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Roland Barthes e la moda che atrofizza ogni variazione di stile (dal sigillo del “gangster” al nomignolo del ciclista)

Per Barthes, la dimensione del linguaggio (necessariamente codificato sia dalla sintassi sia dalla grammatica) non sosterrebbe mai i sensi d’una qualsivoglia parola. Fra il primo e la seconda, mancherebbe una separazione. Più semplicemente, succede che il linguaggio sia la singola parola. La filosofia di Barthes rientra nel tradizionale strutturalismo. Il senso d’una qualsivoglia parola comunque non sarebbe “nulla”, senza la simultaneità del suo codificarsi, grazie al linguaggio. La grafia testuale oppure la sonorità della voce precisamente si strutturano. Esse non si sostengono sul senso delle parole, perché lo determinano.

Però il linguaggio poetico è diverso, parendo strutturato al rinviare oltre se stesso. Là, tutte le parole hanno un senso “sorretto”. C’è la strutturazione della grammatica e della sintassi, ma verso la propria ristrutturazione d’un simbolismo. Per Barthes, la moda vanterebbe quasi una linguistica “poetica”. Ad esempio, la maglia sarà universalmente “codificata” per “riscaldare” il corpo. Però, quella finisce per diventare “liricamente” mitologica (idealizzandosi). La maglia presto si percepirà in tutto il “calore” della “comodità (praticità) esistenziale”. L’origine strutturalistica della moda col tempo tenderebbe simbolicamente al mitologico. I vestiti quindi si supportano, come accade per le parole poetiche. Sembra che quelli “atrofizzino” idealisticamente il mero funzionalismo alla loro origine. Certo ogni lirismo dovrà “cedere il passo” allo strutturalismo.

Per Barthes, nella fotografia di moda, oltre l’esposizione dei vestiti da reclamizzare s’identifica il mondo dove quelli s’inseriscono. Ci sarà uno sfondo che assumerà un tono fortemente “scenico”. Quello “teatralizzerebbe” la promozione degli abiti. Il mondo oltre l’indossato riprende un tema in qualche modo inerente al prodotto inquadrato.

Ma è possibile percepire “un’atrofizzazione” dello sfondo architettonico, che funga da “accessorio” per l’abitabilità? Genericamente, una scenografia prova a coinvolgere il suo visitatore. Barthes coglie la paradossalità estetica del moderno salone, per le fiere. Là, il mercato cerca il maggior “censimento”, affinché lo spettatore selezioni il singolo articolo (prodotto) che meglio risponda alle sue esigenze. Sino alla rivoluzione industriale, noi avevamo conosciuto il “mito” del progresso come una trasformazione della Natura, per la “romanticheria” della nostra spiritualizzazione (ad esempio, tramite l’alchimia). Qualcosa di cui ora ci riapproprieremmo, con la massima precisione nelle classificazioni. Si paragonerà, si distinguerà, si citerà ecc… il mondo, lasciando che la Tecnica produca continuamente la nostra assolutezza, nell’immanenza.

Per Barthes, anticamente la “novità” del marchingegno era percepita in maniera “magica”. Quello aveva un effetto sempre e solo lontano da sé. Invece, il moderno salone s’avvalorerà nell’eleganza del proprio allestimento. Quello ha gli stands, i reparti, i padiglioni ecc… Sarà la percezione che il marchingegno faccia effetto già in sé, e solo dopo per gli altri (coi suoi prodotti). Coerentemente, Barthes cita il caso del moderno salone per gli accessori[1].

Il marchingegno della macchina fotografica permette “d’atrofizzare” ogni lontananza. Ma lo scatto di moda deve avere in aggiunta un “corredo” d’allestimento ad effetto, su cui “censire” un senso. E’ la miniatura d’un salone, che “si sfogli” anche prima di pubblicarlo in qualche rivista. Il fotografo di moda ad esempio insisterà molto nel “censire” le pose. Tra l’immagine dello sfondo, e l’immagine dell’indumento, si dovranno associare alcune idee. La fotografia di moda non sarebbe un mero inquadrare il soggetto principale del suo scatto. Va anche immortalato un significato concettuale in seno al singolo abito. La sua percezione dall’esterno sarà tutt’altro che “ingenua” o libera. Esigendo che molti spettatori acquistino lo stesso abito, prima si preferirà giustificare la validità dell’operazione commerciale in se stessa.

Nella cinematografia, l’associazione più classica fra le immagini si dà grazie al sapiente montaggio. Barthes studia esteticamente il film di Ejzenstejn dal titolo Ivan il Terribile. Là, c’è la scena in cui due cortigiani versano una pioggia d’oro. Qualcosa che poi ricoprirà la testa d’un giovane zar. Per Barthes, sia il piano reale del racconto visivo, sia quello simbolico (inerente alla ricchezza), vanno studiati in base a come ci appaiono. Così, varrà una fenomenologia. Il senso della comunicazione si fonda sui costumi o sui rapporti sociali. E’ l’insieme degli elementi realistici, che favoriscono la nostra comprensione d’un plot. Qualcosa che rientra in un tradizionale scenario. Il senso della significazione (o “dell’ovvio”) si fonda prettamente sul simbolismo dell’oro “piovoso”, che ostenta al massimo la ricchezza dello zar. E’ la scenografia (quando l’ambientazione assume un significato concettuale). Qualcosa che il simbolismo dovrà rafforzare. A Barthes però interessano anche la compattezza nel belletto dei cortigiani, la finezza d’un sopracciglio, la piattezza dell’acconciatura ecc… E’ il senso della significanza. Ma esso avrà una vena estetizzante? Il senso della significanza sarà qualcosa da percepire dentro “l’ostinazione” dello scenario. Là, si potranno raccogliere tutte le scelte operate da Ejzenstejn per visualizzare come avvenga il simbolismo, in specie dell’oro. La compattezza, la finezza e la piattezza in verità saranno “di troppo”. Trattasi di elementi che obiettivamente non servirebbero, né sul piano informativo né sul piano simbolico. Esteticamente, quasi vi si percepirà un “vezzo”! Lo scenario “sfuggirebbe” a se stesso, come il verso poetico. Il senso della significanza si percepirà in via ottusa. Sarà lo scenario che si smussi, “insistendo” a travestire il suo simbolismo (come in poesia), così da coinvolgerci. Ogni “vezzo” potrà evitare la negatività d’una “mera esagerazione”. Per Barthes, il senso ottuso di Ejzenstejn servirebbe alla preparazione percettiva del senso ovvio[2].

Nella modernità, noi utilizziamo la compattezza della banconota, che pare “piattamente di troppo” rispetto alle riserve auree della zecca! Barthes ha ricordato che, nel regime feudale, la ricchezza si misurava in termini simbolistici. In sostanza bastava conquistare la terra o l’oro. Poi, la rivoluzione borghese (intorno al 1800) fa in modo che la ricchezza si dia in chiave semiotica. La terra o l’oro avranno senso unicamente dalla loro rappresentazione.

Vi sarà il medium della banconota, fondante il sistema della compravendita e degli investimenti (sconosciuti al feudalesimo). Il simbolismo della ricchezza si trasferirà nel segno di quella. Ma il primo ha una qualità di tipo trascendentale (idealizzante), che al secondo manca. Il simbolo va indicando qualcosa, perché fra il proprio significante (grafico, percettivo) ed il coevo significato (astratto, concettuale) si dà una differenza. Qualcosa che la banconota del consumismo borghese annulla. Il cambio della fenomenologia è netto. La banconota contrassegna la ricchezza senza più indicarla, in quanto semplicemente la sostituisce in se stessa.

E’ un problema di compattezza estetica che torna nello sparo del gangster movie. Se la rivoltella si vede solo puntata contro qualcuno, i tempi della sua “freddezza” sulla praxis ci paiono dilatarsi. Senza l’istantaneità dello sparo, noi le daremo una funzione prettamente narrativa. La rivoltella offrirebbe alla possibile vittima un certo messaggio. Per Barthes, limitarsi a minacciare d’uccidere è virtualmente un’opzione per la dimensione del logos, anziché per quella della praxis. Indugiare a puntare la rivoltella significa “allargare” la percezione del tempo, impedendogli di “raffreddarsi” (nella rapidità dello sparo).

Di contro, lo “schiocco” del proiettile causerà all’improvviso un black-out cronometrico. Quello romperà la “retorica” dell’inazione. Ciascuna minaccia ci “racconta” qualcosa che si sviluppa in modo solo ripetitivo, senza avvicendarsi sul serio. Invece, l’improvvisazione d’uno schiocco si rende così rapida che cercare d’avvertirla, e distinguerla, sembra già del tutto inutile. Qualcosa da percepire in via “fredda”.

Ma come va esperito il mondo del gangster? Lì, conterà la manifestazione del “sangue freddo”. Normalmente, un incensurato considera a fondo il “problema della morte”. Basta lamentare la perdita di chi ci stia a cuore. Oppure, si professerà una fede religiosa. Grazie a quella, si rifletterà sul fatto che ciascuno di noi è condannato a perire. Però, il gangster non si pone le medesime questioni. Egli ritiene che la morte identifichi solo “lo schiocco del suo proiettile”.

Quando uccide, il criminale moderno compie un “servizio professionale”. Non vi sarebbe alcun “romanticismo” di sorta. Nel Novecento, il gangster nemmeno cerca l’enfasi del duello personale. Qualcosa che ancora l’epopea del western soleva di frequente attestare (pure in via apertamente “idealistica”). Il killer contemporaneo vuole unicamente sparare. Ciò avverrà nel modo più efficace e rapido. Nella cinematografia del western, ad esempio, la ripresa del duello personale “s’allunga” nel tempo. Essa acquisterà un valore narrativo. Così, il regista indugia ad inquadrare l’espressione dei contendenti, risolvendo il criminoso “faccia a faccia” attraverso l’utilizzo di scene diverse. Ad esempio, noi possiamo contemplare tutti i preparativi del duello. Invece, nel gangster-movie di frequente succede che la vittima crolla esanime a terra, non appena il giustiziere ha pronunciato l’interiezione più sintomatica: < Muori! >. Si percepisce una differenza, rispetto al western. Per il killer moderno, l’uccisione di qualcuno si dà unicamente nel suo colpo da fuoco. Varrà la semplice esclamazione d’un verbo all’imperativo. Qualcosa che sigilli drammaticamente la morte.

Barthes ci ricorda che gli dei antichi, prima di “comandare” intorno al destino d’un certo uomo, usavano fargli un cenno d’assenso, col capo. Secoli dopo, sembra che la bacchetta da prestigiatore esprima la stessa funzione. Però, il decidere in merito alla trasformazione di qualcosa avviene in modo più divertente che tragico! Col gangster, torna la drammaticità del gesto, o del cenno, che cambia molto rapidamente l’esistenza d’una persona. Ma bisogna indagare la fenomenologia del caso. L’assenso conferito dal gangster, dichiarando la morte della sua vittima, è per così dire tragicamente mitico. Sarà la rievocazione di ciò che nell’antichità si pensava accadesse con gli dei. Naturalmente, nel caratteristico gangster-movie, l’immediatezza del colpo uccisore serve per spettacolarizzare la ricezione della scena. Sempre il plot vorrà emozionarci. Ma l’estrazione furtiva della pistola, al fine d’ammazzare qualcuno, dialetticamente si svolgerà solo “a sangue freddo”. La scena si percepirà molto rapidamente. Grazie all’impercettibilità del suo sparo, il gangster non riuscirà a turbarsi. Sempre egli eviterà di parlare. Più in generale, il gangster nemmeno mette allusivamente in mostra qualcosa. Egli “comunica” unicamente con la praxis. Chi lo guarderà al cinema, ne trasferirà l’azione in pochissime immagini, all’istante: lo schiocco del proiettile, la macchia di sangue nel corpo della vittima, la caduta a terra di quest’ultima. Il vero killer interviene senza mai cedere all’enfasi. Egli sarà “freddo” per disinvoltura. Lo sparare si percepirà come una reazione assolutamente meccanica. Per il gangster moderno, la causa del suo gesto (l’imperativo del < Muori! >, che spiega il crimine) s’identifica pienamente con l’effetto del suo gesto (l’uccisione della vittima, che si riversa a terra). Nel western, la fenomenologia cambia parecchio. L’indugiare a minacciare con la rivoltella è un distinguere la dimensione del carnefice da quella del soggiogato. Ma quanto il drammatico “assenso” del gangster “atrofizzerà” la paura della morte? Il suo sparo diventerà rapido, paradossalmente “per anestesia”, contro ogni “indugio” sui preparativi.

Per Barthes, esteticamente la fotografia avrebbe il caratteristico punctum. Un elemento figurativo che come una freccia, trafigga l’osservatore esterno. Il punctum dunque permetterà alla fotografia d’entrare nella realtà. Storicamente, la pittura ritrattistica ci mostrerebbe una figurazione nel suo quadro d’insieme, senza che un solo dettaglio possa emergere. Ma le fotografie già si pongono verso la realtà. Quelle non dovranno ricostruire nulla. Le fotografie quindi accetteranno che un solo dettaglio (il punctum) possa emergere[3]. Esse devono farci entrare in uno sfondo. Per Barthes, il punctum “trafiggerà” il nostro sguardo, ma per espanderlo su tutta la raffigurazione. Entrati nella realtà, noi dovremmo subito abituarcene. Nella densità figurativa del punctum, il nostro sguardo cercherà di “respirare”.

E’ una dimensione che piace alla “futuribilità” tecnologica. Forse, a “trafiggere” il tempo mediante uno spazio rientrante in se stesso, concorrerebbe il caratteristico uomo-getto, ovvero il pilota dell’aeroplano a reazione[4]. Qualcuno che alla fine sarebbe più materialmente vicino al robot che astrattamente (simbolicamente) all’eroe. Sembra che la tecnologia contemporanea chiami il pilota a muoversi superando il medesimo movimento. Sarà come se la velocità paradossalmente s’arresti, nella percezione istantanea di sé. Barthes scrive che l’uomo-getto si prepara al “turbamento” in verticale, anziché a quello in orizzontale. Un aeroplano velocissimo porterà il corpo del pilota a contrarsi nella pelle, ad offuscarsi per smaterializzazione, a guardare dagli occhi “impressionati” ecc… Sarebbe un “turbamento” in verticale. Quello ci parrà fondato sulla percezione che il corpo ascenda. Qualcosa che si risolva entro l’uomo-getto, anziché lungo lo spazio, ossia in orizzontale, come accade per il “classico” sprinter (nel ciclismo o nell’atletica leggera). L’aeroplano a reazione non è mai “avventuroso” da guidare. Lo sprinter classico (nel ciclismo o nell’atletica leggera) andava sempre in punta di piedi, ossia per sforzi, sul “colpo di reni” contro lo spazio in profondità. Per Barthes, era facile percepirlo nella “morale” del proprio eroismo. Invece, l’uomo-getto deve vincere più se stesso che uno spazio circostante. Conterebbe la sua abilità d’avere il peso forma, un’alimentazione specifica, l’acclimatarsi del respiro ecc… Del resto, l’uomo-getto ci mostrerebbe un’altra pelle, rivestito da una tuta di nylon che addirittura potrà “gonfiargli” il corpo. E’ lo sprinter che reagisce “in punctum di reni”, superando il movimento nel suo “abbracciarlo” (entrandovi con la propulsione). A confermarcelo basta la percezione del “respiro” che trafigga per acclimatazione. Qualcosa che per Barthes avviene pure grazie al punctum fotografico, sebbene mediante l’occhio (e non la bocca). Più in generale, la nostra tecnologia segue un progresso ormai “gettato” dalla sua rapidità.

Con la rivista di moda, si sfoglia “in punta di dita”. Ma quanto sarebbe utile un universalizzare il significato dell’indossare? Le dita “atrofizzeranno” il loro sfogliare, prese da un “palpeggio” solo sbagliato col vestito pubblicizzato, sul filtro del “miraggio” per la carta patinata. Naturalmente, la moda proverà a vendere una concettualità che sia utile. Comprare un preciso abito ci condurrà ad interagire meglio coi vari casi della nostra vita. Ogni spettatore si trova in un mondo ambientale, sociale o culturale (ben al di là di quello che giornalmente si vuole indossare). Un vissuto personale con cui relazioneremmo meglio, grazie all’abito reclamizzato!

Secondo Barthes, la teatralità dello sfondo può risultare di vario tipo. In primo luogo accade che il fotografo cerchi un’associazione quasi “lirica”. Si pensi a quando la modella porta un abito, mentre in lontananza un gregge di pecore sta pascolando, o se lungo la strada, dove lei poggia i piedi, avanza un carretto di legno. Si tratta quasi d’omogeneizzare la visionarietà. In secondo luogo, a volte l’associazione fra le idee del vestito e dello sfondo ci sembra più divertente. Ad esempio, può accadere che l’atelier chiami col nome di “trapezio” la sua linea di moda da reclamizzare. Poi, si chiederà al fotografo d’inquadrare nel contempo forme e figure (tanto astratte quanto materiali) di tipo relativamente simile. Si dà pure l’associazione “intellettuale” (letterale). Basta citare il caso in cui s’accompagna la messa in mostra degli abiti più nazionalistici (caratteristici d’una precisa cultura) con l’immagine della carta geografica che ci dichiara il loro Paese. Infine, a volte il legame fra l’indossabile ed il suo mondo all’esterno assume un tono parodistico. Ricordiamo la posa in cui la modella porta un indumento che contrasta volutamente sullo sfondo. Là, sarà stata “affibbiata” una caricatura, che magari “faccia svecchiare” i canoni socioculturali.

Per Barthes, in Francia sia i produttori cinematografici, sia in fondo le masse, considerano un “vero” attore solo chi posa fotografato dagli Studios d’Harcourt, a Parigi[5]. Ma là egli non lavorerà più! La ritrattistica funzionerà solo perché prima sarà stata allestita una qualche forma di vita mondana (ad esempio frequentando le feste, o svelando i propri sentimenti d’amore). Trattasi di momenti in cui l’attore, benché bravo, non dovrà mica recitare! Dentro gli Studios d’Harcourt si tratta d’osservare una posa “senza posa”. Sul palcoscenico, naturalmente non è mai possibile il “rilassarsi”.

Barthes allude al fondamento dell’istantaneità pregnante, dentro al “gesto” di chi recita. Si può ricostruire la fenomenologia del caso. L’attore migliore ha il compito d’incorporare in sé il “senso” appena ideale (od astrattamente concettuale) di ciò che deve “simboleggiare”, sul set. Certo non sarà molto semplice! L’attore eviterà d’esprimere meramente se stesso, a partire dalla propria bravura.

Ma forse emergerà un aspetto positivo. Fotografato agli Studios d’Harcourt, chi recita si prende una rivincita. Egli ha finalmente la chance di mettere in mostra il proprio volto, anziché quello del personaggio in cui immedesimarsi. Tuttavia, Barthes sembra negargliela. Agli Studios d’Harcourt, l’attore si farebbe comunque “trasfigurare”, solo in modo meno evidente (rispetto alla tradizionale recitazione). Sarà il problema dell’idealizzazione estetizzante. Passando dall’intimità della scena alla pubblicità d’un servizio fotografico (dove il fondale diventa quasi “cittadino”, nella confusione di persone ed ambienti che connota un party mondano), l’attore si fa trasfigurare, in modo tale da guadagnare un’eterna giovinezza. Egli perderebbe la “pesantezza” del trucco, o l’esaltazione innaturale delle corde vocali (declamando le battute stentoree). Diversamente, sul palcoscenico l’attore è forse materializzato. Egli di certo trasfigurerà se stesso, ma attraverso l’espressività, la gestualità, l’abbigliamento ecc… Così non c’è un’idealizzazione. Qualcosa che gli Studios d’Harcourt rischierebbero di sfruttare, per fini commerciali. Tutte le attrici che sovente immedesimano le amanti o le prostitute, là ricevono un’aura quasi “angelica”. Ma l’estetismo non riguarda solo la bellezza femminile, secondo l’immaginario collettivo. Agli Studios d’Harcourt, gli attori vorranno ostentare che loro, fuori dal palcoscenico, sono in realtà “normali” come tutti gli altri maschi. Noi li troveremo immortalati mentre fumano la pipa, o passeggiando nel parco col proprio cane.

Per Barthes, un’orgogliosa manifestazione di se stessi (di contro alla fittizia immagine per il ruolo che si deve recitare) diventa paradossale. Alla fine, gli pare che agli Studios d’Harcourt l’attore risulti “meno reale” di quanto accadrebbe sul proprio palcoscenico! La sessione fotografica presa in se stessa funzionerà bene assecondando la volontà “dell’affermazione personale”. Qualcosa che chieda una cura speciale per la posa. Da una prospettiva più sociologica, il farsi immortalare presso gli Studios d’Harcourt garantisce un ingresso stabile nella corporazione degli attori francesi. Torna sempre un interesse privato, dietro l’idealizzazione estetizzante. Immortalato presso gli Studios d’Harcourt, un attore guadagnerebbe subito in splendore espressivo e potenza intellettuale, molto più che limitandosi “classicamente” a recitare in un film.

Barthes preferisce soprattutto gli scatti d’avanguardia. Qualcosa che avrebbe anche contrastato l’impostazione “corporativa”, nascosta dagli Studios d’Harcourt. Per Barthes, bisognava premiare gli scatti di Therese Le Prat o di Agnes Varda. In quelli, s’inquadrava l’attore in modo tale che egli continuasse a recitare, preservandosi l’immagine pubblica, di tipo ovviamente professionale. Non sarebbe stato possibile il “mentire”, attraverso l’ingenuità d’una posa “senza posa”, innanzi alle fotografe Therese Le Prat ed Agnes Varda.

Barthes ha studiato l’estetica del music-hall (o del varietà)[6]. Normalmente, si percepisce che la temporalità del presente sia legata alla temporalità del passato e del futuro. Il ricordo o l’attesa accadono solo nell’immediatezza della vita. Per Aristotele, la rappresentazione teatrale può avere una trama sviluppata da un “nodo” ad uno “scioglimento”. L’evento “perturbante” che modifichi la situazione normale ci preparerà ad una situazione nuovamente normale. Per Barthes, il varietà “spezzerebbe” la dialettica nella teatralità di Aristotele. Esso avrebbe una temporalità essenziale, accadendo nella piena universalità di se stesso. Il varietà si percepirà nella mera immediatezza. Le sue situazioni rappresenterebbero solamente se stesse. Per Barthes, nel varietà avviene che una situazione gestuale s’unisce ad un oggetto materiale. Il ballerino ricorrerebbe ai pattini, l’acrobata “fronteggia” il trapezio od i trampoli, ecc… Nel varietà, sia la situazione gestuale sia l’oggetto materiale ci appaiono astrattamente universalizzati. Noi li percepiamo capaci d’immortalarsi (se il presente “si spezza” dal passato e dal futuro).

La fotografia di moda ci pare teatrale. Ma qual è la fenomenologia del suo “nodo da sciogliere”? Barthes dice che la moda appare sempre (per costituzione) in opposizione a se stessa. Quella necessita di rinnovarsi continuamente. Ma in aggiunta noi possiamo intendere in modo “serio” il rigore del vestito invernale, oppure più “allegramente” il vestito estivo, quando abbondano i colori vivaci e sgargianti. Barthes ammette che la posa dell’indossatrice alla fine ha il valore preminente. Ciò vale pure rispetto ai vestiti che si reclamizzano. E’ una conclusione che deriva dal principio per cui indossare significa partecipare alla “vita” d’un certo “mondo”. Quest’ultimo riguarda l’uomo, la società, la cultura. L’enfasi intorno allo sfondo degli abiti inquadrati contribuisce paradossalmente a potenziarne il significato concettuale. Ma la fotografia di moda ha una fenomenologia tramite cui “si spezza” il “rigore” del realismo per “annodare” il piacere dell’acquisto. In specie, varrà la percezione del glamour, o comunque del patinato. Il mondo fuori del vestito per certi versi è messo “fra virgolette”. Esso apparirà tutt’altro che normale. Caricato lo sfondo (in via intellettuale, parodistica, lirica, “divertita”), subito si spinge lo spettatore a tornare verso la percezione primaria, che inerisce al pubblicizzabile. L’abito diventerebbe forse più “rassicurante”, di contro a tutta la “stranezza” del suo mondo, all’esterno. La pubblicità inviterebbe ad indossare per guadagnare in normalità. Una prospettiva che resta più chiara, se il vestito fotografato fa la parodia d’un mondo che apertamente si respinge. Subito, esteticamente si potrà enfatizzare lo sfondo. Il fotografo suggerirà all’indossatrice di saltare, o di guardare frontalmente (verso il pubblico immaginario). Quindi, la percezione dell’abito sarebbe capace “d’esorcizzarle” l’anormalità in seno ai propri gesti. Quelli presi in se stessi parrebbero innaturali, artificiosi e poco spontanei.

Esteticamente, quanto un “esorcizzare” l’anormalità rischierà di percepirsi fin troppo “goffo”? Barthes ha anche studiato i disegni di Twombly[7]. Tramite quelli, di fatto s’espongono una serie di “scarabocchi”. L’artista usa un foglio di carta che è sporco, ovvero colorato già “da se stesso” (anche prima di voler migliorarlo!). In realtà, per Barthes solo la pagina d’uno scrittore rimarrà interamente (essenzialmente) bianca e “pulita”. Qualcuno che sia continuamente “ossessionato” dal bisogno di “sporcare” per primo! A fatica, si troveranno le parole più giuste. Ma analizziamo la fenomenologia del graffito. Esso non esprime né la percezione dell’iscrizione, né la comunicazione d’un certo messaggio. Il graffito serve a “trasfigurare” in chiave artistica il proprio supporto di base: un muro, una tavola di legno, un cartoncino ecc… Là, conterà esteticamente il suo “fondo”. Il muro, la tavola di legno, il cartoncino identificano subito un oggetto già dotato di “storia” (di senso). Immaginiamo le generiche “ambizioni” d’un artista. Egli tenta di conferire un significato a qualcosa che dapprima non ce lo esprime: una tela, un blocco di marmo, un tubo metallico ecc… Ma col graffito cambia tutto. Là, accade che la scrittura s’aggiunga in maniera quasi “eccessiva”, caricando di “senso” qualcosa che resta pur sempre (da tempo) significante. Esteticamente, non si percepirà solo un “miglioramento”. Il graffito va “sconvolgendo” un dato ordine di significati (che delinea già una certa “storia”, alla mera superficie di base).

La differenza con la scrittura è netta, secondo la fenomenologia. Il supporto d’uno “scarabocchio” appare tutt’altro che fondativo (o regolante). Lo scrittore inizia dalla pagina bianca, su cui però egli rispetta sempre la concatenazione grammaticale, con le argomentazioni che aprono pure al concettualismo. Per Barthes, il tratto non diviene sul serio artistico provando a muoverlo dentro “un’ondulazione”, che gli dia “un’intensità percettiva”. Anzi, meglio si farebbe a sbagliarlo in modo completo! Più precisamente, significa che si tratteggerebbe appena intuendo di farlo, senza la presunzione di conoscere già cosa rappresentarvi. Barthes ne approfitta per dire che l’intelligenza è sempre un po’ “goffa”. Essa si dà come tale anche perché consente lo scoprire qualcosa di nuovo (d’imprevedibile). Spesso l’intelligenza sfrutta l’intuizione. Questa per certi versi fa “sbagliare” (se rinunciamo a seguire il già conosciuto).

Si veda quando Twombly disegna due linee in parallelo, che poi finiscono paradossalmente per congiungersi, fra di loro. La percezione negativa che a lui sia “sfuggita la mano” (perdendo la simmetria della distanza) non avrà alcun valore. Accusare l’artista d’incapacità parrebbe troppo semplicistico! Barthes dice che nell’arte di Twombly si dà una “pigrizia” di disegnare”. Qualcosa che abbia comunque una vena concettuale, e mai per mancanza di tecnica. La pratica della scrittura pare sempre “impegnativa”. Là, vigono tanto le regole sintattiche o grammaticali, quanto i ragionamenti intellettuali. Anche il pittore dipingerà in modo tutt’altro che “pigro”! Là, bisogna che “si giochi” sul bilanciamento di più fattori in causa. Questi sarebbero l’intensità del colore, la “pesantezza” della forma, la precisione della linea, la dimensione, la prospettiva, ecc… Invece il disegno artistico di Twombly pare “maneggiato” con dis-grafia. Egli cerca una sorta di “pigrizia” estetica! Il risultato è quello d’ evitare la banalità dei canonici codici d’espressione grafica. L’artista non muove a caso la matita. Rapida, quella ci comunica che l’essenza d’ogni singola “cosa” starà nella sua “leggerezza” (rinunciando a “caricarla” grazie al concettualismo). La dis-grafia quindi non va percepita in via ingenuamente sbagliata. Anzi, quella attesta che l’intelligenza estetica di Twombly è di matrice “goffamente” concettualistica.

Col graffito, accade che la superficie di base si dia (a livello tanto percettivo quanto simbolistico) in modo essenzialmente “inadatto”. Quella “sconvolgerà” la “storia” del proprio tratto. Sarà un modo per “sporcare” ogni senso? Se osserviamo osserva il foglio d’un progettista, nessuno s’accorge del mero tratto, in chiave materiale. Là, c’interessa solo il senso (l’intelligibilità). Avendo davanti una scrittura a mano, l’interprete è spinto ad annotarvi anche gli elementi in apparenza più inutili: il movimento “nervoso” delle lettere, o quanto inchiostro “si getta”. Tutto ciò funge da supplemento al senso del messaggio. Ma sovente nel disegno d’arte accade che la materialità del tratto sia troppo “trascurata”. Parrà errato apprezzarne solo la composizione, figurativa od astratta. Allora Twombly si dedicherà agli “scarabocchi”, in maniera tale da “dissolvere” completamente il “senso” (l’intelligibilità) della propria estetica.

Resta la candidatura del simbolismo, a “prevenire” il rischio d’ogni “trascuratezza”? Sappiamo bene che la fotografia di moda sovente si percepisce come frivola. Sarà ad esempio “goffa” la preziosità del “ricercato a tutti i costi”. Di sicuro, l’arte fotografica non si limita ad inquadrare solo un soggetto in posa. In genere, il simbolismo tramite lo sfondo è una variabile quantomeno considerabile. Però, la fotografia di moda si distingue parecchio. Essa necessita di favorire che si venda un vestito. Un vincolo che esteticamente può “cedere” verso l’enfatizzazione!

Per Barthes, la moda costituisce un fenomeno socioculturale. Ma quella sarebbe tipica del mondo massificato. Ai nostri giorni, succede che il potere multimediale miri a controllare tutti i “gusti” personali del singolo acquirente, nel mercato capitalistico. La moda fonda un preciso “linguaggio” (di comunicazione testuale), anziché un “corredo” più o meno dettagliato d’immagini massificate (grafiche, stampate, televisive, pubblicitarie ecc…). Barthes afferma, apertamente, di seguire un orientamento strutturalistico. Per lui, le società umane sorgono nella misura in cui si deciderà di stabilire un dato (e molto preciso) sistema di regole culturali. Queste si farebbero più o meno universalizzanti (accettate da un buon numero di persone). Nel caso di Barthes, anche la moda (confermando l’assunto precedente, di stampo strutturalista) si trova a “comunicare” in maniera tale da seguire (liberamente, nel suo settore) un testo di norme convenzionali. Ora, va precisata la fenomenologia della massificazione. La moda non si farebbe intendere (giungendo a condizionare, facilmente, il “gusto” di qualsiasi persona) mediante le sole immagini da propinare, bensì perché quelle hanno una “chiave” (più o meno “malcelata”) di tipo concettuale (ovvero, già caricata da se stessa a strutturarsi).

Forse, la massificazione avrà un “corredo” di contrappunti. Le immagini prese dalle riviste di moda “faranno saltare la molla” d’una ricombinazione stilistica. Ricordiamo che quelle dovranno attrarre (soprattutto le donne). Più in generale, per Barthes, il senso organico del gusto funzionerebbe tramite un “approccio” multiplo e successivo. Subito, avanziamo una distinzione fenomenologica. Col tatto spesso non ci serve palpare. Il gusto soltanto approccia. Esso neppure palpa, ma entra per poi uscire, rispettando la cadenza d’un “accavallamento”. Per Barthes, chi gusta avrebbe letteralmente un “contrappunto” sulla lingua. La rivista di moda non è “sfogliabile” dalla bocca, ma propina immagini che “approcciano” con noi, e tramite un “corredo” di “chiavi” subliminali. Quelle chiederanno di farsi “dischiudere”, nella “molla” d’una massificazione pubblicitaria.

Ma possiamo allacciare il patinato della carta alla “gustosità” d’una pulizia? Il momento del bagno si percepisce fra le mani palpanti, anche solo contro la sommersione. Tale piacere modernamente si fa “approcciare” dalla pubblicità. Per esemplificarlo, Barthes ricostruisce la fenomenologia del detersivo in polvere[8]. Qualcosa che noi percepiremmo nella “moderazione” d’una pulizia, anziché nella “violenza” d’una distruzione. Le polveri del detersivo, molto semplicemente, separano lo sporco dal vestito. Non c’è alcun rischio che i tessuti possano rovinarsi! Per Barthes, il detersivo in polvere sembra l’evoluzione della lavandaia, che batteva i vestiti. Nei due casi, lo sporco andava separato. Per Barthes, la schiuma d’un modernissimo detersivo si percepisce in chiave borghese. Qualcosa che esageri la pulizia, quasi potendola gustare. Spesso nella pubblicità del bagnoschiuma appare una donna dalla bellezza irraggiungibile. Genericamente, Barthes s’avvicina a De Saussure. Sempre in via strutturalistica, la moda andrà avviando uno fra i tanti segni del convenzionalismo linguistico (prestabilito da ciascuna società, secondo l’antropologia).

Peraltro, Barthes si concede una piccola contraddizione. Egli pensa che le donne, leggendo le varie riviste d’abbigliamento, si convincano ad acquistare un certo indumento proprio guardandone le mere immagini (da pubblicizzare). Una conclusione che pare poco strutturalista, ed anzi alquanto storicistica.

Forse, la civiltà postmoderna avrà progressivamente “dimenticato” di presentare i prodotti di moda in chiave linguistica? Ad esempio, al tempo di Barthes si poteva rinunciare al semplice “rinforzo” d’applicare una didascalia, in mezzo alle immagini. Oggi la situazione è cambiata, e noi usiamo moltissimo il meme su Facebook! Tuttavia, se il messaggio pubblicitario (che qualunque rivista d’abbigliamento lascia trapelare) segue un impianto di codificazione comunicativa (sempre sistematico), quello non nascerà appena (banalmente) da uno storicismo. Barthes va risolvendo il vero incipit della moda, nel corso del tempo, tramite lo strutturalismo. Egli non ritiene (in maniera “più semplice”) che una certa società decida di fondarsi, quasi all’improvviso, un chiaro corpus di “ri-vestimenti concettuali”. Barthes precisa pure l’antropologia delle lettrici molto interessate alla moda. La ricezione pubblica d’un “sistema” per l’abbigliamento non si svilupperebbe mai da un puro “caso” della statistica. Sarà anzi falso che le donne si convincano unicamente dal proprio “gusto”, guardando le immagini degli abiti pubblicizzati, sul depliant. Là, vale sempre un’illusione di fondo[9]. Sarà errato l’auto-compiacimento, nel credere che una singola acquirente detti da sola il mero trend del marketing odierno, anche al suo sfogliare le belle riviste di moda. Al massimo, si possono sfruttare delle opportunità. Il pubblico veicolerebbe la moda del momento (seguendo un calcolo banalmente statistico). Tuttavia, per Barthes a monte c’è un sistema di condizionamento culturale che non nasce mai per caso. Qualcosa che al massimo il pubblico veicolerà.

Barthes ricostruisce la fenomenologia dell’oroscopo, sfogliando le pagine delle riviste per donne[10]. L’astrologo non descriverà un mondo banalmente “onirico”, bensì quello “borghese” delle sue lettrici. Allora, l’oroscopo si misurerà nel ritmo della vita settimanale, da impiegati. Nella sezione chiamata Il tuo cuore, l’astrologo descriverà il giorno libero del Sabato, o della Domenica (quando conoscere gli altri sarebbe più facile, uscendo di casa). La Fortuna dipenderebbe dai momenti introspettivi, senza lo stress del lavoro. Nella sezione A casa, l’oroscopo tratterà la convivenza in famiglia (dopo aver cenato, o prima d’andare a dormire). Per Barthes, gli astri non rovescerebbero l’ordine del nostro mondo, “limitandosi” a svilupparne “le influenze”.

Nel caso dell’abbigliamento femminile, si percepirà forse “un oroscopo” del gioiello? Per molti secoli, prima d’iniziare ad indossarlo, quello era stato meramente un tipo di minerale. Conservato nelle “viscere” della Terra, il gioiello si percepiva d’una bellezza oscura e rovente. Estraendolo, esso inevitabilmente si raffredderebbe. La fisica c’insegna che il nucleo terrestre (avente ferro e nichel) arde a temperature molto elevate. Da un’ottica più religiosa, esiste il fuoco infernale. Di conseguenza, il gioiello avrebbe una vena quasi inumana. Religiosamente, l’inferno è popolato da chi peccò contro i suoi simili. Più “laicamente”, invece, i minerali si classificano pure in base alla loro durezza. Fra questi, eccelle il preziosissimo diamante. Barthes scrive che la pietra è inumana da percepire. Essa non vive, né rappresenta la vita d’una volta (ed ora annichilita). La pietra ha la fenomenologia dell’inerzia. Essa è “imperturbabile”, restando sempre allo stesso modo per molto tempo. Così l’inerzia della pietra si materializza duramente. Una volta estratto dalle viscere della Terra, il gioiello “raffredderebbe” la sua bellezza, guadagnando d’imperturbabilità. Noi lo vogliamo nell’illusione che esso ci conduca verso una dimensione trascendente. Il gioiello libera una purezza di taglio asettico. Propriamente non lo vivremmo, nell’imperturbabilità della nostra trascendenza. Certo il gioiello brilla facilmente, ma sempre nella “freddezza” d’uno spazio irreale.

La preziosità pare addirittura “sfogliabile”, nei disegni di Erté[11]. Lì, noi vediamo una donna, avente la testa da cui parte una “misteriosa” pseudo-capigliatura. Qualcosa d’accessorio, che arriverebbe persino a toccare il pavimento. Alla fine, noi percepiamo che la figura consti di pennacchi, aureole, appendici, veli. Secondo Barthes, Erté avrebbe visualizzato una sorta “d’apoteosi” organica. La capigliatura “accessoria” per pennacchi, aureole, appendici o veli si troverebbe a “duplicare” la figura umana, come a “rafforzarne” la presenza. Così, l’organismo si percepirà “nell’apoteosi” di se stesso. Spesso, la donna disegnata da Erté avrà la testa “emanante” un “tubo” capelluto. Quello raggiungerebbe per “volute” la vita, e come conferendo “un’aureola” alla schiena. Non sarebbe più un’acconciatura, bensì una membrana “aggiuntiva” per il corpo. Assunta una conformazione ad arco, oltre la schiena, la pettinatura certo “straordinaria” finirebbe visivamente a “reiterarsi”. I capelli tornerebbero intorno alla vita. Per Barthes, la testa diventerebbe per metà “solare” e per metà “vegetale”. La “chioma” dei capelli disegnerà, oltre la schiena, una sorta di gittata. Quella “sorgerà” sulla testa, sino a “tramontare” nella vita.

Per Barthes, l’acconciatura storicamente nasce dalla volontà di reiterare i braccialetti, le collane, le sciarpe, gli strascichi ecc… Elementi che noi percepiamo capaci d’allargare il volume corporeo. Nell’età moderna, l’avere una pettinatura “a chioma” era esteticamente “prestigioso”. Nei disegni di Erté, i capelli d’allargamento al corpo simboleggerebbero la necessità per l’artista di creare, trasformando la normalità. Nello specifico, a lui interessa l’ambizione prettamente delle donne ad avere una silhouette. Qualcosa che per Erté andrebbe immediatamente letta. Nella fenomenologia della moda, la silhouette permette alla donna d’emanare un fascino. E’ proprio un allargamento della corporeità, anche perché questa si vedrà realmente “sinuosa”. La silhouette per Barthes andrebbe letta, avendo un’essenza molto concettuale. Erté disegnava le strane pettinature delle donne in maniera tale che il loro corpo riproducesse una lettera dell’alfabeto[12]. Subito, uno sguardo maschile doveva “leggerne” la silhouette.

Per Barthes, certo la moda viene regolamentata in via del tutto processuale. Nel corso del tempo, essa parrà diversamente continuativa. Con la moda, la scelta di “rimuovere” un certo paradigma di riferimento in via linguistica e concettuale manca sempre d’avvenire tramite una frattura. Tornerà la fenomenologia del veicolare? La moda non si sistemerà mai lungo una fila di cambi radicali sul “gusto”. Barthes conferma il suo strutturalismo. Qualsiasi trend del “vestito” nascerà in base al primo corpus di “regole tessili (d’abbigliamento)”, che poi si preferisce abbandonare.

Lo stesso accadrà nelle “aspettative” più “idealisticamente” rivoluzionarie! A prescindere da chi sia capace d’incanalare verso le “nuove tendenze” (lo stilista, il pubblico, il venditore ecc…), il canone concettuale in quelle sembra a Barthes sempre di stampo metalinguistico[13]. Egli dunque prova a ricostruire meglio la fenomenologia della diversità continuativa. La moda cambia in maniera solo processuale (ovvero, mediante una serie di piccole variazioni, quasi contestuali). I vestiti vengono letteralmente ri-vestiti. Noi li percepiremo sotto una “nuova forma”. Quelli in fin dei conti sono sempre gli stessi.

Barthes ci ricorda che, prima della Rivoluzione francese, alle classi sociali corrispondeva un preciso modo di vestire. In seguito, la situazione cambiò. Almeno la popolazione maschile volle ricorrere all’uniforme. Infine, col trionfo della democrazia, sparì ciascuna divisione per classi sociali. L’abito s’universalizzò principalmente attraverso l’etica del lavoro, mentre l’uomo andava percepito nella vita pubblica. La ricerca dell’apparenza smise di contare. Questo accadde mancando soprattutto l’individualismo nel privato aristocratico.

Barthes s’accorge che un imporsi della moda cancellerebbe il dettaglio “singolare” del vestito, ma (paradossalmente) riproducendolo il più possibile. Pure un dandismo “accessibile” continuerebbe a piacere. L’importante è che esso valga per tutti (o quasi)! La moda non commercializzerebbe tanto il vestito X, bensì il vestito X “avente i dettagli Y, W o Z”, per così dire.

Barthes aggiunge che il dandy voleva distinguersi dalla volgarità. A questo scopo, la scelta degli abiti era importante. Quelli si facevano dettagliare il più possibile. Il dandy poteva correggere da solo gli abiti. Egli vi aggiungeva o vi toglieva degli elementi, agendo in maniera almeno artigianale. Qualcosa che si percepisse nella “cifra” di se stesso. Soltanto la “cerchia” del dandysmo poteva conferirgli un valore. Dopo la nascita della boutique, però, anche i vestiti più raffinati furono “standardizzati”, senza dettagliarsi a titolo personale. Ciò determinò la fine del dandysmo, almeno escluso un suo ritorno, grazie alla massificazione del vintage.

Per Barthes, nel Novecento la moda tramite cui s’enfatizza la cultura orientale, di contro a quella occidentale, alla fine va paradossalmente “svilendo” la prima. Bisogna ricostruire la fenomenologia affettiva del caso[14]. Non è corretto, né utile, amare una civiltà unicamente perché quella esprime il tipo di vita che “si desidererebbe” per se stessi. Agli “occhi” degli occidentali, l’Oriente pare essenzialmente esotico. Là, mancherebbe uno stress quotidiano (grazie alla chance di ricevere più “pause d’esistenza”, utili a prendersi cura d’un tempo libero). Ma per Barthes sarà un’immagine appena romanzata, secondo l’estetismo. Qualcosa che gli occidentali “filtreranno”, tramite dei pregiudizi intellettuali, in se stessi mai “innocenti” (obiettivi). Può anche darsi che una moda per l’Oriente alla fine provveda di contro (paradossalmente) ad attenuarne il “fascino”. Si tornerà così a ritenere migliore la vita occidentale. Sicuramente, Barthes invita a non conoscere la cultura altrui con la banalità del “documentarista”. In caso contrario, si rischia d’enfatizzare la civiltà orientale. Quella sarà “colorata” di tanti significati, unicamente perché noi la differenziamo (e chissà quanto più nel bene che nel male!) dalla nostra.

Per confermare le tesi dello strutturalismo, Barthes si concede pure qualche “divagazione” dentro l’antropologia. Così, egli ad esempio immagina che, se una donna si spoglia, lei lo fa unicamente al fine di rivestirsi. Possiamo studiare tutta la dialettica del caso. La nuda pelle del corpo femminile rappresenta un altro abito che ricopra, ma semplicemente a “parlarci” in modo diverso (alludendo al desiderio sessuale). Barthes torna alle origini dell’antropologia. A lui pare che l’uomo sia nato (facendo la sua comparsa sulla Terra) in maniera comunque “vestita”. Ovviamente, si percepirà una differenza. Accade che la caratteristica pelle va codificando numerosi “linguaggi del corpo” (a seconda di come la proteggiamo).

Per Barthes, è vero che la moda “parlerà continuamente di sé”. Ciò succede siccome gli abiti, propinati dalla pubblicità, si richiamano sempre gli uni sugli altri. Neppure conterà molto la loro variazione a livello di stile. Nella prospettiva di Barthes, il caratteristico abbigliamento denota la dimensione solo “storicistica” in seno al trend del vestito. Ma c’è anche un contraltare. Il costume definisce l’essenza strutturalista dell’abbigliamento. Quella inoltre funzionerà alla base di qualsiasi variazione per stile[15]. Il costume ci “comunica” il proprio corpus di norme convenzionali, in modo dunque parlato. E’ la dimensione più importante, secondo lo strutturalismo. Nel costume, si può riconoscere bene la funzione metalinguistica. Per Barthes, tale dimensione resta persino di stampo mitologico. Una percezione tutt’altro che storicistica. A confermarcelo, è la ricerca antropologica. Basta accettare che la semplicità della pelle nuda andò a costituire “il primo abito” di moda. Certo quello fu improvvisamente “affibbiato” ad Adamo! Per via dello strutturalismo, la storia del vestito “si comunica” rigorosamente da sola. Anzi, la moda attesterà l’autonomia del suo procedere pure in ambito contemporaneo. Qualcosa che valga indipendentemente dal potere di ricezione in seno ad un pubblico immediato, tramite la multimedialità.

Una storia del vestito “si direbbe” dapprincipio (necessariamente) in maniera metalinguistica. Il processo diventa inarrestabile. La mitologia del costume per Barthes oggigiorno concerne la rivista d’abbigliamento. Tramite quella, a volte ci poniamo degli obiettivi capitalistici che sono ambiziosi al massimo. Fondamentalmente, si vorrà coinvolgere ciascun lettore a diventare in aggiunta un compratore. Barthes ci ricorda una teoria dell’antropologo Kroeber[16]. Così, si può rinvenire una legge del costume universale. Quella confermerà che il mutamento dentro la disparità dei tratti vestiari avanza in via regolarmente ciclica. Conterà un’estetizzazione inserita nello strutturalismo? Si ripeteranno eguali le soluzioni formali, nel corso del tempo. Pare che per Barthes non sia mai esistito un abito capace di nascondere o di coprire completamente (definitivamente). La rivista di moda appare “estetizzante”, in quanto deve variare gli stili, ma secondo il capitalismo. Più in generale, a livello strutturalistico c’è un “mito” del “vestito metalinguistico”[17]. Questo andrà di pari passo con la storia d’ogni “chance” per un progresso concettualistico, nella civiltà umana. Si noti che le moderne riviste di moda sono patinate, a percepirsi virtualmente tramite una “carta nuda”. Quelle oggi contribuiscono a raccontare per sempre una mitologia del costume, prescindendo dalle singole differenze di stile. Per Barthes, i vestiti vanno sempre percepiti nel “ritmo” di se stessi. La riproposizione quasi “parlata” d’un codice stilistico può essere accelerata, o di contro rallentata, a seconda del momento storico che una società vive.

Per Barthes, ciascun segno ha una vena ripetitiva. Noi lo pensiamo rinviato a qualcos’altro, che più precisamente darà il significato. Ma citiamo i cinque sensi dell’uomo: la vista, l’udito, l’olfatto, il tatto, il gusto. In questi, la dimensione del segno si concettualizza senza che noi la percepiamo nel rinvio di se stessa. Per Barthes, ciascuno dei cinque sensi si darebbe nello “sguardo” della materia cui si riferisce. E’ assai importante distinguerlo dalla mera vista. Quest’ultima si “focalizza” sempre, mentre l’occhio trova i limiti del suo oggetto, all’esterno. S’immagini il dare il segno d’uno sguardo. Questo per Barthes avrebbe un significato circondato da un “alone”. Qualcosa che noi potremmo comprendere in via appena “impressionale”, senza più delimitarla. Dando uno sguardo, si lascia un segno il cui significato non “si ripete” dal primo, bensì “lo fa traboccare”. Adoperati i cinque sensi, la materia cui essi si riferiscono appare “nell’espansione” più indefinita di se stessa. Lì, la nostra percezione non è di tipo stabilizzante, bensì da sempre dinamica. Con la vista s’osserva, col tatto si palpa, con l’udito s’ascolta, con l’olfatto s’annusa e col gusto si assapora: ma con tutti “si guarda”. Non è casuale che noi tendiamo a percepire i cinque sensi immaginando il loro riferimento (in via oggettiva). Torna dunque l’estetica dell’atrofizzazione. L’atto del “si guarda” coi sensi avviene nella continua “espansione” d’un proprio “alone”, sul riferimento oggettivo.

Da sempre, accade che il corpo umano sia insignito d’un valore quasi “sacrale”. Nel cristianesimo, quello ad esempio si sottopone ai comportamenti di tipo rigorosamente morale. La carne di Gesù ha certo una sacralità. In seguito, il medioevo sviluppò l’alchimia. Qualcosa che avrebbe caricato la corporeità d’un valore esoterico. Barthes ricorda che nel Novecento è essenzialmente lo sport a continuare tale “storia” (mito) della sacralizzazione carnale. Subito s’intraprenderà una direzione appena laica. Oggi si tende a pensare che l’attività fisica (anche in via amatoriale) non dia tanto un “divertimento”, quanto piuttosto la possibilità di mantenersi in buona salute. Ma tale conclusione rimarrà abbastanza “sacralizzante”, sebbene da una prospettiva laica.

Per Barthes, l’effige di qualche corpo è la riproduzione (pittorica, fotografica, televisiva ecc…) di quello assegnandogli il significato d’una mera immagine, e nient’altro di più. Nelle società antiche, contavano massimamente gli uomini potenti o ricchi. Non tutti potevano permettersi il costo di pagare un artista, in grado di ritrarre con perizia. Conseguentemente, i nostri antenati sentivano assai di meno il bisogno d’ostentare una loro immagine. Alla fine dell’Ottocento, la mentalità muta. Quando nasce la fotografia, l’impulso ad ostentare una propria immagine si diffonderà su larga scala. Da qualche anno, noi utilizziamo il social network che si chiama Facebook. Per certi versi, quello simboleggia bene il più spontaneo, ed abitudinario, narcisismo dell’uomo moderno. Quando Barthes scrisse i suoi saggi d’estetica, egli aveva in mente la potenza del mezzo televisivo. Nelle società antiche, il narcisismo era limitato a certe situazioni della vita, fra cui senza dubbio spiccavano le cerimonie ed i riti in comunità. Modernamente, invece, le occasioni per socializzare aumentano. Ci saranno le “feste” allorché noi frequentiamo le discoteche, prenotiamo le cene al ristorante, presenziamo al vernissage d’arte ecc… Ma quanto la loro fenomenologia sarà sempre “spettacolarizzante”? Con mille opportunità per “divertirsi”, la gente diventerebbe così abituata a desiderare il party mondano, da andarci paradossalmente con l’abito da casa o da lavoro. Alla fine, si sarà indotti a “misconoscere” l’apparente “eccezionalità” dei medesimi momenti. Fra le mille opportunità per “divertirsi”, nel Novecento emerge quella del turismo, anche grazie alla sua vena d’evasione (dalla mera quotidianità, a lavoro od in famiglia). Barthes ne approfitta per analizzare Verne. Tale romanziere avrebbe adoperato l’immaginazione del viaggio per esplorare la chiusura. Almeno in epoca contemporanea, lo spirito d’avventura è stato rimpiazzato dalla comodità del turismo. Per Barthes, i libri di Verne mostrano che nulla può sfuggire agli ideali borghesi. Approdati all’isola deserta, e dei propri sogni, comunque ci rilasseremo in pantofole, con la pipa all’angolo del fuoco (mentre fuori la tempesta oscura quanto la giungla).

Per concludere, si può tornare al caso dell’abbigliamento. Si registrerà che la spettacolarizzazione di massa (con troppe occasioni per un “divertimento”) progressivamente accantona il piacere di vestirsi in modo “straordinario”. Ma potrebbe accadervi pure un paradosso. La gente inizierà ad “eccitarsi” di più, rinunciando del tutto ai propri vestiti. Si citi di nuovo la pratica sportiva. Essa in genere spingerebbe a spogliarsi un po’, siccome la sudorazione della pelle (dall’atrofia “positiva”!) “sporcherà” gli abiti. Una concezione che nella mentalità antica era assente. Allora, l’attività fisica serviva in prevalenza per allenare al combattimento in guerra. Grazie a quest’ultima, gli uomini si vestivano molto, indossando pure l’artificiale: dall’elmetto, dalla corazza, dallo scudo ecc…

Barthes studia esteticamente il Tour de France[18]. I ciclisti vi partecipano avendo lo stato di forma (vigente l’equilibrio psicofisico, con tutta la sua sicurezza “razionalistica”) e l’improvvisazione dello scatto (una capacità quasi “divina”, percepibile dentro l’illuminazione delle gambe, che ricevono la forza della grazia). Il Tour de France mostrerebbe differenti situazioni a taglio “moraleggiante”. In queste, noi assegneremmo un valore al modo di pedalare. Barthes giudica che il Tour de France sia inevitabilmente ambiguo. Ad esempio, tutti gli idealismi “cavallereschi” (per cui va dato il cambio durante le fughe, oppure s’aspetta l’avversario caduto) si mescolerebbero di continuo ai richiami individualistici (i quali giustificano il mero successo). Spesso, una lode al gregario (sacrificatosi per il proprio capitano) pare semplicemente imposta, dal direttore sportivo.

Louison Bobet era un “calcolatore”, partito sempre in stato di forma. Barthes lo chiamò un “ciclista prometeico”, potendo rubare a Dio l’utile perfezione dell’intelligenza, “raffreddato” tutto il fuoco dell’intuizione tramite l’applicazione d’una conoscenza definitiva. Gaul invece sapeva unicamente scattare. Egli divenne un vero e proprio “arcangelo della montagna”. Gaul riceveva all’improvviso da Dio il dono della leggerezza nelle gambe, potendo involarsi in salita. Percepito in via angelica, Gaul pedalava come se “annunciasse” se stesso. Chi scatta, in effetti, visualizza che il primo passo abbia una chiara destinazione (verso la testa del gruppo). Lo stesso Gaul ammetteva di faticare a correre in pianura, dove gli angeli finiscono per scomparire (senza le “alte vette” del Paradiso).

Dunque, il Tour de France si percepirebbe fra le occasioni d’idealismo sentimentale e le logiche pragmatiche con più strutturalismo. Una dialettica che, forse, distingue la stessa vita? Conosciamo i bisogni del corpo, e tuttavia conferiamo loro una vena morale (mentre li soddisfiamo, nel tempo del presente). Barthes ritiene che il Tour de France idealizzi il mondo delle “diversità caratteriali”. Louison Bobet è il “calcolatore”, Gaul sembra un “mistico”!

Di frequente, i giornalisti sportivi assegnano ai grandi ciclisti un nomignolo, che ha una vena quasi “etnica”. Se ne ricaverà una fenomenologia estetica. Un etnologo comincia dalla constatazione che esistono degli esemplari. Il ciclista nel Tour de France termina la sua corsa; ma sa che il giorno dopo egli ricomincerà a pedalare. La manifestazione è per tappe, cosicché ciascuna di queste serve ad esemplificare. Il Tour de France sembra “etnologico”, avendo un suo ciclo di vita, dove risaltano le gesta dei corridori più bravi ad “adattarsi”. L’assegnazione d’un nomignolo permetterà loro di “stabilizzarsi”, oltre le varie ripartenze. Alla fine, il grande ciclista verrà mitizzato. Massimamente, noi ce lo ricorderemo grazie al suo nomignolo. Questo sarà caro tanto alla stampa sportiva quanto alle tifoserie. Si giustificherà una grande “familiarità” col ciclista. Il nomignolo si percepisce come “leggero”, intriso da un’ammirazione quasi voyeuristica. Torna così la percezione “atrofizzante” in merito al metalinguaggio della moda.

Per Barthes, al Tour de France gli elementi della natura (le montagne, i giorni piovosi, la fatica nelle gambe ecc…) o della strada (le salite, le volate, il pavé ecc…) andranno sempre a personificarsi. Il ciclista è tale anche dovendo misurarsi con le asperità. Sembra che lui si trasfiguri materialmente, divenuto in se stesso la natura o la strada. Una salita ad esempio conta esclusivamente per la sua percentuale di pendenza. Essa assumerebbe un’estetica, secondo la prospettiva antropologica. La tappa parrà “infiammata”, “vischiosa”, “irta” ecc… a valle delle condizioni naturali, o per come si dispongono i ciclisti in strada. Il traguardo d’una città sul mare diventa “caldo ed energico” (con la possibilità che vediamo una volata), mentre il traguardo in mezzo al pavé è “pungente nella sua resistenza” (favorendo la fuga di pochi passisti). Il Tour de France prevede corse diverse. Il ciclista aderirà sia alla natura sia alla strada. Barthes ci ricorda il Monte Ventoso, dove vale la mitizzazione della sua salita. I passi alpini o sui Pirenei garantiranno al ciclista la chance della comoda discesa, dal versante opposto. Ma il Monte Ventoso è soltanto da scalare, con la strada che termina nella sua cima. Barthes ne rammenta il clima astrattamente indefinito (per la mancanza di vegetazione, nella secchezza del terreno). Qualcosa che per il ciclista si percepisce in via quasi “dannata”. Egli s’impersona nella natura o nella strada, per affrontarla meglio.


[1] R. BARTHES, Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1994, p. 270

[2] R. BARTHES, L’ovvio e l’ottuso, Einaudi, Torino 2001, p. 58

[3] R. BARTHES, La camera chiara, Einaudi, Torino 2003, p. 47

[4] R. BARTHES, Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1994, p. 90

[5] R. BARTHES, Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1994, p. 15

[6] R. BARTHES, Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1994, p. 175

[7] R. BARTHES, L’ovvio e l’ottuso, Einaudi, Torino 2001, p. 157

[8] R. BARTHES, Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1994, p. 28

[9] M. BALDINI, Semiotica della moda, Armando Editore, Roma 2005, p. 24

[10] R. BARTHES, Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1994, p. 163

[11] R. BARTHES, L’ovvio e l’ottuso, Einaudi, Torino 2001, p. 111

[12] R. BARTHES, L’ovvio e l’ottuso, Einaudi, Torino 2001, P. 113

[13] M. BALDINI, Semiotica della moda, Armando Editore, Roma 2005, p. 20

[14] R. BARTHES, Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1994, p. 160

[15] M. BALDINI, Semiotica della moda, Armando Editore, Roma 2005, p. 198

[16] M. BALDINI, Semiotica della moda, Armando Editore, Roma 2005, p. 47

[17] R. BARTHES, Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1994, p. 197

[18] R. BARTHES, Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1994, p. 108


Paolo Meneghetti

Paolo Meneghetti, critico d’estetica contemporanea, nasce nel 1979 a Bassano del Grappa (VI), città dove vive da sempre. Laureato in filosofia all’Università di Padova (nel 2004), egli ha scritto una tesi sull’ estetica contemporanea, in specie allacciando l’ ermeneutica di Vattimo alla fenomenologia francese (da Bachelard, Bataille, Deleuze, Derrida). Oggi Paolo Meneghetti scrive recensioni per artisti, registi, modelle, fotografi e scrittori, curando eventi (mostre o conferenze) per loro, presso musei pubblici, fondazioni culturali, galleristi privati ecc... Egli in aggiunta lavora come docente di Storia e Filosofia, presso i licei del vicentino.

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