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Il COME SE di Ricoeur in una “coclea imperscrutabile” di Schelling

https://en.wikipedia.org/wiki/Paul_Ric%C5%93ur#/media/File:Paul_Ricoeur_Balzan.png

Noi conosciamo la distinzione di Kant fra il fenomeno ed il noumeno. Ciò che semplicemente ci appare ha un’essenza mentre sfugge alla nostra riflessione, dall’intelletto. L’idealismo di Fichte parte dal presupposto che si può pensare sia al fenomeno sia al noumeno solo perché esistiamo noi. Considerando il singolo uomo, si conclude che l’Io pone assolutamente il proprio essere. La soggettività di cui parla Fichte ha una qualità trascendentale. Esistendo prima di tutto, proprio per questo essa è assoluta. Ma l’Io si dà come tale solo perché si pone. Precisamente, la soggettività assoluta avallata da Fichte non è causa sui. Conta sempre il principio d’identità, per cui < A = A >. Se consideriamo questo, cogliamo bene la necessità del porsi. Ne deriva che l’Io esiste sempre e solo perché si limita, verso la sua esteriorità, denominata Non-Io.

Invece per Schelling noi dobbiamo cercare un’intuizione intellettuale che ci permetta di cogliere l’Assoluto come Uno-Tutto. Anch’egli parte dal principio supremo dell’identità (per lo < A = A >), dove l’Io esiste perché si pone in quanto Non-Io. All’unità della soggettività, corrisponde la totalità del mondo esterno. La sintesi d’entrambi porta con sé la dimensione dell’assolutezza. Schelling alla fine parla di Uni-Totalità. Dunque egli evita di ricondurre la dimensione del Non-Io a quella dell’Io, come invece voleva Fichte. In quanto posta assolutamente, la soggettività è per Schelling di tipo spirituale. L’esteriorità che la limita, originando il Non-Io, s’esprime in primis nella natura. Sempre la realtà materiale è finita. Contrapporla alla vena assoluta della soggettività appare, dunque, semplice. Se vale l’idealismo di Schelling per cui, entro il principio dello < A = A >, bisogna considerare la corrispondenza fra i due termini (senza penderla a favore del primo, ossia l’Io), alla fine si conclude che la natura è spirito “visibile” (percettivo), mentre lo spirito è natura “invisibile” (trascendentale).

Torna l’idea della caratteristica Uni-Totalità. Schelling mantiene costantemente un parallelismo filosofico fra lo spirito e la natura. La realtà materiale porta con sé la dimensione finita dello spazio e del tempo. Ma per Schelling essa rispetta il “ritmo” dei processi naturali (ad esempio, con l’alternarsi delle stagioni o tramite il noto ciclo della vita). Ciò spiega la dimensione comunque spirituale in seno alla realtà materiale. La natura è finalistica, dunque ha l’unità (l’essenza) in potenza, oltre la sua totalità (molteplicità) in atto. Se consideriamo l’Io, invece, s’avrà la cosiddetta intuizione, dall’intelletto, di capire che noi esistiamo perché ci poniamo. Ma per Schelling trattasi d’un “primato filosofico” a doppio taglio. Ammettere che noi siamo anche in vista dell’alterità (limitandoci nella natura) determina il realismo. Se invece si giudica che il rapporto < A = A > esiste solo grazie alla < prima lettera A > (ossia l’Io), allora si troverà e si giustificherà l’idealismo. Il realismo ha una valenza prettamente pratica. All’idealismo certo si parte dalla teoretica. Schelling non propendeva né per l’uno né per l’altro. Semplicemente, si poteva mantenere una sorta d’ideal-realismo. Riportando una frase di Schelling:

L’Assoluto del filosofo può sembrare soltanto qualcosa che viene ammesso per poter filosofare, mentre, in realtà, è vero il contrario, e cioè che ogni filosofare comincia ed è cominciato soltanto in quanto l’idea dell’Assoluto è divenuta vivente

Fenomenologicamente c’interessa lo < è vero il contrario >, perché questo non dà un’opposizione, bensì un ribaltamento. Modernizzato, Schelling avrebbe potuto sviluppare un post-strutturalismo dell’idealismo. In particolare egli sarebbe stato un “anticipatore” di Deleuze, mediante il < segno uguale > per lo < A = A > fenomenologicamente ad intreccio:

1) natura STA a spirito visibile COME spirito STA a natura invisibile

Così la dialettica di Schelling appare tanto bloccata quanto spugnosa. Sarà quasi l’intreccio d’un mocio. Deleuze sviluppa la distorsione ri-modellante nel COME, per esempio alla fenomenologia del trama & ordito. Si tratta di togliere l’inevitabile appiattimento che vale per l’auto-giustificazione alla sintesi, in Hegel (il quale privilegia dialetticamente la < seconda lettera A >, dal principio < A = A >). Dalla citazione di Schelling, invece, può apparire che:

a) < è vero > = unità totalizzante

b) < al contrario > = unità ribaltata sulla totalità

Per rimettere il ribaltamento (a 360°) al posto dell’appiattimento (a 180°), si potrebbe usare il “filtro” dell’estetica:

a) appiattimento dell’opposizione = conservatorismo indotto come auto-giustificazione (al fare quadrato dal concettualismo al razionalismo, con Hegel)

b) ribaltamento dell’opposizione = progressismo indotto come oltre-giustificazione (alla coclea affiorante dal senso all’estetica, con Schelling “deleuzizzatosi”!)

La seconda dialettica spinge la storia, che la prima invece blocca. Da Schelling che intreccia, si passa a Deleuze che forgia. Sarà pure un neokantismo del riflettente, la cui fenomenologia ha guadagnato il progressismo.

In Schelling, la dimensione della storia rappresenta al meglio il “conflitto” che può nascere fra la filosofia del realismo e quella dell’idealismo. Sempre, noi restiamo l’unico “filo conduttore” di tutta l’esperienza vitale che ci contraddistingue, per cui la nostra libertà a livello pratico è il principio superiore. Ciononostante, nella storia intervengono il destino, la provvidenza, gli imprevisti ecc… Sarà il conflitto fra la spiritualità e la natura! Per Schelling, la filosofia dell’arte ha il compito di farci capire che il realismo e l’idealismo “si danno l’uno per l’altro”, continuamente. La bellezza è qualcosa che porta la dimensione del finito a trasfigurarsi in quella dell’infinito. L’estetica chiamerà sul serio l’assolutezza, ovvero la corrispondenza fra lo spirito e la natura. Schelling resta un filosofo idealista: per lui, pur sempre prima di tutto viene l’Io. Ma questo si darà come tale alla maniera estetica, a scongiurare il mero razionalismo (sia con Fichte del soggetto verso l’Assoluto, sia con Hegel dell’Assoluto verso il soggetto).

Sarà possibile percepire che noi, riflettendo, alla fine vogliamo letteralmente “agire” con la mente? L’astrazione sempre si dà nel “fermo” dell’universalità. Nonostante “l’immaterialità” della mente, è vero che si riflette solo “intorno” a qualcosa. Si percepirà un’universalità che “prenda posto” in se stessa. Dunque, la mente che rifletta “agirà” verso la sua astrattezza. Classicamente, per le filosofie di tipo fenomenologico la nostra coscienza è sempre < di > (oltre) se stessa. Essa “prenderà posto” intorno alla mera particolarità di qualcos’altro. La fenomenologia comunque si percepisce perché “vissuta”. Quella sarà < di > qualcosa, sia astrattamente (perché d’un sogno, d’un ideale, d’un momento ecc…), sia materialmente (perché d’una casa, d’un albero, d’una mano ecc…), a seconda del contesto. Allora ci piacerà il sillogismo per cui, se la mente che riflette “agisce” prendendo un “posto” attorno a sé, noi la percepiremmo nel suo “vissuto”. La filosofia dell’ermeneutica può partire dal principio che, ove ciascun ente comunque “sia” (tanto nella materialità quanto nell’astrattezza), questo avverrà sempre attraverso il nostro linguaggio, avendo immediatamente correlato un soggetto ad un predicato. Qualcosa da percepire dentro una contestualizzazione, mentre la nostra coscienza “prenderà posto” nel vissuto d’una precisa “situazione”.

Heidegger scrive che, se ogni ente “si dà comunque”, quello immediatamente “ridurrebbe” a sé la più generale ineluttabilità che accada “il solo Essere”. Tramite il nostro “filtro” dell’intelligenza linguistica, noi percepiremo una “condanna” a dover sempre pre-giudicare la Verità Universale. L’Essere si darà come tale nel suo “ridursi” a qualche ente particolare. La filosofia ermeneutica ammette che il linguaggio umano abbia i pregiudizi tanto del concettualismo (annullando la specificità del particolare) quanto della grammatica (conferendo un senso riassuntivo). Ma la “solennità” ontologistica di Heidegger ci sembrerà persa. Per la filosofia ermeneutica di Gadamer, molto più semplicemente l’Essere si farà sempre pre-giudicare dal nostro linguaggio, col secondo che non “subirà” la fantasmagoria d’una “condanna”, da parte del primo. Forse, noi possiamo riportare il medesimo principio nel campo della fenomenologia.

Per Ricoeur, il nostro linguaggio “prenderà posto” in un vissuto, e quest’ultimo pre-giudicherà l’Essere. Sembra un tentativo di fondare l’ermeneutica sulla fenomenologia. La nostra coscienza si porrà sugli enti (materiali od astratti) tramite il linguaggio, tuttavia questo si percepirà nel “riflesso” del proprio vissuto. La soggettività non può annullare il limite dell’alterità, la quale svelerà il carattere fondamentalmente contestuale dei pregiudizi concettuali, oppure grammaticali, che ciascuno ha. Se la coscienza è comunque < di > qualcosa, e vivendo noi prendiamo “un posto” nel mondo, allora il linguaggio della prima si rifletterà tramite la situazione del secondo. Per Ricoeur, l’ontologismo “solo” ermeneutico (senza la “solennità” di Heidegger!) pare contestualizzato letteralmente “esperendo” l’alterità. Così, prendere un posto” nel mondo si percepirà vivendone la comprensione. L’Essere si darebbe fondamentalmente tramite l’ermeneutica delle “situazioni”.

Per Ricoeur, la scrittura va percepita nel suo “distanziarsi”. Essa ha i significati, che evidentemente sono per noi lettori. Il vissuto ci permette di “prendere un posto” nel mondo, per cui la nostra soggettività si farà “distanziare” da un’alterità. Si ricostruisca la fenomenologia d’un testo qualsiasi. Esso ha le proposizioni, che permettono ai significati letteralmente “d’abitare” nel proprio senso. A Ricoeur pare emblematica la classica metafora. Tramite questa, un particolare significato dovrà “prendere posto” all’interno di sé. Una metafora lascia che il linguaggio rifletta sulla propria “situazione”. Là, il significato virtualmente gira intorno a sé. Ci piacerà molto il sillogismo per cui, se vivendo noi “prendiamo posto” nel mondo, allora la metafora (dove il significato appare riflesso sul proprio senso) quasi “s’animerebbe”. Ricoeur rifiuta ogni percezione “mortalmente” (ovvero banalmente) ripetitiva del caso. Per lui la metafora sarà viva, giacché quella non si limita a far somigliare un primo significato ad un altro. Lo stagnante avrebbe una capacità di riflessione che manchi di “prendere posto” in se stessa. Il somigliante è quantomeno poco distanziante. Per Ricoeur, invece, la metafora sembrerebbe viva: essa permette che un primo significato addirittura si riconfiguri in un secondo, “abitandolo”. Qualcosa che sia un tipico poema “in miniatura”. Nel lirismo, i significati delle varie parole girano intorno a se stessi per riassumere un senso. Ciò che si riconfigura, immediatamente prende il proprio “posto”. La metafora è percepita in via poetica, permettendo al significato più astratto di “farsi vedere”, tramite una riflessione letteralmente “animata”. Tanto il vivente quanto il riconfigurato “prende posto” nella sua alterità. Per Ricoeur, il racconto più lirico si percepirebbe avendo una temporalità che provi a diventare “umana”. In quello i vari significati si “faranno vedere” di continuo, davvero come se ri-vivessero.

Ricoeur scrive che immaginare qualcosa (astrattamente) non è immaginare la figura di qualcosa (nella percezione d’una astrazione). Però, a lui interessa di più il caso d’un < vedere come >. Questo lega in se stesso < l’immaginare qualcosa > e < l’immaginare la figura di qualcosa >. A grandi linee, Ricoeur vuole rimandarci alla metafora. Se ad esempio io penso che nella partita di calcio < vedo come > la vita, la libertà (la soggettività) d’immaginare sta paradossalmente dentro l’astrazione (l’universalità) del linguaggio. Schelling ha scritto:

Come quella forza che attraverso il nostro libero operare senza la nostra cognizione,

e pur contro la nostra volontà, realizza scopi non rappresentati, vien chiamata destino,

così l’imperscrutabile che, senza il concorso della libertà e in certa misura contro la libertà,

nella quale eternamente si fugge quanto in quella produzione è unito,

aggiunge al cosciente l’oggettivo, si designa con l’oscuro concetto di genio

Esisterebbe una relazione dialettica al < come… così > fra il destino (metafisicamente) ed il genio (esteticamente). Ma senza il visibile della metafora, da Ricoeur, allontanandosi dal concettualismo Schelling avrebbe preferito l’imperscrutabile dell’ispirazione. Naturalmente, il “clima” idealistico non è ancora quello, più alla post-modernità, dell’ermeneutica! O forse si può arrivare a Ricoeur aggiungendo in dialettica una de-territorializzazione, dalla fenomenologia di Deleuze:

1) imperscrutabilità dell’ispirazione = tesi alla pre-comprensione (da Schelling)

2) concettualità allargata al senso = antitesi alla de-territorializzazione (da Deleuze)

3) metafora viva = sintesi al ri-modellamento (da Ricoeur)

In Ricoeur, la metafora viva ha il < come se > che permette “d’abitare” (prendendo un posto) nel giro e ri-giro intorno a se stesso. Sarà così che si favorirà l’incontro dello < immaginare qualcosa > con lo < immaginare la figura di qualcosa >. Grazie a Deleuze, noi lo “caricheremo” di vitalismo. Un “impianto” in ontologia basato sui connettivi analitici del < pre / de / ri > è cocleare, seguendo l’estetica.


Paolo Meneghetti

Paolo Meneghetti, critico d’estetica contemporanea, nasce nel 1979 a Bassano del Grappa (VI), città dove vive da sempre. Laureato in filosofia all’Università di Padova (nel 2004), egli ha scritto una tesi sull’ estetica contemporanea, in specie allacciando l’ ermeneutica di Vattimo alla fenomenologia francese (da Bachelard, Bataille, Deleuze, Derrida). Oggi Paolo Meneghetti scrive recensioni per artisti, registi, modelle, fotografi e scrittori, curando eventi (mostre o conferenze) per loro, presso musei pubblici, fondazioni culturali, galleristi privati ecc... Egli in aggiunta lavora come docente di Storia e Filosofia, presso i licei del vicentino.

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