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Saggio su Husserl e Kandinsky – Se l’intenzionalita’ costituisce per immanenza, allora la composizione trascende per genesi

Saponaro ci ha ricordato che l’astrattismo di Kandinsky e la fenomenologia di Husserl nascono più o meno negli stessi anni. Ma < come > si praticheranno le loro teorizzazioni? Per la fenomenologia di Husserl, se un certo uomo si relaziona col mondo, genericamente lo fa avendo coscienza < di > quello. Gli esempi sono molto immediati da capire. Io posso avere la coscienza < di > un tavolo, < di > un’anima, < di > un sogno, < di > un oggetto (tanto materiale quanto astratto), ecc… A Husserl interessa il “filtro” coscienziale. Fra il soggetto conoscente e l’ente conosciuto, sempre s’inserisce la preposizione semplice del < di >. E’ la caratteristica intenzionalità, che rientra nel metodo della fenomenologia. Ciò che meramente ci appare, “punta” alla sua oggettivizzazione nell’esteriorità. E’ una forma di posizionamento, da parte della coscienza. Husserl se ne serve per ricusare le teoretiche del passato. Non avviene la completa riduzione dell’oggetto da conoscere al soggetto che conosce. Ciò valeva per l’idealismo. Nemmeno avviene la mera adeguazione dell’intelletto all’esistenza d’un ente. Ciò valeva per il realismo. Husserl insomma cerca la novità d’una “terza via”, per l’apparenza dal sensibile all’ideale. Il suo < di > per l’intenzionalità è dialetticamente ri-movibile. L’oggetto non si fa bloccare da una sintesi idealistica, mentre il soggetto non si fa bloccare da un adeguamento realistico. Prima di razionalizzare tutto mediante la metafisica, conviene dunque posizionare come un certo uomo si relaziona col suo mondo di vita. L’esistenza appare fra i limiti dell’esteriorità. E’ la dimensione del < come > a consentire l’apparenza d’una sintetizzazione idealistica che s’adegui alla realtà.

Per Kandinsky, ogni immagine ha un suo suono. Ad esempio, il triangolo si percepisce come acuto. Di conseguenza, si dovrà evitare l’idealizzazione concettuale della consonanza e della dissonanza. L’udito è un senso inevitabilmente astratto. Non possiamo configurare il suono. Pensando che tutte le immagini siano udibili, la loro dimensione materiale “si confonderà” sempre con quella astratta. L’universalità del suono subito rende inutile idealizzarlo (fra la limitazione del disarmonico e l’essenzialità dell’armonico). L’estetica del pittore Kandinsky fu avallata dal musicista Schoenberg. Alla consonanza arriveremmo più che altro “familiarizzando” con l’udire una precisa immagine. L’armonico dunque si costruisce dal disarmonico. Sempre più “si familiarizzerà” con le dissonanze fra un’immagine e l’altra, per trovare artisticamente il musicale. Nei dipinti astratti di Kandinsky, percepiamo il riposo (l’equilibrio) percettivo di composizioni apparentemente contraddittorie. Ad esempio, avvicineremo la razionalità d’un quadrato all’imprevedibilità d’un triangolo.

Per Kandinsky, un colore può influenzare direttamente l’anima, vedendolo senza che sentiamo di vederlo, con gli occhi. Esso si percepirà in via sinestetica, e precisamente nella “risonanza” di sé. Fra tutte le arti, solo la musica s’interiorizza immediatamente. Lo sguardo comunque si distingue, ricavandosi il suo punto di fuga. Ciò che ascoltiamo invece letteralmente si confonde sull’orecchio. Gli occhi sono fin troppo abituati a percepire il colore soltanto “in superficie”, ossia da una certa forma (che lo delimiti). Ma l’arte si cercherà una dialettica più potente!

Per Kandinsky, il pittore aggiungerà al colore una risonanza, così da interiorizzare la sua intensità “naturale” (di base). Ad esempio, noi siamo fin troppo abituati a vedere che il verde funge da tono dell’erba o degli alberi. Il pittore dovrà “trasportare” l’occhio nell’anima. Le emozioni accadono in modi imprevedibili, contraddicendosi fra di loro. Per esempio, noi potremmo “vedere” il rosso astratto con l’animo “infiammato”. Il colore si percepirebbe come risonante, interiorizzandosi. In natura il legno che arde è per noi sempre più rosso che giallo. Kandinsky scrive che il colore funge da “tasto”, e l’occhio da “martelletto”, per il “pianoforte” dell’anima. Si conferma la percezione della sua risonanza. Il colore non è tanto “passivamente” visto, in quanto esso si farebbe vedere, e tramite l’occhio “emozionato” (dell’anima). Noi lo percepiremo nella “pressione” di se stesso, un po’ come accade sul tasto del pianoforte. Sempre, l’occhio ha una visione che sobbalza. Nella retina c’è l’impressione dell’immagine. L’occhio dunque funzionerà come il martelletto d’un pianoforte. Emozionata dal colore, la visione giungerà persino a risuonare, nella nostra anima.

Saponaro studia la rivendicazione spirituale in seno alla funzione artistica. Allora conta la pittura di Kandinsky. La componente spiritualistica sarà allacciata alla fenomenologia filosofica di Husserl. Si citi il caratteristico “problema” dell’intenzionalità. La coscienza è sempre < di > qualcosa, ergo al proprio collocarsi. Il pensiero riuscirà a materializzarsi? Invero l’intenzionalità non deve legarsi a nulla. I pensieri vanno alla cose stesse. Bisognerà passare dal < di > intenzionale al < come > trascendentale. La corrispondenza fra l’idealismo ed il realismo è al movimento del primo verso il proprio collocamento sul secondo. L’intenzionalità non resta ancorata al soggettivismo. Quella è in correlazione col movimento d’un posizionamento. La dialettica fenomenologica di Husserl non si blocca sulla sintesi d’una spiritualizzazione idealistica. Se la coscienza è sempre < di > qualcosa, nel medesimo tempo la coscienza è sempre < di > qualcosa che si trascende nel < come > di qualcos’altro. Il collocamento dell’intenzionalità per Husserl non s’ancora al razionalismo d’una totalizzazione. L’oggettività trascende la soggettività mediante il < come > la prima intercetta il < di > adeguante della seconda. Ad esempio, conta l’esperienza della percezione. La conoscenza in via intellettuale è sempre di riempimento all’immediatezza d’una sensibilità. La mera impressione si farà oggettiva tramite il suo ricollocamento nella coscienza. Se c’è un’immanenza del colore rosso, nell’esteriorità, c’è anche una trascendenza del colore rosso, nell’intenzionalità. La percezione d’un < di > per la coscienza che sente qualcosa ha un suo orizzonte, nel < come > per la coscienza che sente che qualcos’altro. Il soggettivismo della prima letteralmente è riempito da una trascendenza verso la seconda. Husserl insomma cerca di preservare una genesi per la fenomenologia, evitando di “bloccarla” tanto sull’idealismo quanto sul realismo. Se la coscienza intenzionale è sempre < di > qualcosa, allora l’esteriorità trascendentale è sempre il < di > del qualcos’altro, ovvero il < come > noi posizioneremo la nostra percezione verso una conoscenza oggettiva. L’immediatezza della percezione si posiziona “all’orizzonte” per l’apparenza. L’impressione in chiave fenomenologica è una “genesi”: dalla sensazione alla conoscenza.

Per Kandinsky, la linea spezzata comporta la percezione d’un contatto con la superficie del proprio tracciamento. C’è una situazione di scavo sul piano. La superficie con la linea spezzata si trova nel contempo con e contro se stessa, in via dialettica. Così, pare che il piano vada crescendo. Qualcosa che precisamente acquisterà di spessore. Ma, tramite l’angolo ottuso, la linea spezzata diventa più passiva. Essa perderà il suo sviluppo. Sarà un modo per cercare la piattezza del piano orizzontale. Si percepisce anche un simbolismo sociologico. Nella linea verticale si dà la nascita (quando esistiamo unicamente al “segno” della nostra presenza). Nella curva d’un cerchio prevarrà la pienezza della maturità (perché comprendiamo il “senso cosmico” della vita personale). La linea spezzata invece rimane nel mezzo. Qualcosa che ci simboleggi l’età giovanile. Dunque anche Kandinsky ricerca una genesi, nel < come > della percezione estetica. Ovvio egli insiste di più sulla spiritualizzazione delle forme e dei colori.

Se l’intenzionalità si riduce in un < di > che ricolloca oggettivamente la coscienza, andando verso le cose stesse, questo ha comunque una sua funzionalità. In chiave strettamente filosofica, la teoria intellettuale è materialmente pratica per il correlato dell’esistenza. Ma quale diventerà il vissuto, nel campo dell’esperienza estetica? Husserl “rompe” tanto con l’assolutizzazione del fatto naturale (per il realismo, “esasperato” dal materialismo dell’esistenza), quanto con l’assolutizzazione dell’evento culturale (per l’idealismo, “esasperato” dal razionalismo dell’autocoscienza). Qualcosa da riportare fra le correnti artistiche. Da un lato c’è il naturalismo, tramite cui l’estetica si limita ad imitare. Così si spiega la “protesta” avanguardistica dell’astrattismo. Dall’altro lato c’è il romanticismo, tramite cui l’estetica “ispira” una rivelazione. Così si spiega il “bisogno” intimistico del simbolismo. E’ una dialettica che torna in Kandinsky. A lui non interessano né il naturalismo della rappresentazione, né le pretese del romanticismo, e tuttavia il suo astrattismo “sposa” il simbolismo. Ma pure le correnti artistiche c’aiuteranno a capire la dialettica fenomenologica di Husserl? Per Saponaro, il realismo non vuole mai criticare gli aspetti più “inquietanti” delle sue precomprensioni. Quanto scetticismo avremo, ricostruendo la fenomenologia dell’empirismo? La scienza può subire la falsificabilità, e la morale può cambiare a seconda delle culture. Parimenti, il romantico rischia di scemare nel mistico. Oppure, nel mondo contemporaneo le mode banalizzano ogni rivendicazione della spiritualità. Esse paradossalmente cavalcano il romanticismo dell’artista, salvo poi “fagocitarlo” nel razionalismo del consumo. Hegel profetizzò la morte dell’estetica. La razionalizzazione filosofica avrebbe realizzato la naturalità perfetta per gli stessi sentimenti dell’uomo. Paradossalmente, le avanguardie artistiche del Novecento rischiano “d’accontentare” proprio Hegel! Esse avvertono la necessità di giustificarsi continuamente. Kandinsky però rafforza l’estetica. Egli sembra volto a capovolgere Hegel. I quadri astratti serviranno a rendere la stessa arte una filosofia e… basta. Kandinsky è lontanissimo da ogni prescrizione sul naturalismo. Nei secoli precedenti, l’arte virtualmente nasceva dai committenti (col mecenatismo).

Per Husserl, la fenomenologia deve porsi in maniera scientificamente rigorosa. Quella ad esempio eviterà lo psicologismo. Serve descrivere la purezza dei fenomeni, a partire dalla “neutralità” del < di > intenzionale, fra l’idealismo ed il realismo. La fenomenologia di Husserl non è un’ermeneutica. Infatti il < di > dell’intenzionalità si ricolloca nel < come > d’una trascendentalità. All’ermeneutica interessa il problema dell’interpretazione. A quella manca la fenomenologia del trascendentale, se in fondo i “filtri” del < di > soggettivo e del < come > oggettivo conservano una loro universalità. Il problema dell’interpretazione riguarda un concettualismo appena situazionale (o contestuale). Un grande lettore di Husserl, Heidegger, accetta la fenomenologia per la sua metodologia. Dunque sarà importante ricostruire come l’uomo contemporaneo “si posiziona” nel mondo esistenziale, sempre più controllato dalla tecnologia. Heidegger alla lunga si concentra sull’ontologia. Ciò determina il suo allontanamento da Husserl. Sul problema dell’Essere, bisogna togliere ogni “ambizione” del < di > intenzionale verso la trascendentalità se non d’un < come > almeno d’un < perché >. Heidegger non vuole ritornare alla metafisica, col proprio razionalismo. Per lui, il < di > della coscienza andrà definitivamente spostato dalla nostra intenzionalità all’ontologismo universale.

Quasi negli stessi anni di Husserl, a Kandinsky interessa descrivere il < come > “guarire” l’arte, che banalmente dipende dal naturalismo, dal romanticismo, dall’ideologia ecc… Saponaro ce lo spiega, essendo egli sia filosofo sia pittore. Per lui, osservare i colori appena spremuti dai tubetti significa capire che quelli possono anche ingannarci. Bisogna partire da una prospettiva appena fisica. Così i colori non sono una proprietà della materia. I corpi della materia assorbono e riflettono determinate radiazioni di luminosità. Da ciò s’originano i colori. Nel contempo, gli agenti esterni concorrono a “complicare” le radiazioni luminose. Vale la distanza fra un colore e chi lo guarda, con le sue attese od emotività (in maniera psicologica). Nasce una dialettica fenomenologica. E’ come se la visione portasse con sé la possibilità di “ripassare” quello che già si conosce, razionalmente, intorno alla vera natura della materia. Per esemplificarlo, Saponaro ci descrive un’esperienza percettiva. Egli guarda il colore giallo, in uscita dal suo tubetto, e nel contempo già sa che quello gli formerà una macchia di colore viola, nell’occhio. Torna dunque il tema dell’impressione percettiva a ricollocare la conoscenza intenzionale. Contro l’inganno “sul ripasso” visivo, Saponaro continuerà a giudicare (razionalmente) che esista solo il colore giallo. Ma la dialettica rimane. Saponaro sa che la propria visione dell’esterno è pure (nel contempo) una re-visione dell’esterno, “oltre” la sua intenzionalità. La percezione del ripasso ci conferma, in una specificità estetica, quella del ricollocamento per la coscienza. Nessuno può dubitare che nella realtà esiste solo il giallo, e tuttavia quello si vede solo esperendolo, laddove si ri-vede il giallo in posizionamento sul viola. Il razionalizzare non servirà a molto, sui colori. Comunque si vede perché “posizioniamo” la visione, ed attraverso una relazione percettiva che dà un “contraltare incerto” all’intenzionalità. Per Saponaro il bravo pittore compone i suoi colori al “gioco” dell’esperienza impressionale. L’incertezza dell’esperienza visiva, di contro alla certezza della visione, appartiene così all’intenzionalità soggettiva in ricollocamento sul dato fenomenico. E’ qualcosa che l’artista specifica addirittura nel modo migliore. A lui interessa il farsi vedere, ricevendo un pubblico. Nello specifico, il pittore diventerà un fenomenologo dell’estetica? Per Kandinsky, il viola deriva dal rosso teso al blu. Più precisamente, s’avrebbe una passionalità in “raffreddamento”. Il viola parrà abbastanza instabile da percepire. Qualcosa che vada perdendo la sua vitalità, anche tramite la sinestesia del grave fagotto.

Di Martino ci ricorda che per Husserl la fenomenologia consente alle cose stesse d’apparire nei soli “adombramenti” dell’intenzionalità che percepisce. Ma il < di > sul posizionamento apre al < come > d’una costituzione, tramite cui l’immanenza dell’oggettivo ha una “focale” sulla trascendenza del soggettivo. Tutti gli “adombramenti” per l’autonomia del possibile saranno in correlazione con gli “orizzonti” dell’intenzionalità. Se il < di > costituisce per immanenza, il < come > trascende per genesi. Le percezioni, oltre la propria attività o passività, letteralmente “si metteranno a fuoco” fra l’oggettività e la soggettività.

Ma il primato conoscitivo spetterà all’arte, od alla filosofia? L’importante è convertire l’esperienza esterna (obiettiva) della visione nell’esperienza intenzionale (fenomenologica) della visione. Non si può uscire dal posizionamento della coscienza. C’è l’intenzionalità del < di > anche nel < come > del giallo visto sul viola. Naturalmente si fanno degli esercizi preparatori: col ricollocamento delle macchie sulla tavolozza, degli attrezzi nella stanza, delle cornici sulla tela ecc… Quando il pittore crea, esperendo la dimensione intenzionale della visione percettiva, riesce anche ad esperire una buona identificazione fra la forma (la tecnica) ed il contenuto (la poetica) del suo quadro. Grazie a questo, tutte le incertezze per il ricollocamento dell’impressione potranno scomparire. Anzi i colori si faranno unicamente vedere, senza che s’esperisca di vederli. Nell’identificazione conclusiva fra la forma ed il contenuto si trova la purezza percettiva. Affinché il colore abbandoni l’incertezza alla nostra esperienza di vederlo, serve che quello né sia costretto ad imitare (come nel naturalismo), né sia bramoso di simboleggiare (come nell’idealismo). Di nuovo, vale solo il livello fenomenologico. La purezza del colore, all’identificazione fra la forma ed il contenuto, risponde alla dialettica del < come > un pittore ha ricollocato la propria tecnica sulla propria poetica.

Kandinsky per Saponaro è interessato esattamente a questo, col proprio astrattismo che “mira” alla spiritualizzazione. Nei dipinti, il colore giallo si percepisce in via quasi “delirante”. Allora il calore della passionalità tenderà persino a giustificarsi, e sino a sublimare se stesso. Di contro, guardando qualcosa di blu noi riceviamo la spinta per il riposo. Così ci sarà l’inizio d’una spiritualizzazione. Il verde nasce dalla commistione fra il giallo ed il blu. Noi la percepiamo dentro una sorta di vitalità embrionale. Il verde avrebbe invece una passionalità potenziale (allo stato nascente). Non è un caso che noi lo utilizziamo per simboleggiare la speranza, dunque una vitalità in fieri. Più correttamente, il verde risulta il colore dell’appagamento. Una condizione esistenziale per cui al presente abbiamo voglia di vivere (passionalità), guardando al futuro con fiducia (tranquillamente). Kandinsky ricorda che il verde è il colore dell’estate, quando la natura realizza se stessa. Lo ascolteremo in sinestesia sui toni ampi e calmi del violino.

Ma possiamo sul serio dipingere un colore allo stato puro (alla trascendenza intenzionale)? O forse esso continuerà dialetticamente ad imitare o simboleggiare qualcosa? Saponaro suggerisce al pittore d’esperire l’intenzionalità della sua visione in quanto rigorosamente di tipo spazio-temporale. Di nuovo la percezione del colore è calzante. Bisognerà esperirlo nella visione intenzionale d’una sua possibilità per la forma. Valutiamo l’imitazione od il simbolismo. Lì, la dimensione rispettivamente della natura e della cultura fungeranno da sfondo. Su quest’ultimo, subentrerà la possibilità per una forma. La dimensione dello sfondo porta con sé sia la spazialità sia la temporalità (in situazionalità). Allora è giustificato il “suggerimento” di Saponaro. Il pittore che dipinge un colore deve esprimere la visione intenzionale della sua forma, giacché questa ha la dimensione dello sfondo (in se stessa da prendere per spaziotemporale). Qui si garantirà la purezza percettiva. Se un quadro ci mostra che le linee non distinguono più le forme od i colori, tutto questo rimarrà “soltanto in posizionamento”, persa l’esigenza di servire al riconoscimento di qualcosa (sia al realismo d’una visione adeguata, sia all’idealismo d’un caricamento espressivo). Nella pittura di Kandinsky, il < di > ed il < come > dell’intenzionalità si percepiranno in quanto spaziotemporali. Si mostreranno forme o colori allo “sfondo” di se stessi. L’astrattismo vale al mero posizionamento del naturalismo e del simbolismo.

A Kandinsky interessa lo sfondo alla sua possibilità di percezione. Egli associa ad ogni colore una forma specifica (in chiave non solo spaziale, ma pure situazionale, aggiungendovi un’affezione). La spiritualità della vita è rappresentabile attraverso la figura del triangolo acuto. Questo si divide in sezioni (finestre) diseguali, le quali si restringono verso l’alto, e contengono le persone. Il triangolo spirituale si muove verso il cielo. Dunque le finestre in basso andranno a superarsi l’una con l’altra, nel tempo. Per Kandinsky, sovente il vertice superiore è occupato da un solo uomo. Qualcuno che guarderà serenamente tutti gli altri, posti nelle sezioni in basso. Purtroppo, la maggioranza non è abituata a riconoscere gli uomini a mano a mano più alti. All’interno d’ogni finestra, si trovano pure gli artisti. Tra questi, qualcuno finalmente profetizzerà la presenza dell’uomo al vertice (superiore). Soltanto così accade che le finestre risalgano, muovendo tutto il triangolo spirituale. Purtroppo, per Kandinsky gli uomini “affamati” di preveggenza sono normalmente pochi.


Paolo Meneghetti

Paolo Meneghetti, critico d’estetica contemporanea, nasce nel 1979 a Bassano del Grappa (VI), città dove vive da sempre. Laureato in filosofia all’Università di Padova (nel 2004), egli ha scritto una tesi sull’ estetica contemporanea, in specie allacciando l’ ermeneutica di Vattimo alla fenomenologia francese (da Bachelard, Bataille, Deleuze, Derrida). Oggi Paolo Meneghetti scrive recensioni per artisti, registi, modelle, fotografi e scrittori, curando eventi (mostre o conferenze) per loro, presso musei pubblici, fondazioni culturali, galleristi privati ecc... Egli in aggiunta lavora come docente di Storia e Filosofia, presso i licei del vicentino.

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