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Un dono “fuori portata” per curare il trovarsi gettati

Quando si pensa alla nascita, immediatamente vi percepiamo il venire alla luce. In seguito, si continuerà ad esistere per “intersecazione” sugli orizzonti, dovendo prendere alcune decisioni al “bivio” delle possibilità. Il singolo individuo proverà a “farsi luce” da solo, avendo cura d’una realtà non tanto in contrapposizione, bensì da mediare. Oppure, è qualcosa che si sintetizza in un modellamento. Soprattutto negli affetti, l’Altro diviene una parte di noi. Per quanto proviamo a farci luce nel mondo, quella dovrà riflettersi. La soggettività si sente nella “pienezza” per il suo precedere l’esteriorità. Forse questo è anche un “peso ingombrante” da sopportare. Quando “buttiamo” il primo sguardo nel mondo illuminato, partirà lo “scaricamento” della cura. Se la soggettività si pensa solida, poiché esclusivamente privata, essa non potrà evitare la friabilità innanzi alla sua conservazione (sotto gli istinti del nutrimento, della riproduzione, della socialità ecc…).

Per Heidegger, la gettatezza è la dimensione che spiega la caducità (finitudine) esistenziale dell’uomo. Prima di sapere quale essenza abbiamo, si deve giocoforza ammettere che “ci troviamo” ad esistere. Per Heidegger tale necessità si chiama gettatezza. Qualcosa che si ponga in via pure d’affettività. Qui non “cogliamo” un generico sentimento, dentro le reazioni psicologiche. La gettatezza appartiene alla dimensione della strumentalità umana. Ciascuno di noi sfrutta i vari enti del mondo, per il suo vantaggio all’esistenza. E’ la dimensione del vissuto. Ciò accade dentro un sistema di parametri socioculturali, cui facciamo riferimento in società. Per Heidegger, con l’affettività s’intende la nostra capacità “d’usare” gli enti del mondo in modo contestuale. Conterà il riferimento preciso al fatto esperito in cui primariamente (essenzialmente) “ci troveremo” ad essere. Ma possiamo percepire l’affettività in chiave “privatamente” etica?

Secondo Heidegger, chi si prende cura di qualcosa vive l’esperienza di trovarsi dentro ad un “intero mondo” di sensorialità, il cui strumento ci è diventato immediatamente “alla mano”, od “alla portata”. Possiamo citarne il caso specifico dello hobby, dove si va continuamente incontro al disinteresse di fondo per il riconoscimento altrui. L’orizzonte della nostra vita non è mai sicuro a prescindere. Forse ci conviene un allenamento quotidiano alla gratuità, se questa ha una praxis più “disponibile” a ricercare varie funzionalità. Il nostro disinteresse per gli Altri non impedirà che loro favorevolmente possano goderne. E’ nell’orizzonte degli affetti che un po’ tutti si danno “una mano”. Ciascuno socializzerà “alla portata” d’un suo ruolo. Tale gratuità comporta anche un piacere, che ci rinvigorisce. La cura per l’esistere in via fenomenologica sia coltiva sia protegge, in quanto preposta al modellamento d’una mediazione. E’ quello che accade per la stessa sensorialità, la quale poi più simbolicamente si trasferisce nell’intimità del cuore. La cura non “lascia respiro”; giustamente a tutti noi si chiede lo < Attento a dove metti i tuoi piedi! >. Col tempo, l’esperienza ci aiuta nell’automatismo di quanto il mondo sia “alla nostra portata”. Resta però l’imprevedibilità del cuore. Nessuno desidera d’essere amato in via unicamente meccanica. Si chiede sempre un “qualcosa” in più, per non farsi “usare” in fugaci evasioni. Il prendersi cura è garanzia di salvaguardia.

Foucault cita l’insegnamento di Socrate, per cui l’uomo non dovrà occuparsi delle ricchezze, ma delle virtù. Più in generale, gli antichi greci percepivano la cura di sé come un vero e proprio privilegio in società. I “pochi fortunati” capaci di vivere nel benessere materialistico, a maggior ragione avrebbero dovuto cercare la virtù! La cura di sé andava essenzialmente esperita, in via persino “pragmatica”. Essa si percepiva nello “sforzo” di vivere, e quindi eliminando ogni “laccio” con la sicurezza del materialismo. Per esempio, l’atleta possedeva una corporeità “virtuosa” imparando stoicamente solo “i pochi movimenti” necessari a combattere il suo avversario. Qualcosa che esteticamente giustificasse il “pragmatismo”. Fuor di metafora, la cura di sé era “faticosa” da percepire. Essa richiedeva l’annullamento dei beni materiali (dove banalmente ci si lasciava andare, in tutta “sicurezza”).

Gli uomini sono esclusivamente in balia d’una “mancanza”. Nessuno può passare dal vuoto al pieno senza un “freno” dalla sua esteriorità, il quale rischia di mandarlo “fuori portata”. Al massimo, si prova a procrastinare la “condanna” alla dipendenza esistenzialistica, dandosi un obiettivo fattibile. La cura s’inserisce nella dialettica fra la fragilità e la conservazione. Qualcosa cui non sfuggirà nemmeno il possessore di grandi ricchezze, che ansiosamente indurranno a non accontentarsi mai. Piuttosto, conviene aprirsi ad “altri orizzonti”. Un conto ad esempio è insegnare, un altro conto è far appassionare. La seconda azione presuppone una cura assai maggiore, toccando le “corde… fuori portata” in quanto trascendenti d’un carattere personale. Non è soltanto un trasferimento, bensì una tensione. Chi si prende cura di qualcosa letteralmente ne “rispetta” l’orizzonte, già ammettendo che la piena realizzazione mancherà sempre o quasi. E’ una forma di vigilanza sopra le “mille” possibilità che si presentano. Se il realizzarsi sembra difficile, bisognerà attingere alle sue concessioni. Se ci prendiamo cura, evitiamo le distrazioni. Il dolore ormai incancellabile (ad esempio per la morte) lascerà qualche “spiraglio” tramite il porsi un altro obiettivo. Quando stiamo in perfetta salute, spontaneamente piace l’espansività, a livello sociale. Da ammalati, invece, capiamo che non “comandiamo” un bel nulla. Cercheremo che gli Altri evitino di farci “pesare” la loro superiorità. Nella sofferenza, il tempo è tutto tranne che fugace. Coerentemente, gradiremo il “contraltare” d’un < Ti capisco! > o d’una carezza. Se la sofferenza ha una vena opprimente, questa volta la distrazione aiuterà un po’ ad allievarla. Vivendo in salute, il “ventaglio” delle possibilità esistenziali che il mondo ci presenta è angoscioso. Ma almeno noi sappiamo che ciò accade da sempre. Da malati, non potendo decidere da soli, s’arriva a desiderare il “lasciarsi andare” al corso del tempo, con un po’ di fatalismo. In chiave sensoriale, quanto si comanderebbe d’anestetizzare il proprio dolore? Solo chi è abituato al non desiderare mai il troppo è anche preparato al soffrire di meno per la perdita dell’eccezionale. Platone insistette sull’ascetismo dell’anima, sciolta direttamente dal corpo e quindi da tutti i “rovi” della passionalità incontrollabile. Quando il dolore pare vincere, in tutti i casi serve la delicatezza. Nessuno ama “sbandierare ai quattro venti” la propria malattia. Piuttosto, si preferisce di gran lunga che siano gli Altri ad incoraggiare. Infatti la vita normale appare incerta per progettualità, mentre quella da malati appare incerta per mancanza di progettualità.

Ci sono situazioni in cui la cura si connette strettamente ad una responsabilità. Un neonato od un disabile s’affidano completamente agli Altri. Ma ci sono pure situazioni in cui la cura tende a “liberarsi”, come a scuola. L’educatore ha una responsabilità indiretta, giacché a lui interessa che l’allievo un po’ alla volta impari da solo la convivenza civile. Essenzialmente, è una questione di sostenibilità. L’uomo non può conoscere l’infinito, cosicché per lui il vivere richiede un’attitudine alla regolazione. Chi si prende cura, ha una passione che non sconvolge nulla. Dapprima bisogna essere “in pace” con se stessi; soltanto in seguito la propria positività si trasferirà nell’Altro. L’uomo è comunque finito. La sua intimità rimane sfuggente. La cura non può imporsi da sola, bensì (coerentemente) mettersi al servizio d’un obiettivo. E’ il principio evangelico che recita lo < Ama il prossimo tuo come te stesso >. Soprattutto, bisogna aiutare ad uscire da una difficoltà in un rilancio di nuove possibilità. Più genericamente ancora, chi progetta qualcosa già conosce le sue debolezze. Si tratta di curare il miglior orientamento, che appare empatico (positivamente) o compassionevole (negativamente). Nel secondo caso, subentra anche la “gravità” dell’etica. La compassione verso chi lotta contro una chiara ingiustizia “sposta” decisamente l’orientamento verso il progresso. L’importante è capire, al di là della cura, che le idee (dal pensiero) e le emozioni (dai sensi) s’allacciano sempre fra di loro. Quando uno ci racconta qualcosa, le parole “sostengono” i fatti. E’ una forma di cura pure quella, persino prima che la nostra coscienza eserciti la sua libertà d’intendere. Entro l’universalità dell’etica, la responsabilità fungerebbe da “orizzonte ineludibile” per un “pensiero che sente”. La razionalità da sola non è in grado di liberare i “lacci imperscrutabili” del reale. Laddove un infermiere dica al suo paziente < Si fa così perché (semplicemente) si deve >, nessuno potrà vietare al secondo di rispondere al primo < Si fa così perché (semplicemente) si deve… e con cura >. Chi è sul serio responsabilizzato percepisce tutto il livello del deficit o della debolezza, i quali apparentemente hanno una qualità orientativa, da discernere (oltre il banale razionalismo). Comunque il < Si fa così perché si deve > rispecchia bene l’essenzialità del prendersi cura. Filtrata eticamente, quella è la povertà di spirito connessa alla purezza di cuore. Se veramente “presa” dalla responsabilizzazione, una persona nemmeno dubita di risparmiarsi. A lei interessa il Bene (citando Platone). Né è unicamente una situazione di passività. Il discernere tanto il deficit quanto la debolezza ci appagherà, in risposta alla nostra sincerità. Zambrano ha concluso che vale la ragione materna per chi si prende cura dell’essere (senza disdegnare la poesia, tradizionalmente attenta ai dettagli del significato). La gratuità del responsabilizzato chiederà in cambio una massima collaborazione. Religiosamente, vale anche il principio per cui possiamo e dobbiamo “fermarci un attimo” in aiuto degli Altri, visto che tutti noi non porteremo nulla di nostro, una volta morti, a livello materialistico. Nel “viaggio” della vita, già contano i rimodellamenti per le decisioni da prendere. Inoltre, chi aiuta deve mantenersi umile, sino a garantire tutto il civismo d’una socializzazione. Il rianimatore non farà mai “il protagonista”. Egli già sa che in seguito il suo paziente dovrà raggiungerà l’ospedale.

Secondo il decostruzionismo di Derrida, il “vero dono” avrà una “radicalità” di fondo, non apparendo come tale né al concessore né al beneficiario. E’ una situazione che s’apre ad immediati paradossi, in fenomenologia. A donar per niente quasi non si dona sul serio (rischiando di “sbolognare” opportunamente…), mentre a donar per qualcosa quasi si tradisce la propria donazione (“malcelando” di confidare nel tornaconto…)! Per molti che si responsabilizzano vale il principio del < Si fa così perché si deve >, certo “purificato” da ogni calcolo. Inoltre nessuno ha l’obbligo di contraccambiare, per cui l’eventuale gratitudine è solamente accolta (senza che s’attendesse). La gratuità appare sempre unidirezionale: dal responsabilizzato al bisognoso o debole. Ad essa manca perfino il consolidamento. Il concessore è già totalmente sicuro del proprio gesto. Secondo Levinas, una comunità non regge solo grazie alle norme civili. Prima di tutto, bisogna riconoscere che l’Altro è una persona. Questo può “rafforzarsi” mediante il simbolismo del dono. Non c’è nemmeno il tempo di “pensare”: la sola presenza di qualcuno ci responsabilizza ad un incontro con lui. Quando tutti si donano, nasce la comunità. Naturalmente l’universalità etica del dono vince pure sul suo simbolismo (in apparenza “slegato” da un uso regolarmente ordinario del linguaggio). Portati dai Re Magi, l’oro, l’incenso e la mirra rispondono al tipico < Si fa così perché si deve >, a prescindere dalle loro implicazioni per il futuro cristologico.

A livello semplicemente esistenzialistico, la cura che mettiamo verso qualcosa è anche quella verso la sua temporalità. Non si può donare per “sbolognare” e… basta. La cura è pervasiva, mentre richiede una certa progettualità, spesso accompagnata dalla pazienza. L’uomo contemporaneo sfortunatamente vive in vari contesti che “frenano” un vero incontro fra le persone, stretti nella morsa d’una fretta. A scuola abbiamo tante materie, negli ospedali i posti vanno liberati di continuo. Un donatore assai devoto può “raggirare” a suo favore la fretta. Si pensi al caso di chi è sempre pronto a rispondere, anche “ingegnandosi”.


Paolo Meneghetti

Paolo Meneghetti, critico d’estetica contemporanea, nasce nel 1979 a Bassano del Grappa (VI), città dove vive da sempre. Laureato in filosofia all’Università di Padova (nel 2004), egli ha scritto una tesi sull’ estetica contemporanea, in specie allacciando l’ ermeneutica di Vattimo alla fenomenologia francese (da Bachelard, Bataille, Deleuze, Derrida). Oggi Paolo Meneghetti scrive recensioni per artisti, registi, modelle, fotografi e scrittori, curando eventi (mostre o conferenze) per loro, presso musei pubblici, fondazioni culturali, galleristi privati ecc... Egli in aggiunta lavora come docente di Storia e Filosofia, presso i licei del vicentino.

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