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Capogrossi, Ong e la “pettinatura vocale”

(courtesy to rivista Kritika, che in origine aveva pubblicato questo articolo)


A Venezia, dal 29 Settembre 2012 al 10 Febbraio 2013, presso il Museo Peggy Guggenheim si può visitare la mostra Capogrossi: una retrospettiva. A curarla, è stato il noto critico d’arte Luca Massimo Barbero. I quadri di Giuseppe Capogrossi (uno fra i maggiori pittori del secondo dopoguerra) si riconoscono facilmente per il dettaglio del cosiddetto tetradente. Dipinto a partire dal 1949, esso identifica un segno, tendenzialmente a forma di “pettine”. Comunque, la retrospettiva di Capogrossi a Venezia ci mostra tutto il suo “percorso estetico”. Nel primo dopoguerra, lui comincia a dipingere essenzialmente influenzato dalla metafisica di De Chirico e dal cubismo di Picasso o Braque. Ma allora ci divertiremo a scovare le prime “suggestioni” del tetradente, ancora “grezzo” a livello concettuale. Nel quadro che s’intitola Ballo sul fiume (del 1935, ad olio su tela), Capogrossi ci mostra un gruppo di bagnanti. Le loro figure sono muscolose, avendo dunque la stessa “concavità da manichino” cara a De Chirico. L’architettura metafisica (col suo geometrismo), però, perde i toni più “oscuri”, aperta pure visivamente (col gazebo, dove alle travi mancano le tende, facendo così passare i raggi solari). In alto, i vari gonfaloni potrebbero librare nel cielo. In realtà, il quadro non va percepito in via troppo “spensierata”. Tre persone guardano verso di noi, come se la nostra presenza ne avesse disturbato il piacevole ballo. In loro, aleggia un’aria “un po’ sospettosa”. L’eventuale “invadenza” del nostro sguardo farebbe da “contraltare percettivo” per i gonfaloni, se questi volassero via, salendo in cielo. Il quadro è dipinto da Capogrossi nel 1935. L’Italia ha già conosciuto il “tifone” del totalitarismo (con la propaganda che toglie la “spensieratezza” allo “sbandieramento” delle idee). Inoltre, nel 1939 le persone cominceranno a “sgranare gli occhi”, innanzi al dramma della Seconda Guerra Mondiale.

Nel quadro Ballo sul fiume, un gonfalone bianco si vede “dentellato”. Capogrossi narra che da bambino, all’età di dieci anni, si recò con la madre in un istituto per ciechi. In quel momento, lui ebbe l’intuizione del tetradente. Alcuni bambini disegnavano più linee “vivaci”, di colore nero. Naturalmente, quelle non rimandavano a figure reali (impossibili da conoscere, per il cieco). Capogrossi però aveva capito che pure l’interiorità era disegnabile. Quando nel 1949 lui espone il primo tetradente, questo si percepisce in maniera essenzialmente geroglifica. La forma basilare “a pettine” dovrebbe pungere, e tuttavia il tratto è ampio, per cui lo vediamo “appesantito”, cercando la stabilizzazione. Inoltre, il tetradente ha nel “manico” la “gobba”. Conosciamo le scritture rupestri, agli albori della civiltà. In quelle, spesso si cerca di rappresentare una scena di caccia. Guardato con le punte per terra, e la “gobba” in alto, sembra che il tetradente si configuri come la miniatura d’un “tozzo animale”: forse un elefante, una mucca od un cavallo. Capogrossi andrà “a caccia” della sua interiorità. Guardando la “gobba”, sempre si parte da un primo punto “a terra” per trovarne un altro. Lì, avremo la percezione d’uno scavo. Con la “gobba”, letteralmente si alzerà un po’ di terra per poi lasciare che questa sprofondi. Qualcosa di simile accadrà nell’interiorità. Questa “s’alzerebbe”, tramite le più intense emozioni, salvo poi “sprofondare” nei sentimenti (i quali tendono a trapassare, ossia a perdurare nello “svanimento” della loro immediatezza). E’ così ammissibile che la gobba visivamente simboleggi l’interiorità. Qualcuno percepirà che la “dentatura” possa calamitare. Mediante la “gobba”, inizialmente il tratto dovrà uscire verso di noi (per i nostri sguardi). Esso però alla fine sprofonderà nel quadro. La linea curva della gobba potrebbe segnalarci il limite d’un campo magnetico. Su questo, cadrebbe il nostro sguardo, dopo aver seguito i denti. Percepiti in maniera “magnetica”, i dipinti di Capogrossi parranno d’una “materialità interiore”. Il nostro sguardo letteralmente finirà per “attaccarsi” alla “profondità” di se stesso. Noi conosciamo la materialità mediante i sensi. Questi ci attaccano al mondo. Per Capogrossi, il tetradente si farà dipingere non rappresentando nulla di materiale. Il nostro sguardo sarà calamitato, ovvero attaccato verso la profondità (od “interiorità”) di sé. In via percettiva, ci sembra un accentramento. L’attaccarsi fra due enti ne mantiene una delimitazione: anche per questo, lo pensiamo nel materialismo dei sensi. Invece, nell’interiorità bisogna accentrarsi. Capogrossi dipinge quattro denti, come classicamente gli elementi naturali (l’acqua, la terra, il fuoco, l’aria). La “gobba” ci consente d’interiorizzarli nel loro insieme, quindi da accentrati. Per Capogrossi, la sua pittura mostrava lo spazio dove nascono sia le opinioni sia le azioni dell’uomo. Se il tetradente rientrasse nel geroglifico, lì avremmo un background estetico più vicino all’oralità che all’alfabetismo. Pure il grande critico d’arte Giulio Carlo Argan studiò la pittura di Capogrossi. Per lui, il tetradente andrebbe percepito tramite l’orizzonte della “curva” ed i piani del vissuto sulle punte. Complessivamente, tale figura cercherebbe di possedere lo spazio pittorico, con la perentorietà del “timbro”. Argan pensa che il tetradente si percepisca in via magnetica. Una timbratura accade sempre con forza ed immediatezza. I quadri avrebbero pure un loro campo magnetico. Ad esempio, spesso avviene che i numerosi tetradenti si collochino l’uno di fronte all’altro, così da allacciarsi sulle punte. Se visti in successione verticale, li percepiremo in figura quasi “elicoidale”. Sembra che torni il simbolismo dell’interiorità. In biologia, conosciamo la struttura a doppia elica del DNA. Essa ha le basi azotate dell’adenina, della timina, della citosina e della guanina: quattro in tutto, come nel “pettine” di Capogrossi. Il DNA identifica il livello materialmente “più interiore” della vita. Per Argan, i vari tetradenti messi in fila giungeranno a fluttuare, mediante alcune catene attanagliate. Nell’immagine del DNA a doppia elica, si vede qualcosa di simile. Se Argan reputa che il tetradente virtualmente si timbri sulla tela, per noi sarebbe più interessante percepirlo in via orale, come se quello “ci parlasse”. La figura geroglifica in tutti i casi rientra nella civiltà della scrittura. Il tetradente di Capogrossi avrebbe letteralmente un “timbro vocale”. I suoi dipinti “ci parlerebbero” dell’interiorità. La voce proviene dalla laringe, e noi non possiamo vedere né la prima né la seconda. Nei dipinti di Capogrossi, i “denti” del “pettine” saranno da immaginare entro una sorta di “bocca” per l’interiorità.

L’antropologo Walter Jackson Ong ci ricorda che nelle culture orali “primarie” nessuno ha mai cercato una parola tramite un classico dizionario. La scrittura era ancora sconosciuta. Così, alle parole in quanto tali mancherebbe una presenza visiva. Ove qualcosa possa esistere (anche solo astrattamente), con la scrittura si vorrà materializzarla “per noi”. Ciò che semplicemente (naturalmente) si veda, avrà bisogno di stabilizzarsi nella nostra riflessione intellettuale. La scrittura di qualcosa lascia che questa“si ri-materializzi” astrattamente. E così una semplice visione si rende “presente” a se stessa, stabilizzata da una riflessione intellettuale che si schermi. Gli uomini che vivono nella cultura orale “primaria” ovviamente incontrano le cose materiali (nel mondo). Ma, senza la scrittura, quelle si possono solo vedere, e non vedere “nella presenza di se stesse”. Ogni parola si percepirà come un semplice suono. Qualcosa che possiamo richiamare, ma non ricercare. Al suono, manca la presenza “a se stesso” (“ri-materializzata” dalla nostra riflessione intellettuale). In via fenomenologica, una ricerca presuppone sempre che abbiamo “una precisa mira” su qualcosa, mentre il richiamo tende a “perdersi nel vuoto”. Le parole della cultura orale “primaria” letteralmente non sono “rintracciabili”. Per Ong, esse andrebbero solo accadendo. Più che il loro “inquadramento” concettuale, conta la loro “contestualizzazione” spaziotemporale. Tutte le sensazioni umane accadono, ma nel suono con modalità diverse. Quello esiste solo nel momento in cui sparisca. Invece, con la vista noi sentiamo sia il movimento sia la staticità, ma preferendo la seconda (che finisce per annullare il primo). Gli occhi funzionano meglio, se la loro immagine non sparisce. La vista tende a fermare il movimento delle cose, così da immortalarle. In ebraico, dabar identifica tanto la ‹ parola › quanto un ‹ evento ›. L’antropologo Malinovski ha scritto che, nella cultura orale “primaria”, il linguaggio diviene una modalità d’azione. Questo, nel mero “inquadramento intellettuale” della sua presenza, originerebbe invece la scrittura. Ove le parole valgano solo accadendo, noi le penseremmo aventi “magicamente” un grande “potere”. Ci basterà percepirle nel loro dinamismo. Il suono materialmente accade e basta, essendo per noi difficile “inquadrarne” la presenza, in via intellettuale. Le parole della cultura orale “primaria” inevitabilmente si danno nel contempo scomparendo. La scrittura invece accetta la “freddezza” dell’universalizzazione, tramite i significati. Questi, avendo una vena astratta, fatalmente perderanno la “vitalità”. La scrittura certo si pone in via materiale, ma il suo “schematismo” toglie ogni accadimento della parola solo orale. Noi percepiamo il suono dentro la dialettica del dinamismo, quando qualcosa si dà nel contempo scomparendo. Ciò vale proprio per l’accadimento. Nel classico dizionario, la parola scritta perde la dialettica del suo dinamismo orale. In via più antropologica, Ong ci ricorda che il cacciatore primitivo può semplicemente vedere un bufalo; però, udendone il verso, lui penserà che stia “per accadere” qualcosa (allertandosi). Nei popoli aventi la cultura orale “primaria”, le parole si percepiscono molto magicamente. Esse “s’animerebbero”, in quanto letteralmente azionate dal linguaggio, in tutta la “vitalità” del mondo, che ci venga incontro (a partire da se stesso, dalla sua presenza), accadendo. Per Ong, la scrittura è inerente alle parole come cose. Così le prime “ri-materializzano” astrattamente le seconde, con lo “schematismo” della riflessione intellettuale. Nella cultura orale “primaria”, invece, le parole sono “accadimenti” (azioni che essenzialmente “ci vengano incontro”, allertati dal mondo esterno).

Nel quadro che Capogrossi intitola Superficie 324 (del 1959, ad olio su tela), pare che i tetradenti vadano a ricostruire una specie di “formuletta”. Da sinistra in alto, i primi due s’allacciano assieme. Là, ci nasce la “suggestione matematica” d’una loro sottrazione, o che li riportiamo al simbolo dell’infinito. Proseguendo, il terzo pettine avrebbe la stessa forma d’una parentesi quadra. In basso, visivamente predomina la coppia di tetradenti che “s’attraggono”. In qualche modo, la soluzione della “formuletta” si dovrà pensare dentro “l’interiorità” del quadro. Ben più enigmatici da percepire sono i due rettangoli colorati (uno di giallo, e l’altro di rosso). Pare che essi letteralmente “si versino” sul quadro, grazie ai vicini “denti” dei “pettini”. La pittura di Capogrossi esteticamente avrebbe una figurazione già cara al cubismo verso il surrealismo (per le “tozze” forme curvilinee), ma anche al primo astrattismo di Mondrian (nei due rettangoli colorati). Pare che il tetradente al centro della tela “perda il suo equilibrio”. Là, s’immagina una configurazione simile a quella d’una bilancia da cucina. Il rettangolo rosso, in alto, fungerebbe da sua “vaschetta”. Nel contempo, sotto potremmo percepire un travaso. Un tetradente, appena abbozzato nella sua curva, diventerebbe una sorta di “cannuccia”, per “abbeverare” il rettangolo giallo (che nuovamente fungerà da “vaschetta”). E’ importante la presenza della “formuletta”. Quella ri-materializzerà astrattamente le “voci” dei tetradenti. Una formula matematica all’inizio si trascrive, ed essenzialmente va risolta. Essa ha “parole” che si rendono un po’ alla volta “presenti a se stesse”, calcolo dopo calcolo. Naturalmente, ciò vale anche nella scrittura del più “facile” linguaggio. Lì, emerge la comprensione del senso, dentro la frase. Ma la formula matematica in più può visualizzarci le “voci” come presenti a se stesse. La comprensione linguistica accade immediatamente o quasi. La formula matematica va risolta un po’ alla volta, calcolo dopo calcolo. Se la comprensione d’un testo linguistico accade immediatamente o quasi, ci sembra che in quello le parole “si travasino” l’una dopo l’altra. Nel dipinto di Capogrossi Superficie 324, spiegheremmo così il dettaglio estetico del “rettangolo a vaschetta”. Spesso, diciamo d’apprezzare chi parla in modo “fluente”. Nel quadro di Capogrossi, magari si deve immaginare una classica equazione. Questa sarebbe paradossalmente “contraddetta”, attraverso lo sbilanciamento del tetradente centrale, causando infine il “travaso” fra i due rettangoli (dal rosso in alto al giallo in basso). La scrittura simbolicamente dovrà ritornare alla mera oralità. S’aggiunga che dopo il rettangolo giallo c’è la coppia di tetradenti più “interiori” (con la loro “attrazione”, oltre la tela).

Si veda il dipinto di Capogrossi chiamato Superficie 209 (del 1957, ad olio su tela). Ci sembra che il “flusso elicoidale” dei numerosi tetradenti consenta al nostro sguardo di “calare” sulla pittura. Almeno sei grandi linee configurano una sorta di “ombrello aperto”. Il quadro potrebbe virtualmente allargarsi, in via percettiva. Ciò spiegherebbe la “calata” del nostro sguardo. Nella “raggiera” delle sei linee, quattro di loro partiranno da un “laccio”, in alto, costituito da un terno di “pettini”. Là, avremmo il vertice “dell’ombrello aperto”. A metà del dipinto, in mezzo alla linea più verticale, è forte la tentazione di scorgere una figura umana in lontananza (interamente tinta di rosso). Subito a destra, ma in alto, ci pare che due tetradenti s’attraggano, ricostruendo virtualmente uno specchio (complice la forma ovale). Il nostro sguardo “coprirebbe” tutto il quadro (calando grazie alle sei linee), tranne la figura umana in lontananza. Simbolicamente, sembra che la “vitalità magnetica” dei vari tetradenti (concatenati in via “elicoidale”, come se ricostruissero il DNA di se stessi) non arrivi a “materializzare” la sua anima. La figura umana in lontananza sarebbe rossa per “ferire” la tela. Essa simboleggia l’interiorità, che non possiamo “ricucire” col “mero materialismo”. La linea “elicoidale” dei tetradenti in effetti si squarcia, per esibirci la sua anima in lontananza. Forse, la nostra visione dovrebbe interiorizzarsi. Così, spiegheremmo il dettaglio della coppia di tetradenti “a specchio”. Qualcosa che riporti la nostra visione a noi che vediamo. La “trascrizione” del DNA nei vari tetradenti non potrebbe mai ricercare la sua anima. Senz’altro, è per noi difficile cucire le “rosse” emozioni (nella loro immediatezza), o ri-cucire i “rossi” sentimenti (che si protraggono). Tutta la vitalità affettiva non si trascrive nel mondo, bensì lo invoca. Tanto le emozioni quanto i sentimenti soltanto (semplicemente) accadono. La parola a voce non è inquadrabile materialmente, per la sua “astrattezza” percettiva. Lo stesso accade coi sentimenti e le emozioni. Il quadro Superficie 209 ha una coppia di tetradenti che virtualmente si specchiano. Così, noi vedremmo… “di vederli”, potendo solo invocarne la vitalità interiore.

Nel quadro intitolato Superficie 137 (del 1955, ad olio su tela), Capogrossi cerca una figurazione forse più simbolistica. In primo piano, noi riconosciamo diversi “birilli”, in fase d’abbattimento. Al pittore, interessa proprio l’ac-cadimento del “magnetismo” percettivo nei tetradenti (i quali calamiteranno il nostro sguardo, con le loro “gobbe”, dentro il quadro). Sotto alcuni “birilli”, incontreremo le più inquietanti “casse da morto”. Simbolicamente, Capogrossi ci avviserebbe che la nostra vitalità può “cadere” da un momento all’altro. Pare che i “birilli” siano presi a pugni, da un rettangolo avente un geroglifico rosso, in chiave “passionale”. Lo sfondo si costruisce coi tetradenti. Essi progressivamente s’allargano in linea curva, come nel movimento ondulatorio. Torna la percezione estetica del suono, che accade sempre scomparendo. In fondo, la vita è tale unicamente tendendo alla morte.

Noi possiamo dichiarare di sapere qualcosa. Ciò non significa che in quel preciso momento ne ricordiamo tutti i presupposti “in gioco”. Sempre sappiamo qualcosa che (dal canto suo) “si lasci” sapere. Analiticamente, essa ha dei presupposti, che tuttavia noi potremmo evitare di dichiarare. Forse, solo la memoria d’un computer è costruita per sapere qualcosa che nel contempo si lasci sapere. Un uomo ad esempio può calcolare esattamente il teorema di Pitagora e, volendo, spiegarne i presupposti (i postulati) solo successivamente. Allora, come nasce la conoscenza da un ricordo, nella cultura orale “primaria” (quando mancano completamente le visualizzazioni scritte degli enti)? Là, un uomo può unicamente richiamare. Sempre, la memoria funziona a partire da più schematismi del pensiero. Per Ong, nella cultura orale “primaria” è fondamentale il dialogo. La persona a cui si parli aiuterebbe a ricordare, tramite la domanda (la quale presuppone sempre “una mezza conoscenza” della successiva risposta). Inoltre, nella cultura orale “primaria” esisterebbero dei moduli (schemi) mnemonici ancora allo stato “grezzo”. In particolare, quelli avrebbero una qualità “vitalistica”, basandosi sull’esperienza personale del ritmo. La conoscenza nascerebbe da ricordi percepiti “in maniera dialogica”. Ad esempio, ci sarebbero le parole della tesi contro l’antitesi, quelle che presentano un’allitterazione, le proferite durante un duello od in assemblea, altre simboleggiate da un chiaro proverbio ecc… In tutti i casi, Ong ravvisava la percezione d’una vitalità che accadesse “ritmandosi”. Per l’antropologo Jousse, nella cultura orale “primaria” le parole si potevano ricordare (e quindi imparare) persino associandole al respiro, o comunque ai gesti più istintivi.

Nel quadro di Capogrossi che s’intitola Superficie 210 (del 1957, ad olio su tela), il tetradente si percepirà in via essenzialmente “biologica”. Conosciamo i meccanismi della proliferazione cellulare. Ora, i tetradenti subirebbero una grande “divisione” centrale. In basso, quattro di loro ci mostreranno una prima forma di “vita organizzata”. Molto probabilmente, è quella dei soli protisti. Piace immaginare che la prima forma di “vita organizzata” abbia la “strada aperta”, dagli altri tetradenti. Torna la percezione estetica dell’invocazione. Sembra che la maggioranza dei tetradenti si disponga attorno ai soli quattro che mostreranno la prima forma di “vita organizzata”. E’ come se i primi avessero “invocato” i secondi. I quattro tetradenti costituenti la bozza d’una ameba ci attraggono soprattutto nelle “due antenne” (ai lati di quello più alto). Per l’antropologo Ong, il primitivo che oda un bufalo subito metterebbe se stesso in allerta. Nel dipinto Superficie 210, la maggioranza dei tetradenti quasi si fa convocare, aspettando la configurazione dell’ameba. Noi conosciamo il modo di dire per cui star su “con le antenne” equivale ad allertarsi.

Nel dipinto di Capogrossi che s’intitola Superficie 45 (del 1950, ad olio su tela), esteticamente si favorisce una percezione pop. I vari tetradenti si dispongono orizzontalmente, in più file. Così, è facile percepirli in via seriale. Ci piace immaginare che i tetradenti si facciano “parcheggiare”, come tante autovetture. Allora la forma “a gobba” ci ricorderebbe quella d’un caschetto. Forse, dovremo preferire la percezione di molti motociclisti… Nel quadro, si vedono pure degli “strappi figurativi”. Uno di questi, al centro, potrebbe avviarci alla percezione d’una rotaia, avente persino uno scambio ferroviario, sulla destra! Nel complesso, il quadro Superficie 45 ci pare molto “rombante”. Basta immaginarlo fra le autovetture, i caschi e le rotaie dei vari tetradenti. Un quadro talmente “rombante” da strappare ogni “cintura di sicurezza”… I tetradenti si dispongono in orizzontale, ma il piano ha continui “avallamenti”. Gli “automobilisti” possono accelerare o rallentare. Ciò determina gli “incurvamenti” sul piano orizzontale della corsa. Il quadro Superficie 45 andrà percepito in via ritmata. Se il tetradente avesse una vena essenzialmente orale (entro la cultura dei geroglifici, quando l’alfabetismo è ancora assente, con tutte le sue concettualizzazioni), qui noi dovremmo in qualche modo “respirarlo”. Esteticamente, conteranno le accelerazioni od i rallentamenti della serialità figurativa (già pop). Qualcosa che, pensando al motore meccanico, virtualmente ne determina un “respiro”.


 


Paolo Meneghetti

Paolo Meneghetti, critico d’estetica contemporanea, nasce nel 1979 a Bassano del Grappa (VI), città dove vive da sempre. Laureato in filosofia all’Università di Padova (nel 2004), egli ha scritto una tesi sull’ estetica contemporanea, in specie allacciando l’ ermeneutica di Vattimo alla fenomenologia francese (da Bachelard, Bataille, Deleuze, Derrida). Oggi Paolo Meneghetti scrive recensioni per artisti, registi, modelle, fotografi e scrittori, curando eventi (mostre o conferenze) per loro, presso musei pubblici, fondazioni culturali, galleristi privati ecc... Egli in aggiunta lavora come docente di Storia e Filosofia, presso i licei del vicentino.

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