non esiste separazione tra la mente umana e il mondo. Per meglio dire, non esiste distinzione tra il pensiero e l’estensione: il pensiero, se guidato dalla ragione, coincide col ( pensiero del ) mondo. Così se nego una cosa in linea di principio, la nego anche in via di fatto. Per Parmenide ciò che esiste è il logos, dunque il pensiero ordinato, discorso ordinato: pensiero = realtà = ragione, tre aspetti di una stessa cosa.

A questo punto vien da sé che non si possa dire solo che l’essere-è, e basta perché la sua negazione sarebbe una contraddizione. Da qui il celebre imperativo parmenideo: non ti permetto né di dirlo né di pensarlo ( che l’essere sia qualcosa e non sia qualcosa ).

La conoscenza del reale stato di cose, che è il rifiuto di ogni realtà sensibile, è operata a partire dalla presa di coscienza della verità disvelatrice la quale annulla le determinazioni singolari e mostra l’essere per quel che è, ovvero come unità totale, pura perfezione, indivisibile, immobile, immutabile, eterna.

Il rifiuto del linguaggio comune in Parmenide è radicale ed è determinato dalla sua stessa filosofia. Ma non è solo critica distruttiva quella di Parmenide: egli propone una soluzione per un linguaggio affermativo: per parlare correttamente delle cose, bisogna evitare d’usare il “non” preferendo al “non” l’ “ά” privativa ( la nostra “a” di “asociale”;  o il nostro “i”+ consonante: irreale, immutabile, immateriale, irrazionale, incontrollabile ). In questo modo si definiscono anche le qualità negative, o affermative ma limitate, senza tuttavia definire l’essere come privato-di essere.

Concetti

Essere e non-essere, essere e verità, modi di comprensione: logos e opinione; verità e opinione, riduzione della realtà alla razionalità e rifiuto della sensibilità come forma di conoscenza adeguata dell’essere, prima enunciazione del principio di non-contraddizione, abitudine e esperienza; essere-tempo-divenire; linguaggio comune e linguaggio filosofico.

Riferimenti

Per una comprensione adeguata di Parmenide e un’ottima bibliografia, segnaliamo il solito Manuale di Storia della filosofia 1, Adorno, Gregory, Verra alla voce “La nuova problematica tra il VI e il V secolo a.C. Eraclito, Parmenide e Zenone”.

Citazione dei testi di Parmenide da I presocratici, trad. it. Di A. Pasquinelli, Einaudi, Torino 1958, pp. 226-230. Da Trombino M., La filosofia greca arcaica e classica ( Manuale I.I ). A cura di Panaccione E., Trombino M., Villani M.. Poseidonia editore. Pp 237-238.

Aristotele, Primo libro della “metafisica”. A cura di Rossito e Berti. Editore Laterza. P.80 ( Capitolo 3,984 a-b dell’edizione integrale dei testi di Aristotele ).

Platone, L’Apologia di Socrate, Acquarelli editore. A cura di Angela Cerinotti Pp.52-53-54.

 

« Le cavalle che mi portano, fin dove vuole il mio cuore,

anche ora i condussero via, dopo che le idee mi ebbero guidato

sulla via molto famosa, che per ogni città porta l’uomo che possiede il sapere.

Là venni condotto; la mi portarono le molto avvedute cavalle

Tirando il carro, e le fanciulle additavano il cammino.

L’asse infuocato nei mozzi mandava un suono stridente

( poiché da ambo i lati era tratto

da due ben curvati cerchi ) ogni qual volta le figlie del Sole,

abbandonate le case della Notte, affrettavano il corso a guidarmi

verso la luce, liberando il capo dai veli.

Ivi è la porta che mette ai sentieri della Notte e del Giorno,

e ai due estremi la chiudono l’architrave e la soglia di pietra,

e la riempiono, in alto nell’etere, grandi battenti

di cui la Giustizia che molto punisce tiene le chiavi dell’alterno uso.

Ad essa allora le fanciulle rivolsero dolci parole

Ed abili la convinsero a toglier per loro in un baleno

La sbarra che chiude la porta; e questa si spalancò

Aprendo l’immenso vano dei battenti e facendo girare

L’un dopo l’altro nei loro incavi i cardini gravi di bronzo

Fissati con perni e chiodi; e di là prontamente, attraverso la porta,

le fanciulle guidarono carro e cavalli lungo la strada.

E benigna la dea m’accolse, e mi prese la destra e così parlò dicendomi queste parole:

“O giovane condotto da guide immortali

che vieni alla nostra casa portato dalle cavalle,

sii il benvenuto! Poiché non fu attraverso il destino

a mandarti per questa via ( che è invero lontana dall’orma dell’uomo ),

ma la legge divina e la giustizia. Ma ora devi imparare ogni cosa

e il cuore che non trema della ben rotonda Verità

e le opinioni dei mortali, in cui non è vera certezza.

Ma tuttavia anche questo imparerai, come l’apparenza

Debba configurarsi perché possa veramente apparir verosimile, penetrando il tutto in tutti i sensi” ».

 

« Poiché non potrà mai aver forza di costrizione che sia ciò che non è;

ma tu allontana invece il pensiero da questa via di ricerca

e fa che l’abitudine nata dalle molte esperienze degli uomini non ti costringa

a diriger su questa strada l’occhio che non vede e il rimbombante udito

e la lingua, ma col solo pensiero esamina e decidi la molto dibattuta questione

che da me ti fu detta. E rimane ormai da parlare solo della via

che dice che è. Su questa vi sono moltissimi segni:

essendo ingenerato è anche imperituro,

poiché è integro nelle sue membra e saldo e senza un termine a cui tenda

E non p mai stato e non sarà mai, perché p ora tutto insieme nella sua compiutezza

uno, continuo. E infatti quale mai origine vorresti cercare per esso?

Come sarebbe nato, e da dove? Da non-essere non ti permetto

di dirlo, né di pensarlo. Poiché non v’è possibilità di dire o pensare

che non-è. E qual necessità poi dovrebbe averlo spinto

a nascer dopo o prima, se comincia dal nulla?

Così è necessario che sia in assoluto o che non sia affatto.

E neppure dall’essere la forza della convinzione potrà mai ammettere

Che nasca qualcosa di diverso da esso. Per questo né il nascere

Né il perire gli concesse Dike allentando i legami,

è o non è. E, com’era necessario, il nostro giudizio fu quindi

di abbandonare una delle vie perché impensabile e innominabile

( e infatti non è la strada della verità ), e che l’altra è ed è vera.

E come potrebbe l’essere esistere in futuro? E come potrebbe essere stato in passato?

Poiché se fu non è, e così non è se dovrà essere in futuro.

Così si estingue la nascita e la morte scompare.

E inoltre non divisibile, perché è tutto uguale:

né c’è in qualche parte un di più d’essere che possa impedirgli la contiguità di sé con se stesso,

né un punto in cui meno prevalga, ma è tutto pieno di essere.

per questo è tutto continuo: ché l’essere all’essere è accosto.

Ma immobile, costretto nei limiti di vincoli immensi

è l’essere senza principio né fine, poiché nascita e morte

furon respinte lontano, e le allontanò la vera convinzione.

Identico nell’identico luogo restando, giace in se stesso

e così vi rimane immobile, ché la forza imbattibile della necessità

lo costrinse nelle catene del limite che intorno lo avvolge,

poiché l’essere non può non essere compiuto;

infatti non manca di niente, perché, se fosse di qualcosa manchevole, mancherebbe di tutto.

La stessa cosa è pensare e il pensiero che è.

Ché senza l’essere in cui è espresso

non troverai il pensiero: nient’altro infatti è o lo sarà

al di fuori dell’essere, poiché di fatto la Moira lo vincolò

ad essere in tutto ed immobile; perché non sono che puri nomi

quelli che i mortali hanno posto, convinti che fossero veri:

divenire e perire, essere e non-essere,

e cambiar di luogo e mutare lo splendente colore.

Ma essendovi un limite estremo, esso è compiuto

Tutto intorno, simile alla massa di una rotonda sfera,

che dal centro preme in ogni parte con ugual forza: giacché

è necessario che non sia in questo o quel punto di un poco più grande o più piccolo.

E infatti non c’è un non-essere che gli vieti di giungere

A ciò che è a lui uguale, né un essere che dell’essere

Sia qui in misura maggiore là minore, poiché è tutto quanto inviolabile.

E infatti da ogni parte identico a se stesso, urta in ugual maniera nei suoi confini. »

Citazione da Parmenide ( vedi sopra i riferimenti bibliografici )

« Orbene, quelli che furono del tutto i primi a dedicarsi a questa trattazione e a dire che il sostrato è uno solo, non si sentivano imbarazzati di fronte a queste difficoltà; ma, tuttavia, alcuni tra coloro che affermano tale unicità, come se sconfitti da questa stessa indagine, affermano l’immobilità dell’Uno e dell’intera natura non solo relativamente alla generazione e alla corruzione ( questa, infatti, era un’opinione antica sulla quale tutti erano d’accordo ) ma anche relativamente [ 984 b ] ad ogni altro cangiamento: anzi è appunto quest’ultima cosa il contrassegno particolare del loro pensiero. A nessuno, pertanto, di quelli che affermano che tutto è unico, è accaduto di scoprire questa causa tranne che, forse, a Parmenide, e anche a lui solo in quanto egli pone non un’unica causa, ma in un certo senso, ne pone due; quelli, invece, che pongono più cause –quali, ad esempio, il caldo e il freddo, oppure il fuoco e la terra-, hanno maggiori possibilità di dirla (…).

E si potrebbe, d’altra parte, supporre che verso una tale soluzione propendesse per primo Esiodo o anche qualche altro che pose come principio, negli enti, l’Amore o il Desiderio, come, del resto, ha fatto anche Parmenide; anche quest’ultimo, infatti, presentando la generazione dell’universo dice che ( Afrodite ) in primo luogo

 

Amor concepiva tra tutti gli dei

 

mentre Esiodo afferma:

 

Nacque tra tutti gli dei il Caos primiero e sol dopo

Gaia dall’ampio petto…

Quindi l’Amor che su tutti i numi immortali risplende,

 

volendo significare che negli esseri è indispensabile la presenza di una certa causa capace di muovere e di raccogliere le cose. Si potrà decidere in appresso in che senso e a chi di costoro si debba assegnare la priorità di tali scoperte: ma, siccome nella natura si riscontra la presenza anche dei contrari delle cose buone –ossia la presenza non solo dell’ordine e della bellezza, ma anche del disordine e della bruttezza; anzi, le cose cattive sono più numerose di quelle buone e le cose di scarso pregio sono più numerose di quelle belle-, un altro filosofo introdusse l’Amicizia e la Contrsa, considerando rispettivamente ciascuna di queste come causa di ciascuna di quelle cose (…)

 

Da questa nostra rassegna si può sufficientemente capire il pensiero di quegli antichi che sostenevano la pluralità degli elementi della natura, ma ci sono anche alcuni i quali hanno concepito l’intero universo come se fosse un’unica natura, quantunque non tutti abbiano saputo fare, allo stesso modo, una buona esposizione o abbiano conservato il rispetto della natura. Alla nostra attuale indagine sulle cause non si addice, comunque una discussione intorno a costoro ( essi, infatti, pur presupponendo, come alcuni naturalisti, che l’essere sia uno, non ammettono allo stesso modo la generazione delle cose dall’uno come materia, ma si esprimono in modo affatto diverso, giacché quei naturalisti, almeno quando trattano della generazione dell’universo, fanno parola anche di un movimento, mentre costoro sostengono che l’universo è immobile ); ciò nonostante, però, non manca qualche punto che sia pertinente alla nostra attuale indagine. Pare infatti, che Parmenide intenda riferirsi all’uno inteso secondo la definizione, mentre Melisso a quello secondo materia ( e anche per questo motivo l’uno afferma che esso è limitato, l’altro che è illimitato ); Senofane invece, che fu sostenitore dell’uno prima di questi ( si dice, infatti, che Parmenide sia stato suo discepolo ), non fece alcuna precisazione, né sembra che esgli abbia avuto a che fare con la natura di nessuna di queste due cause, ma, mirando all’universo nella sua interezza, sostiene che l’uno si identifica con la divinità

Come abbiamo già detto, questi pensatori non devono essere presi in esame nella nostra attuale indagine, anzi, due, Senofane e Melisso, devono essere del tutto scartati, perché sono un po’ troppo rozzi; Parmenide, invece, sembra che, in qualche luogo, parli con maggior perspicacia, giacché egli, reputando che, al di fuori dell’essere, il non-essere non esiste affatto, è portato necessariamente a credere che l’essere è uno e nient’altro ( …) , ma poi, costretto a rispettare la realtà fenomenica, e ammettendo che l’essere è uno secondo la ragione ma molteplice secondo la sensazione, viene a porre anche lui, a sua volta, due cause e due principi, cioè il caldo e il freddo, o, in altre parole, il fuoco e la terra; e di questi egli inquadra il caldo dalla parte dell’essere e il freddo dalla parte del non-essere ».

Dalla Metafisica di Aristotele ( vedi anche i riferimenti bibliografici ).

Contenuti speciali

Principio di non contraddizione: la logica si sviluppa nella storia o è astorica?

Prima di Parmenide non è mai stato invocato così chiaramente la questione del principio di non contraddizione. Intanto dobbiamo farci due o tre domande: cosa è il principio di non contraddizione e quali sono le sue conseguenze?, il principio è stato “inventato” da Parmenide o “scoperto”?

Il principio di non contraddizione dice che non posso negare ciò che affermo né affermare ciò che nego. Un’altra enunciazione può essere in termini di possibilità: se una possibilità esiste allora non implica il suo contrario. Di conseguenza, una possibilità è impossibile qualora, esprimendola, implichi il suo contrario.

Il principio di non contraddizione non dice che non posso affermare che una definizione implichi due opposti, per esempio, “la maglia della Juventus è bianco nera”; ma che una definizione implichi il suo contrario: il contrario è la negazione della cosa stessa e, in questo senso, è opposta alla sua affermazione. Per esempio non posso dire “un pallone da calcio è una sfera e non è una sfera”. Dunque ciò non posso effettivamente affermare è che una cosa preveda tanto una proprietà che la sua contraria, per esempio se dico “un pallone da calcio è una sfera e un quadrato” posso riscrivere la frase così: “un pallone da calcio è una sfera e non è una sfera”, in questo caso le due proprietà, apparentemente diverse, si possono riscrivere l’una nei termini dell’altra. Gli opposti se negano solo se l’uno, riscritto nei termini dell’altro, diventa l’uno il contrario dell’altro e viceversa.

Il principio di non contraddizione ha conseguenze pratiche, non solo logiche ( giacché, per chi almeno conosce la logica, non esiste una cosa che sia logica e che sia anche priva di una sua dimensione pratica ): nella vita quotidiana noi usiamo continuamente questo principio per discriminare il vero dal falso ( se una cosa è contraddittoria è immediatamente falsa ), ma anche per valutare se una cosa è effettivamente possibile o meno:

“se metto questa pentola sul fuoco basso, bollirà tra dieci minuti?”

“Quella pentola è troppo grande e contiene troppa acqua, dunque se la metti su quel fornello non bollirà che tra un paio d’ore!”

Noi, nella nostra mente, prendiamo la nostra frase e la riscriviamo nei termini della seconda, notiamo che la nostra possibilità è negata e ne traiamo la conseguenza che essa è impossibile. A questo punto, vista la contraddizione, cerchiamo una soluzione. Ma è da notare che se non ci fossimo resi conto della contraddizione noi avremmo mangiato dopo ore un po’ di pasta…

Ma questo è solo un esempio ( e costruibili in questo modo sarebbero veramente tantissimi, tanti che potremmo facilmente scoprire che gran parte delle cose che diciamo sfruttano proprio questo principio ). Pensiamo poi alle categorie “si” e “no”: esse non fanno altro che esprimere o una contraddizione “no” o una affermazione “si”:

“Vuoi venire a mangiare con me?”

Se dico no voglio dire: “Non-voglio venire a mangiare con te”. Se dico si allora riaffermo ciò che l’altro ha detto: “si, voglio venire a mangiare con te”. Nel primo caso cosa abbiamo fatto? Abbiamo preso la possibilità affermata e l’abbiamo capovolta di valore e abbiamo affermato la sua assurdità ( che dunque, in questo caso, ha conseguenze pratiche reali, per esempio il fatto che io mi sia offeso con te perché mi hai snobbato… carogna! ).

In inglese viene addirittura insegnato ad esplicitare la contraddizione quando neghiamo qualcosa: “Do you want a cup of tea?”

“No, I don’t. Thank you a lot”.

Gli inglesi negano semplicemente riscrivendo all’incontrario l’ausiliare. E anche in matematica avviene la stessa cosa: 2 + 2 = 2 + 2. Ovvero 2 -2 + 2 -2= 0 e così 0 = 0. Prendiamo poi un numero come √-2: la radice di -2 è impossibile in quanto non esiste nessun numero che, elevato  un numero, di un numero negativo. Impossibile vuol dire proprio che, posta ogni possibilità essa sarà sempre contraddittoria.

Ho cercato di fare esempi per tutti i gusti, mostrando come il principio di non contraddizione sia sfruttato sempre e comunque. Il fatto da notare è tuttavia che esso non è interno al linguaggio, nel senso che posso costruire infinite frasi impossibili, equazioni assurde e così via. Tuttavia, esso è assurdo per la nostra attività intellettuale dalla quale poi deriva il nostro linguaggio.

Il problema che volevo sollevare però è questo: il principio di non contraddizione è stato enunciato con chiarezza da Parmenide e poi sostenuto dal suo simpatico amico Zenone. Ora, chiaramente questo principio doveva essere conosciuto non solo da Parmenide, senz’altro non fu il primo ad utilizzarlo. Ma la domanda è: esso è il risultato di una elaborazione culturale, dunque di una evoluzione storica oppure è sempre esistito ed è stato semplicemente scoperto nella storia?

Voglio far notare che le due cose sono molto diverse: una cosa è dire che una pietra esisteva già, una cosa è averla creata. Così mi domando se la logica sia effettivamente il risultato di una pratica piuttosto che di una realtà assoluta sopra di noi.

Parmenide la pensava senz’altro in questo secondo senso, così come Platone e moltissimi altri pensatori illustri. Per loro le verità logiche, matematiche e geometriche, erano al di là del tempo. La loro applicazione diventava temporale, non la loro essenza.

La mia idea è che queste regole, principi logici, siano nati a partire dalla storia, dagli usi linguistici e abitudini mentali che si sono poi inserite nelle menti e che hanno segnato poi una corrente di pensiero finendo poi per penetrare nella mente di una società intera.

Al principio il principio di non contraddizione non esisteva: ne sono testimonianze il fatto che Parmenide fu uno scoglio assoluto per tutti i pensatori greci successivi che dovettero comunque fare i conti col suo pensiero. Se egli avesse detto un’ovvietà, un Platone e un Aristotele non ci avrebbero pensato su due volte e avrebbero passato a qualcosa di più interessante. Aristotele, nonostante sia tanto sprezzante e impietoso nei confronti dei suoi predecessori non può fare a meno di discutere a fondo tanto nella fisica che nella metafisica il pensiero di Parmenide e i problemi da questo superati.

L’altra cosa che mi fa sospettare che il principio di non contraddizione sia diventato una verità solo dopo un certo tempo, è che non tutta la popolazione del mondo è abituata ad aver a che fare con tale principio. Ora, questa non è un’idea mia ma mi è stata suggerita da un uomo illustrissimo, filosofo dell’accademia dei Lincei e non so che altro crisma ( quello stesso che già un’altra volta mi è capitato di segnalare ); la popolazione femminile ( ma io direi anche gran parte di quella maschile ), spesso si “dimentica” di usare il principio di non contraddizione e afferma cose contraddittorie e senza rendersene conto. Ma la cosa che più mi disturba, parlo per me, in questi casi, è proprio che tale principio non è avvertito come discriminante di verità. Quante volte mi è capitato di dire a qualcuno di mia conoscenza:

“Hai detto che ascoltare musica di Shakira è meglio di ascoltare i Beatles o De Andrè”.

“Si”.

“Hai detto che la musica classica dei Beatles è più ricca della musica di Shakira”.

“Si”.

“Se mangi un cibo preferisci quello nutriente e buono o quello povero di nutrimento e gradevole?”

“Il primo”

“Allora vedi che ammetti che ascoltare i Beatles è meglio che ascoltare Shakira?”

“Che dici?, è meglio ascoltare Shakira…”

Ora, è ovvio che ci sia una contraddizione ma non è affatto ovvio né che essa sia riconosciuta né, ancora di più, che essa sia avvertita come discriminante del vero e del falso.

Lasciamo perdere l’ironia e prego di accettarla anche da parte di chi potrebbe prendersela: non sono certo del parere che le donne siano peggio degli uomini, penso anzi che, almeno in questo senso, il primato sia oggetto di una grande e millenaria contesa ed entrambe le fazioni se la giochino alla pari.

Penso però che il principio di contraddizione sia diventata una verità nella storia. Esso infatti è tanto usato nella vita quotidiana non perché esso sia una verità assoluta, ma perché è davvero utilissimo a chiarirci le idee su ciò che dobbiamo fare e che possiamo fare anche solo in linea di principio.

A questo punto, tale la sua validità, utilità tanto nella pratica della vita che del pensiero, sarebbe veramente assurdo negarne tanto la sua verità che la sua importanza. E tuttavia bisogna renderci conto, naturalmente secondo la mia modesta idea, che essa è comunque il frutto dell’attività umana, conseguenza di anni di evoluzione della vita della mente e non semplicemente il suo riflesso. Il fatto che la ragione esista e sia una gran cosa non significa ancora che tutti siano razionali!, perciò bisogna continuare sulla sua strada per far sì che ci si contraddica di meno e ci si accordi di più!

Essenza e presenza, la questione dei due modi di “essere”.

Una delle cose che, da che studio filosofia, mi sono reso conto è che i filosofi hanno imparato a usare due termini diversi per quel che normalmente diciamo con un solo verbo: quello “essere”. Le parole “essenza” e “presenza” possono essere riscritti nei termini del solo verbo “essere”: “essenza” = “ciò che una cosa è” = “la definizione di una cosa”, mentre “la presenza” = “l’esistere di una certa cosa nel mondo”.

Per esempio: “l’uomo è un animale sociale”, come vediamo fatta con il verbo essere, è la definizione dell’essenza di una cosa. La parola che abbiamo dedotto da questa nel luogo comune è, giusto per dirne una, “essenziale”.

Ma se dico: “quell’uomo è seduto sulla sedia” non voglio dire che la definizione di quell’uomo implica che stia seduto in una sedia, o che sia proprio in virtù del fatto che sia seduto su quella sedia, voglio dire che quell’uomo sta sopra una sedia.

Questa distinzione, che detta così sembra tanto banale, è implicita in tutta la riflessione filosofica ed è posta in modo anche più oscuro. E la cosa più divertente è che di essa non ho mai trovato una spiegazione esauriente da parte di nessuno: tutti i manuali di storia della filosofia ne parlano ma senza mai soffermarsi. Gli autori sono talmente abituati a tale distinzione sia concettuale che terminologica che non si sono mai posti il dubbio che altre persone possano trovare delle difficoltà in merito.

Iniziamo dalla questione dell’essenza. L’essenza di una cosa è ciò che definisce una cosa. Nell’enunciato “l’uomo è un animale sociale”, animale sociale è il definente, cioè ciò che mostra compiutamente il senso-significato della parola definita, l’uomo. Lasciamo perdere la questione se tale definizione sia “reale” o solo “logica” ma intanto prendiamo per buono che la definizione di una parola è l’enunciazione dell’essenza di un concetto tale che, se la definizione divenisse falsa o assurda, anche la parola e il relativo concetto diverrebbero false e assurde.

L’uso del verbo essere, in questo caso, è quello dell’ “=” in matematica ( per esempio X -2= 0, X = 2 significa proprio che al posto della “X” ci va il “2” in quanto “X” e “2” in questa relazione sono la medesima entità  ). Il verbo in questo caso è usato come qualificatore, come attributore di qualità: “questa cosa è rossa”, “questa pizza è buona”, “questa musica è di Beethoven” sono tutti usi possibili del verbo essere come esplicitatore di essenza.

Ma esiste anche un altro uso del verbo essere: quello di indicatore di “presenza” o “esistenza”. Quando dico che una cosa sta in un certo posto dico “questo computer è di fronte a me”. Con questa frase posso anche dire, in senso più astratto, che “questo computer esiste” nel mondo.

In questo ultimo significato l’essere non è tanto attributore di essenza, in quanto non dice affatto cosa sia un computer né qualifica il mio, ma indica semplicemente che esso esiste in un certo luogo e in un certo tempo: “questo computer è qui davanti a me” significa “questo computer esiste, sta qui e ora”. Con una sola frase ho dato tre coordinate fondamentali per far capire che 1) il mio computer è una cosa che esiste nel mondo, che sta nella mia scrivania, cioè in uno spazio preciso, e che sta ora nella mia scrivania, cioè in un tempo determinato.

Questo secondo uso del verbo essere è quello che prende il nome di “esistenziale” ( quello che in logica viene scritto con una “E” rovesciata di 180° ). L’uso del verbo esistenziale ci consente di visualizzare un oggetto nel mondo e di determinarlo.

I due diversi significati del verbo essere non vanno confusi e va tenuto bene a mente che una cosa è “l’essere essenziale” e “l’essere esistenziale”. Ed è interessante come la nostra lingua preveda, in un certo senso questa distinzione: l’essere esistenziale può essere anche detto come “stare”. Altre lingue hanno risolto in altro modo la delicata questione linguistica. Il latino usa solo una parola, il verbo “sum”. Lo spagnolo prevede proprio due verbi diversi per i due usi “estar” e “ser”: “Estoy muy byen”, “Yo soy en hombre”. L’inglese, come l’italiano, invece usa solo il verbo “to be”: “blu is beautiful”, “my computer is here”.

A questo punto possiamo trattare la questione da un punto di vista filosofico. Parmenide quando dice che l’essere-è indica sia che l’essere è ( senso essenziale ) sia che l’essere esiste ( senso esistenziale ), o no? Parmenide cosa fa? Egli opera una scissione netta tra l’essere e le cose: infatti quello che esiste, l’essere, è solo nel senso essenziale, solo delle cose si può dire che esistono nel senso esistenziale: di una cosa si può dire che esiste qui e ora, non dell’essere. Dunque Parmenide dice che, in quanto l’essere non è soggetto al mutamento, esso è solo nell’essenza, non nell’esistenza. In questo modo egli arriva a dedurre che l’essere è coincidente col pensiero e, quindi, non è un’entità materiale.

La questione è molto delicata perché c’è in ballo ciò che noi possiamo conoscere attraverso il pensiero e quello che possiamo conoscere attraverso i sensi: che una cosa sia qualcosa e non qualcos’altro è effettivamente conoscibile dal pensiero in quanto oggetto di ragionamento. Di un cane non posso predicare la capacità di volare perché la sua stessa definizione non consente di dedurlo. Ma che un cane sia rosso piuttosto che rosa è una cosa che non si deduce dalla definizione perché un fatto, appunto, del tutto inessenziale ( vorrei qui suggerire la lettura difficile ma stupende e molto arricchente per la questione del famoso saggio di Sellars “Empirismo e filosofia della mente” un capolavoro densissimo di 89 pagine assolutamente impedibile, che vale la difficoltà ).

La conoscenza è ciò che si conosce attraverso il solo uso della ragione oppure è ciò che si conosce attraverso i sensi? Oppure ciò che si conosce attraverso i sensi può essere comunque considerato una forma di conoscenza, seppure meno preziosa di quella intellettuale? O ancora esiste solo la conoscenza attraverso i sensi?

Il dilemma è difficile e nasce proprio dalla diversa concezione dell’“essere”: ciò che noi predichiamo “esistere”, realmente, è ciò che esiste secondo il pensiero o ciò che esiste secondo i sensi ( dunque nel mondo )?

Si può perfettamente dire che questa difficilissima questione, che ho cercato di trattare in modo da far capire almeno la distinzione linguistica che spessissimo è oggetto di confusione, che nessuno mai spiega perché troppo ovvia o perché troppo difficile da spiegare, sia l’essenza stessa di tutta la storia della filosofia. Alla quale mi sembra che non si possa dare che un punto di vista possibile, non una soluzione assoluta e definitiva.

Esistono molti sostenitori della conoscenza come pensiero ( ragione ) e molti altri sostenitori della conoscenza come sensibilità: da un lato ci stanno tutti i platonici da Platone a Cartesio, da Spinoza a Frege, da Hegel a tutta la musica classica ( ! ); dall’altra parte ci sono pensatori minori come Aristotele, Hume, Locke e gran parte della filosofia anglosassone più recente ( come gli empiristi logici alla Russell ), la musica leggera contemporanea…

Insomma, la questione è tutt’altro che risolta e sarebbe interessante discuterne, anche via mail.

La questione del linguaggio filosofico e del linguaggio comune.

Uno dei problemi eterni e speculari a quello della conoscenza è senza ombra di dubbio quello se il linguaggio comune sia sufficiente a dare spiegazioni o no. Il fatto evidente è che il linguaggio comune è ricco di ambiguità ed è spesso veicolo di pregiudizi ( in proposito si potrebbe anche leggiucchiare quello che per caso scrissi su Anassimandro… ).

La disputa è molto accesa e i sostenitori della visione “filosofica” del linguaggio sono generalmente pensatori di stampo platonico, mentre quelli che prediligono il senso comune sono di matrice aristotelica-empirista.

La questione, per esser capita, deve essere spostata a ciò che si intende per linguaggio “vero”, cioè al problema del “vero”. Noi proponiamo cinque strade: il nominalismo, il realismo, il attualismo, il pragmatismo, il “misticismo”. Siccome sono termini che utilizziamo noi per ragioni stilistiche, si tengano conto solo nella misura in cui ci servono a far capire i concetti.

Per molto tempo il problema è stato affrontato solo nei termini: la verità è ciò che è determinato dalla ragione o è ciò che si conosce attraverso i sensi? Se la verità è ciò che è determinato dalla ragione allora la verità è conoscibile a partire dal solo pensiero, che si articoli in idee piuttosto che in proposizioni non cambia: il fatto è che basta ragionare per capire. D’altra parte, gli altri dicono che noi possiamo pervenire alla conoscenza solo di ciò che i nostri sensi ci avvertono: come fare ad ascoltare un sano trio di Beethoven con i tappi nelle orecchie? Se la verità ci viene dai sensi, allora è evidente che la non è dalla ragione che dipenderà la verità ma dalla veridicità della percezione che noi abbiamo avuto. La ragione a questo punto non sarà tanto più lo strumento della conoscenza della verità nuova, quanto quella di conoscenza di verità composte.

Se ammetto che la conoscenza è una questione di riflessione allora ciò che esiste realmente coincide col pensiero razionale e tutto ciò che non è pensiero razionale non esiste, è solo apparenza: da qui il termine “realismo”.

Se ammetto che la conoscenza è una questione empirica allora la verità linguistica-formale sarà solo il risultato di una convenzione: da una immagine uguale si possono dare infiniti nomi ( per ciò nominalismo ).

Come si vede, propendere per un lato ( realismo ) o per un altro ( nominalismo ) non è indifferente. Ma esistono altre due possibilità: è verità la proposizione vera inteso con ciò una frase che illumini su una relazione di stati di cose. Dire che “una penna è sulla scrivania” è vera in quanto è possibile che la penna stia effettivamente in relazione in quel modo rispetto alle altre cose. La relazione espressa da un enunciato è detto “fatto”: un fatto è possibile se è possibile all’interno del contesto logico nel quale è inscritto, è falso se negato.      

A questo punto si può anche dare una via di mezzo, cioè il pragmatismo: tramite convenzioni che si stabiliscono nell’immediato, si determina la verità. Per esempio, dire che “io sono qui seduto” è vero solo nel momento in cui una comunità di persone può attestare che “io sono qui seduto”: dalla sola frase si può dire se è l’asserzione è possibile o no, in base alla grammatica della lingua, non se poi il contenuto della frase sia vero. Poniamo che sto telefonando e dica “io sono qui seduto” e in realtà non lo sono, l’uditore penserà che sia seduto quando non è vero. Dunque, c’è chi potrebbe dire che la verità ha un che di concreto e, dunque, che si verifica di volta in volta ( da questa “concretezza” pragmatismo della verità ).

L’ultima strada che proponiamo è, lo diciamo da subito, poco frequentata dai filosofi, molto più frequentata da tutti gli altri. Quando si dice che tutto è una questione di fede, in certe cose, si sta dicendo che la fede è la garanzia della verità. In questo senso, le religioni rivelate, tutte, si appellano alla forza della fede per spiegare la storia e gli eventi umani. “Credere per capire” solo dopo “capire per credere…” Noi tuttavia proponiamo questa strada senza inoltrarci nelle sue conseguenze, giacché essa non merita, in una disamina della verità, scarna come questa, una riflessione su questa via: essa infatti non è degna né di fiducia né di riflessione, a meno di non voler cercare di capire le follie delle masse della storia.

A questo punto ritorniamo alla questione iniziale. Il linguaggio sarà visto in modo diverso a seconda da cosa si concepisca come vero. Se la ragione è ciò che determina la verità allora è probabile che seguirò la via di una costruzione linguistica filosofica: essa sarebbe più aderente alla realtà dei fatti di quanto non lo sarebbe il linguaggio comune. Se l’esperienza è ciò che determina la verità allora concepirò il linguaggio comune come una convenzione e mi starà bene nella misura in cui riesce a rendere l’esperienza. Se concepirò la verità come proposizione vera allora mi basterà il linguaggio del senso comune in quanto è già intimamente capace di esprimere fatti ( relazioni di cose ). Se, in fine, concepirò la verità come un che di pragmaticamente determinato, allora mi accontenterò del linguaggio comune in quanto non è quello capace di determinare la verità, ma solo un veicolo possibile della verità e null’altro.

Noi lasciamo la discussione così come la conosciamo e l’abbiamo presentata in modo tale che il lettore, che con coraggio c’ha seguito sino a questo punto senza chiudere la pagina, dicendo che Parmenide senz’altro avrebbe optato per un linguaggio comune epurato dalle assurdità che esso contiene ed è quello che, in fondo, ha proposto col suo famoso divieto: una riformulazione del linguaggio, e così fece il primo tentativo di fondare un linguaggio filosofico. Egli fu il primo di una lunga serie di pensatori che mai riuscirono a rifare quello che i millenni sono invece stati capaci: un linguaggio universale capace di dire più o meno tutto quello che pensiamo.


Perfezione o imperfezione: tutta una questione di negazione e affermazione

Un’altra delle cose che sempre si incontrano nella storia della filosofia e che mai viene spiegata è la questione della maggiore o minore perfezione delle cose. Infatti, da Platone, almeno, in poi questo è uno dei temi ricorrenti. Basti pensare a tutta la diatriba sul Dio come l’ente dotato di ogni somma perfezione e la sua relativa dimostrazione, nel medioevo e in tutta l’età moderna: problema di fatto accantonato solo agli inizi del novecento.

Ad ogni modo, cosa significa che una cosa è perfetta? Significa che una cosa è “compiuta”. Quando chiedo a mio fratello:

“hai finito i compiti?”

E lui: “Si, li ho finiti…”

Voglio sapere se ha portato a compimento il suo dovere. In questo senso “perfezione” è ciò che non abbisogna di altro per esistere, esso esiste, punto.

A questo significato bisogna aggiungerne un altro: quando dico che non voglio nulla perché sto già bene così, voglio dire che sono “completo” così come sono. Perfezione è sia esser-portato a compimento che esser-completo.

Detto così, di tutto dovrebbe, in una certa misura, esser predicata la perfezione: un libro che esiste è perfetto nel suo esser libro, una gomma da cancellare è perfetta nel suo essere e così via. Quando dico che una cosa è “perfetta nel suo essere” significa che “è perfetta in virtù della sua sola essenza” ovvero, come abbiamo cercato di far capire, nella sua stessa definizione.

Ad ogni essere che esiste si può attribuire più o meno perfezione in base alla quantità di proprietà che esso ha: tanto più siamo in grado di affermare di un oggetto e tanto più siamo in grado di mostrarne le perfezioni, cioè le sue “completezze-competenze”. Se dico che il “mio computer è veloce” gli attribuisco una proprietà positiva, dunque una perfezione.

La “forma” della perfezione si esprime in questo modo “X = P1, P2, P3 ecc…” dove le “P” stanno tanto per “proprietà” che per “perfezione”. A questo punto dovrebbe essere molto chiaro che tanto più un oggetto implica qualità nella sua sola definizione e tanto più ad esso competono una serie di perfezioni. Tanto più un oggetto è ( proprietà, qualità, perfezioni… ) e tanto più di questo oggetto si potrà affermare, si potrà qualificare.

Tuttavia è vero anche il contrario, cioè che tanto più un oggetto è limitato e tanto più di esso si negheranno qualità: un libro non è una sedia, non è bello, non grande, non è esteso per chilometri e così via. Ancora una volta, dalla sola definizione di un oggetto, ne deduciamo i suoi possibili limiti. Così l’imperfezione non è altro che l’espressione di tutti i limiti che un oggetto ha e che vengono espressi dalla negazione di “essere” ( essenziale ).

In quanto abbiamo definito come perfezione le “qualità”-affermative, e abbiamo definito l’imperfezione le sue qualità negative, ecco che diventa più chiaro l’espressione che tanto più ad una cosa compete l’essere e tanto più essa è perfetta: più semplicemente si può dire che tanto più ad una cosa si attribuiscono qualità e tanto più essa risulterà perfetta, tanto più di una cosa si negano qualità e tanto più essa sarà imperfetta e parziale. Insomma, la famosa “attribuzione di essere” non è altro che una espressione linguistica nella quale si usa il verbo “essere”-essenziale. Dalla lingua poi il valore ontologico.

Chiudiamo spiegando brevemente la prova ontologica dell’essere definito come ogni somma perfezione: Dio ( il sommo-essere ) è l’essere dotato di ogni somma perfezione. La definizione di Dio implica che di Dio solo si può dire che è ( assolutamente tutto, dunque non ha limiti, perciò è perfetto ). La definizione di Dio, che usa il verbo “essere”-essenziale ( in quanto esprime, appunto, la definizione/essenza di Dio ) implicherebbe anche l’“essere”-esistenziale: se di Dio si può dire che “è” dotato di ogni perfezione, ovvero che non gli compete alcun limite, allora, gioco forza, è vero che egli deve anche esistere. Se infatti non esistesse egli non sarebbe più sommamente perfetto, in quanto limitato. Ma ciò è assurdo, posta la sua definizione. Dalla sola definizione di Dio ne dobbiamo derivare la sua esistenza.

Parmenide in tutto questo che avrebbe detto? Che l’essere esiste solo in senso essenziale, non in senso esistenziale: avrebbe ribadito che tutto ciò che esiste è in quanto nell’essere, non in quanto nel “mondo” dei fenomeni che, semplicemente, non è che mera apparenza. In questo senso, egli, tagliando la testa al toro, non avrebbe sottoscritto la prova ontologica.


Sulla vita e sul nostro modo di vivere la morte.  

Vorrei concludere queste proposte con un tema molto caro a tutti, a me, a te: in vario modo, tutti noi uomini cerchiamo di affrontare e di non affrontare questo problema. Te ne parlo pacatamente, senza melodrammi infantili perché siamo entrambi delle persone razionali e non ci tiriamo in dietro di fronte al primo timore dello stomaco.

La nostra vita è determinata a finire, che ci piaccia o no, anche se mai vedremo la morte, da essa non possiamo fuggire. Come si potrebbe fuggire da ciò che non tramonta mai? Un bel passo di un saggio di Montaigne ci ricorda che non ci conviene sapere di avere un male che non possiamo curare. Eppure, a me sembra che non possa essere solo una perdita di tempo riflettere sulla nostra fine.

Ti parlerò di alcune mie esperienze che mi hanno fatto riflettere, penso che anche tu abbia potuto provare delle cose simili: e non ti dico, “spero di no” perché tanto, presto o tardi, ti ci ritroverai. Spero che non sia per traumi tristi ma per serena conclusione. Così, con te, rifletterò su questo problema.

Dopo anni di certezze incrollabili due pilastri della mia vita sono venuti meno. Prima mio nonno paterno e poi mio nonno materno sono morti, entrambi ad un’età rispettabile, dopo una vita di amore. Ricordo di qualche volta che arrabbiarono ma non ricordo mai di qualche volta che odiarono di qualcuno dal quale fossero odiati. Io stesso gli volevo un gran bene.

Mio nonno paterno morì un anno prima dell’altro proprio come era vissuto: tranquillamente. L’ultima cosa che disse fu al medico, che non riusciva a capire i dati anagrafici dalla cartella clinica, il suo nome.

Fu lucido sino al momento in cui lo addormentarono per curarlo: ma alla fine era troppo anziano per resistere all’operazione e così morì, nella pace. Aveva vissuto nello stesso modo sino al giorno prima e nessuno che lo avesse visto in quel momento avrebbe lontanamente sospettato che quel brav’uomo sarebbe venuto meno due giorni dopo.

Non aveva detto nulla, chiesto niente, fatto questioni. Nonno ci aveva voluti bene e basta. Era un tipo solitario, sostanzialmente, precisissimo nelle sue abitudini: egli era capace di arrabbiarsi solo se queste venivano meno. Andava a messa anche se non era né per indole né per abitudine particolarmente religioso. Ma, nel momento della verità, egli non fece né disse nulla, non scomodò nessuno e semplicemente se ne andò.

Un po’ diversa e forse un po’ più triste fu la morte di mio nonno materno. Egli era già malato di cancro da un paio d’anni e aveva avuto un infarto dal quale non si sa come riuscì a sopravvivere. Questa sua “miracolosità” lo accompagnava sin dalla nascita: era nato rachitico e non sembrava potesse imparare a camminare. Come ultima speranza fu unto con l’olio di sant’Antonio e, come per magia, dopo due giorni prese a saltellare felicemente. Penso che fu per questo suo timore infantile che per tutta la vita fu un instancabile camminatore. Fu per questo, e anche perché fu tirato su dai preti, che egli divenne fortemente credente.

Ma torniamo a noi, egli dunque soffriva già da tempo e un giorno crollò, smettendo di camminare. Sembrava arrivato il momento quando, non si sa come, piano piano, anche aiutato dall’infaticabile mia nonna, da qualche fisioterapista, e dal sostegno di freddo metallo riprese incredibilmente a camminare: nessuno ci avrebbe mai creduto e io stesso mi rendo conto che sia difficile da credere. Egli sapeva, in qualche modo, che la fine sarebbe venuta quando egli avrebbe perso la capacità che sempre aveva avuto così cara. E infatti così fu: dopo altri sei mesi finì all’ospedale e, questa volta, per non uscirci più.

Morì in preda ai vaneggi: è triste dirlo, ma alle volte mi risultava anche divertente, come quella volta che mi misi a ridere dopo che egli disse solennemente che voleva dare la comunione ai cervi e ai daini. Mia nonna mi fulminò ma era irresistibile. Più volte sembrava che stesse per morire, più volte si riprese: una volta addirittura, dopo che gli avevano dato l’estrema unzione, si risvegliò, si mise a leggere il suo amato Corriere dello sport e domandò se la Roma avesse vinto o perso.

Ad ogni modo, il suo Dio lo fece morire proprio al momento giusto: quando si scoprì che la Juventus aveva clamorosamente truffato. Era l’inizio di quella farsa che fu calciopoli: magari morisse la stupidità degli uomini, o gli uomini stupidi! Ma la morte ha uno spirito troppo democratico e non sta troppo a fare sottigliezze.

Anche nonno insomma se ne andò così come era vissuto. E di una cosa mi rendo conto solo ora che non c’è più: che scopriamo davvero quanto, sotto l’abitudine o l’inedia, si possa amare qualcuno dopo la sua morte. Egli non aveva nulla, lasciò un testamento spirituale caldo come l’affetto che tutti noi avevamo nutrito per lui.

Ma non tutti hanno la fortuna di morire come i miei nonni: c’è chi è più sfortunato. E qui voglio rappresentare una figura da me conosciuta solo indirettamente. Anche lei fu prima madre e poi nonna. Ma ebbe la sfortuna di non poter camminare già da qualche anno prima della sua fine. Non si poteva curare perché nessuno è riuscito a capire cosa avesse.

Era una persona estremamente dispettosa, vogliosa di cure, soprattutto era una di quelle persone che voleva avere sempre sotto controllo le persone della sua famiglia: abituata da sempre a fare tutto da sola, a sistemare le faccende sue e del marito assente, fino alla fine non perse l’abitudine a voler prendere lei ogni decisione. Non era mai disposta a raggiungere un compromesso e poteva anche smettere di mangiare e bere, se questo serviva a convincere gli altri a eseguire le sue volontà.

Fu così che un giorno, quando era già troppo debole e già soffriva di tutto, per l’ultima volta la sua caparbietà la portò a non mangiar più: ma gli costò caro. Per circa sei mesi rimase in uno stato comatoso interrotto da sprazzi di lucidità nei quali gridava che non voleva morire, appestando l’aria già satura di pesantezza.

La questione era delicatissima ed era la stessa che si propose per mio nonno materno: tenerla in vita a tutti i costi oppure lasciare che la vita faccia il suo corso? Non si poteva più curare né si sarebbe mai ripresa. Ad ogni modo fu tenuta in vita e la morte giunse lo stesso, dopo sofferenza sua e di tutti. Riuscì anche in punto di morte a far sentire in colpa le persone che la circondavano.

E ciò non deve stupire o generare odio: purtroppo, le persone deboli, che non hanno il coraggio di esprimere il loro amore e né sono in grado di riceverlo dagli altri, o tendono ad annichilarsi su se stessi oppure fanno sentire in colpa quelli che dovrebbero volergli bene: è un modo come un altro per combattere quella solitudine assoluta in cui l’uomo cade quando è senza amore.

Mi sono ricordato solo adesso, di un ragazzo trovato morto, qualche giorno fa vicino a casa mia. Egli stava disteso, inerte immobile. Temo che fosse stato investito. C’era una circonferenza di esseri umani fermi ed immobili, incapaci di esprimere qualunque parola. Carabinieri e infermieri si domandavano se dovessero toglierlo subito oppure non so. Sta di fatto che quello che prima era un uomo, ora non lo sarebbe stato più, sarebbe diventato qualcos’altro.

La catena della memoria mi riporta alla mente un’immagine di un bellissimo libro “La vera storia del pirata Long John Silver” di Bjorn Larson, un libro assoluto, che consiglio anche a chi non legge, egli descrive benissimo lo spirito che animava le persone quando andavano a vedere i condannati a morte: esse vi andavano per due motivi, io credo. Il primo è che volevano esorcizzare la morte esattamente come noi esorcizziamo le nostre paure quando vediamo i film dell’orrore: se ad esse sopravviviamo, significa che poi non sono così terribili. Il secondo è che volevano vedere come i condannati si sarebbero comportati di fronte alla morte: questo perché nessuno sa veramente come vivremo la morte e come la vivono gli altri prima di esserci davvero di fronte e ciò ci affascina.

In fine, concluderei, con la descrizione della morte della mia cagnetta, una boxerina, genitrice dell’altro mio cane e che, poverina, deve aver conosciuto le sofferenze della madre che da alla luce un figlio scemo. Ad ogni modo aveva preso la leishmaniosi, malattia tremenda per i cani. Avevamo tentato in diversi modi di salvarla, dandole cura in ogni modo. Ma ormai non aveva più la forza per vivere, così uscì dalla porta, andò sotto l’ombroso e odoroso il carrubo e lì si adagiò. Quando passavamo lei si spostava perché non tollerava di essere vista. Fu così che, dopo che la lasciammo in pace per un paio d’ore, sul suolo che aveva scelto, giacque, morta.

Questo racconto “etologico” non è volto a mostrare quello che fa un cane, il mio in particolare, ma quale è la tendenza di tutti gli animali: essi vogliono tornare istintivamente nel loro habitat primordiale. E così anche l’uomo, io penso, istintivamente vorrebbe essere riportato in un ambiente naturale: tempo che pochi vorrebbero essere interrati in un palazzone di cemento.

Tutti questi racconti hanno come filo conduttore la morte e sono esempi diversi di un unico vivere, quello degli esseri viventi.

A questo punto, un buon filosofo si domanderebbe cosa c’è di comune, o quale è la natura di tutti questi eventi. Noi, io e te, non siamo buoni filosofi e ci limitiamo a dare qualche ragguaglio su come la nostra cultura ( o le “nostre” culture ) affrontano questo problema esistenziale profondo.

Noi siamo figli dei cristianesimo e non si può far finta di nulla. E il cristianesimo non è tanto tenero nei confronti della morte: è la conclusione della vita e non si torna mai in dietro. La morte è giudice perché a quel punto arriverà il nostro verdetto. La vita è in funzione della morte, per i cristiani, perché solo alla morte ci sarà, o no, il ricongiungimento con Dio o il nostro allontanamento da lui. La morte è così, di fatto, insensata: perché colui che ci crea porta alla nostra fine? Perché dobbiamo vivere una vita di sofferenze per lui? E, soprattutto, perché Lui, l’altissimo Signore, vorrebbe un mondo di sofferenze solo perché così noi possiamo dimostrare di essere buoni? Dare la filastrocca di Adamo ed Eva è francamente inaccettabile per un Dio che si dice sia buono e perfetto… Ma ad ogni modo, è in questo modo molto duro e pesante che il cristianesimo tratta il tema della morte.

La nostra nuova cultura sociale, quella nata dalle ceneri delle tradizioni, e che si è imposta col nuovo sistema economico è quella che pensa alla vita, e alla morte, esattamente come alla stessa cosa: come un perenne oblio della coscienza. La vera vita è quella che si dimentica, che non si vive. Così nel nostro mondo di oggi non sorprende che eccessi e morte siano così strettamente accompagnati. La morte diventa una cosa da evitare allo sguardo, non da evitare nella vita. Di essa si perdono di fatto i contorni ma si vuole celare alla vista quello che tutti gli uomini non possono permettersi di non vedere. Questo è il prezzo della vita come oblio.

Ma torniamo alle nostre origini: come la pensavano gli antichi greci?

Intanto, loro presentavano il problema secondo modalità diverse. I presocratici sostanzialmente, Parmenide senz’altro è tra questi, non ammettendo il mutamento, e non ammettendo che qualcosa potesse generare dal nulla, ritenevano come assurda l’idea che alla morte seguisse il nulla: essa non è che pura apparenza ( allo stesso modo della nascita ). Il non-essere non-è implica proprio che dal nulla non sia nulla.

Platone propone invece l’idea che tutti gli uomini hanno un’anima e che essa è destinata ciclicamente a reincarnarsi: in questo senso si avvicina all’idea cristiana di anima e se ne discosta in quanto, non concependo tempo lineare, Platone non pensa che ci sia un termine ultimo e definitivo per l’anima. L’anima è immortale e, contemporaneamente, l’anima si reincarna.

Per Epicuro invece il problema della morte semplicemente non si pone: se siamo vivi allora non siamo morti, se siamo morti siamo morti e non sappiamo più che esiste la vita. Dunque se ci sono io non c’è la morte e viceversa. Non può essere un problema quello che implica la nostra assenza.

Lascio al lettore, ancora una volta, trarre il proprio giudizio. Penso solamente che sia meglio vivere serenamente il proprio rapporto con la morte, perché, davvero, non ci può essere il tanto per temerla. Comunque la si pensi, bisogna sapere che allo stesso modo con cui ci relazioniamo alla morte ci relazioniamo alla vita.

« Ma consideriamo anche per un’altra via come ci sia da sperare che la morte sia un bene. Essa è infatti una di queste due possibilità: o la morte coincide con il nulla e dopo che si è morti non si ha alcuna sensazione di niente, oppure, stando a quanto si dice, consiste in una sorta di cambiamento e di trasmigrazione dell’anima da questa sede in un’altra.

Se non vi è dunque alcuna sensazione, ma una specie di sonno, simile a quello di chi dorme senza fare alcun sonno, con la morte si farebbe uno straordinario guadagno. Se infatti uno, scelta la notte in cui avesse dormito così bene da non aver nemmeno fatto dei sogni e, confrontati a quella notte le altre notti e gli altri giorni della sua vita, dovesse ripensarci e dire quanti altri giorni e quante altre notti avesse vissuto nella sua esistenza con più soddisfazione e piacere (…), sono disposto a credere che non solo un cittadino qualunque, ma il Gran Re stesso troverebbe che questi giorni e queste notti si possono contare sulle dita in confronto a tutti gli altri. Se tale è dunque la morte, io la definisco senz’altro un guadagno: in questo modo infatti tutto il tempo sembra non sia più che un’unica notte.

Se invece è una sorta di trasmigrazione da questa vita a un altro luogo ed è vero quel che si dice, cioè che in quel luogo si radunano tutti i morti, quale bene potrebbe essere più grande di questo, signori giudici? Infatti se uno, giunto nell’Ade, dopo essersi liberato da questi che si dicono giudici, vi trovasse quelli che davvero hanno esercitano la giustizia (…), ritratterebbe forse di un viaggio di poco conto? (…) Io davvero vorrei morire più volte, se tutto ciò è vero, perché specialmente per me quel soggiorno sarebbe meraviglioso (…) »

« Bisogna dunque che anche voi, signori giudici, siate ben disposti alla speranza della morte, e solo questo pensiate, che nessun male può colpire l’uomo retto né quando vive né quando è morto, e che le sue azioni non sono indifferenti agli dei. Anche ciò che ora è accaduto a me non è accaduto per caso: questo mi è ormai chiarissimo, che il morire a questo punto e il liberarmi di tutti i fastidi era per me la cosa migliore ».

Dall’apologia di Socrate ( puoi vedere anche la bibliografia essenziale ).

 

 


[1] Non sempre quel che le persone dicono è vero!, compreso l’autore di queste righe…


Giangiuseppe Pili

Giangiuseppe Pili è Ph.D. in filosofia e scienze della mente (2017). E' il fondatore di Scuola Filosofica in cui è editore, redatore e autore. Dalla data di fondazione del portale nel 2009, per SF ha scritto oltre 800 post. Egli è autore di numerosi saggi e articoli in riviste internazionali su tematiche legate all'intelligence, sicurezza e guerra. In lingua italiana ha pubblicato numerosi libri. Scacchista per passione. ---- ENGLISH PRESENTATION ------------------------------------------------- Giangiuseppe Pili - PhD philosophy and sciences of the mind (2017). He is an expert in intelligence and international security, war and philosophy. He is the founder of Scuola Filosofica (Philosophical School). He is a prolific author nationally and internationally. He is a passionate chess player and (back in the days!) amateurish movie maker.

2 Comments

  1. franco franco 4 Aprile, 2016

    Mi sorprende sempre leggere di colui che disprezza il cristianesimo e accorgermi poi che nella lettura in verità disprezza un cristianesimo ideologizzato, molto personalistico, che sa di luogo comune e notare invece tra le righe una strenua difesa di un Cristianesimo profondo, vero, confortante. Sono in accordo con te! Non piace neanche a me quel cristianesimo che racconti ma sono in accordo con te su quello che non dici ma che per contrasto si avverte e cioè quel desiderio di verità, di speranza e di senso che per assurdo ha radici profondamente Cristiane.

    • Giangiuseppe Pili Giangiuseppe Pili 4 Aprile, 2016

      Gentilissimo Franco,

      Innanzi tutto, grazie per il commento sentito, che è sempre la cosa più importante. Riconosco che ho dovuto rileggere il pezzo oggetto del commento, perché non ricordavo più il suo contenuto. Credo di averlo scritto nel 2008, anche se poi è uscito su SF1.0 a fine 2009 e poi ripubblicato su SF2.0 nel 2011. Questo per dirti quanto “travaglio” esso si porta dietro, anche se non sembra. Molta acqua è passata sotto i ponti e non credo che sottoscriverei totalmente quanto lì contenuto. D’altra parte, anche se non posso dire che la morte sia uno dei temi più centrali nella mia vita-riflessione, riconosco comunque ad essa una certa importanza (in una mia prossima pubblicazione se ne parla molto tra le righe). Segnalo anche che ho scritto qualche altra cosa più recente sull’argomento. Ad ogni modo, rimane l’esigenza di una concezione serena della morte. Che è una cosa ben rara a trovarsi anche perché, appunto, un certo tipo di cultura non ha favorito un rappacificamento con essa, diventando essa solo la “cesura”. Ancora oggi, direi, che la serenità della morte dovrebbe essere la serenità della vita appunto perché l’accettazione dell’una dovrebbe conseguire dall’accettazione dell’altra. Comunque, ancora ringraziandoti per questo spunto di riflessione, mi rendo conto che tanta acqua è passata sotto i ponti e che, allo stesso tempo, tale acqua non è passata invano! Ed è per questo, infatti, che continuo a mantenere pubblicate certe cose anche se non le riconosco più del tutto.

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