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Il pragmatismo filosofico

[[File:Charles Sanders Peirce theb3558.jpg|thumb|Charles Sanders Peirce theb3558]]


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Struttura dell’articolo: 1.Note storiche – La fase eroica (ca. 1870-1930) – Il revival ( ca. 1980); 2. Le tesi del pragmatismo; Bibliografia essenziale

1. Note storiche

Il movimento pragmatista nasce dalle filosofie di Peirce (1839 – 1914), James (1842 – 1910) e Dewey (1859 – 1952). Tuttavia, anticipazioni della filosofia pragmatista possono essere agevolmente trovate in ‘tutta l’antichità che si vuole’ (come confessa con piacere Peirce): Socrate, Aristotele, ma poi anche Spinoza, Locke, Berkeley, Kant, Comte. Comunque sia, è sensato riconoscere due fasi storiche del movimento pragmatista: la fase classica (o fase eroica ca. 1870 – 1930) e la fase nuova (o il revival ca. 1980).

La fase eroica (ca. 1870 – 1930).

Il pragmatismo nasce negli Stati Uniti verso i primi anni del 1870 dagli incontri, all’interno del cosiddetto (ironicamente) ‘The Metaphysical Club’, di pensatori come Peirce (il quale voleva principalmente una cosa: “ottenere una metamorfosi della filosofia in una scienza genuina”) e James – ma anche Holmes, Green (‘il nonno del pragmatismo’, che sempre insisteva sulla necessità di definire la certezza come ‘ciò sulla scorta di cui un uomo è pronto ad agire’ – la definizione è di Bain), il filosofone Wright, e per finire Fiske e Abbot. Il ‘souvenir’ di questi incontri al Metaphysical Club consiste nei due articoli di Peirce ‘The Fixation of Belief’ e ‘How to Make Our Ideas Clear’, dove in sostanza questo mette giù le sue idee – che poi sono il pragmatismo delle origini. Sia Peirce sia James svilupparono dunque il primo pragmatismo, James all’interno del circuito accademico di Harvard, Peirce (l’emarginato) nella sua stanzetta solo soletto in Pennsylvania, dopo la cacciata dall’università. Il primo formulatore del pragmatismo fu Peirce, ma fu James che diffuse (lui poteva) il nome e la dottrina del pragmatismo tra i colleghi e nel mondo – Peirce il rigoroso artista, James l’abile produttore (per fare un po’ di psicologia). Il nostro terzo eroe – introduciamolo subito senz’altro – è Dewey, stimato professorone, che si impegna a sviluppare il pragmatismo facendo notare ai colleghi filosofi come i dualismi tradizionali (apparenza-realtà, teoria-pratica, fatto-valore etc.) debbano essere abbandonati – infatti creano falsi problemi – in favore di una filosofia con i piedi per terra che si occupi dei veri problemi dell’uomo (cfr. sotto, le tesi del pragmatismo). Dopo Dewey, il movimento pragmatista perde molto del suo mordente eroico iniziale: di fatto la filosofia analitica (e prima l’empirismo logico) riesce a soddisfare molto bene i bisogni primi del pragmatista (il metodo rigoroso e l’abbandono della filosofia campata in aria). Questo non significa che la filosofia pragmatista scompare, o stagna nella coazione a ripetere della sua formulazione classica o viene fagocitata dalla filosofia analitica: viceversa.

Il revival (ca. 1980)

Dopo Dewey sembra che sia avvenuto questo: il pragmatismo come movimento unitario, come setta filosofica, scompare; tesi e atteggiamenti suoi propri si sciolgono e mescolano con preferenze e tesi di autori analitici singoli (filosofi come Quine, Carnap, Kuhn hanno chiaramente molto in comune con la filosofia pragmatica, anche se non sono in senso stretto definibili pragmatisti), pur in un clima di generale disinteresse da parte della filosofia analitica per il pragmatismo stesso. Così fino agli anni settanta, perché poi – grazie all’opera di Rorty soprattutto – rinasce un certo interesse verso il punto di vista pragmatista. Rorty si definisce un pragmatista (e non se ne vedevano da un pezzo) e argomenta in favore di una filosofia interessata ad interpretare piuttosto che a fondare, di una filosofia orientata a comprendere le nostre pratiche dall’interno di queste piuttosto che a cercare un punto di vista esterno oggettivo atemporale astorico assoluto etc. dal quale tuonare certezze eterne (confr. sotto, le tesi del pragmatismo). Certo Rorty non è l’unico responsabile del ‘revival’, di fatto ha contribuito a questa anche un ampio ed eterogeneo gruppo di filosofi tra cui si ricorda Davidson, Putnam, Margolis, West, Stich, Haack, Bernstein, Laudan, Popper, Brandom, Lewis (ma ce ne sono tanti altri).

2. Le tesi del pragmatismo[i]

Non è possibile fornire un elenco preciso delle tesi del pragmatista, ovvero un elenco che specifichi il credo del pragmatista. Di fatto non esiste – ad oggi – un credo del pragmatista, tutto ciò che esiste sono tesi, argomentazioni, critiche e tematiche solitamente preferite dal filosofo pragmatista (non necessariamente quindi preferite da tutti i filosofi che potrebbero essere detti pragmatisti, e non necessariamente non preferibili pure da filosofi non pragmatisti). Detto ciò, sembra comunque di poter caratterizzare (necessariamente in modo vago) la filosofia pragmatista fornendo il seguente resoconto degli elementi centrali di questa.

Voglio subito dare una definizione di pragmatismo – tanto per contraddire (o forse no? Che importa!) quello che ho detto qualche riga fa sul credo del pragmatista. Per questo, seguo Peirce, secondo il quale il pragmatismo

non è una teoria metafisica né un tentativo di determinare una qualche verità delle cose. È solo un metodo per accertare i significati di parole difficili o di concetti astratti […] Tutt’altra questione sono gli effetti ulteriori e indiretti dell’esercitare il metodo pragmatista.

In particolare il pragmatismo è un ‘metodo per accertare i significati, non di tutte le idee, ma solo dei concetti intellettuali, dalla cui struttura dipendono gli argomenti che riguardano un fatto oggettivo.’ In sostanza il pragmatismo è ben caratterizzabile attraverso il principio secondo cui ‘il significato totale della predicazione di un concetto intellettuale consiste nell’affermare che in ogni circostanza di un dato tipo, il soggetto di una predicazione si comporterebbe (o non si comporterebbe) in un certo modo.’ La dimostrazione della verità del principio – che ricorre a nozioni di semiotica, e che non vale la pena riportare qui – la si trova nell’articolo ‘Pragmatismo’, ideato come lettera e rifiutato al tempo da diverse riviste, comunque, per certo, lo si può leggere negli ‘Scritti scelti’ pubblicati da UTET e curati da Maddalena (consigliato a chi vuole rompersi la testa!). Peirce in sostanza arriva a dimostrare come la migliore spiegazione di un concetto consista nella descrizione dell’abito (o regola d’azione) prodotto da quel concetto. Ed è evidente che la descrizione dell’abito non può essere altro che ‘la descrizione del tipo di azione alla quale dà luogo, con la specificazione delle condizioni e del motivo.’ Detto questo, si è capito (almeno) che il pragmatismo è un metodo – e tra un po’ esporrò tale metodo (che nelle intenzioni di Peirce dovrebbe coincidere con il metodo sperimentale, niente altro che un’applicazione particolare di una vecchia regola logica: ‘dai loro frutti li riconoscerete’ (Mt. 7,20). Prima però voglio vedere qualche altra definizione. James definisce pragmatismo ‘la dottrina secondo la quale l’intero significato di un concetto si esprime o in forma di condotta da seguire o di esperienza da aspettarsi’. Secondo Peirce la differenza tra le due formulazioni (la sua e quella di James) è evidente, anche se non praticamente evidente. La differenza sta soprattutto nel fatto che James non restringe il significato a un abito, ma lo allarga anche alle sensazioni. Oltre a Peirce e James, altri si adoperano come formulatori; Schiller fornisce sette definizioni alternative di pragmatismo. Pragmatismo come ‘teoria che sostiene che le verità sono valori logici’ (per Peirce è una definizione troppo ampia, la si può intendere come una definizione dell’oggettività della verità nei termini del fatto che alla fine ogni sincero ricercatore la accetterà – dunque può rappresentare un bel corollario del pragmatismo, assunta l’instancabile fiducia del nostro caro Vecchio nel fatto pratico che la ricerca scientifica prima o poi arriva con molta probabilità alla verità), come la teoria che sostiene che ‘la verità di un’asserzione dipende dalla sua applicazione’, o come quella per cui ‘il significato di una regola sta nella sua applicazione’ (questa definizione e la precedente sono troppo deboli, un po’ troppo da fumetto), ancora, come la teoria secondo la quale ‘ogni significato dipende da un fine’ (troppo ampia), come la teoria per cui ‘tutta la vita mentale è intenzionale’ o ancora ‘una sistematica protesta contro ogni trascuratezza della intenzionalità del conoscere attuale’ (intenzionale? Ricorda la fenomenologia, magari qualcuno potrebbe tirarci fuori qualche commento interessante – per lui, si intende), infine pragmatismo come ‘un’applicazione conscia all’epistemologia (o logica) di una psicologia teleologica, che implica, al suo termine, una metafisica volontarista.’ Si potrebbe tradurre quest’ultima formulazione nello slogan ‘pragmatismo come senso comune critico’ – rimane uno slogan, ovvero una formulazione non rigorosa. Infine, Giovanni Papini ha ‘definito’ il pragmatismo indefinibile – non sono d’accordo (Peirce dal canto suo pensa che Papini abbia fatto in questo caso della letteratura), se vogliamo una definizione basta andare a trovare il vecchio Peirce. Ho detto che il pragmatismo è essenzialmente un metodo, dunque al metodo!

Il metodo pragmatista è brutale quanto eccitante, ed è volto a chiarire (o dissolvere) la disputa filosofica per mezzo della chiarificazione delle nostre credenze. Il test da adottare per capire quando siamo di fronte ad una vero disaccordo consiste nel domandare ‘Cosa cambierebbe praticamente concretamente se la mia teoria (o credenza) fosse vera e le teorie ad essa rivali false?’. Nel caso non cambi niente, si può giudicare il problema per il quale si discuteva un falso problema.

Peirce e James hanno formulato una cosiddetta ‘massima pragmatica’, la quale aiuta a caratterizzare meglio il metodo. Per Peirce la massima pragmatica è una massima logica, egli la formula così:

considerare quali effetti, che possono concepibilmente avere portate pratiche, noi pensiamo che l’oggetto della nostra concezione abbia. Allora la concezione di questi effetti è l’intera nostra concezione dell’oggetto (pag. 215)

Nota: il concetto di conseguenza pratica o effetto è abbastanza problematico o mal definito tra i pragmatisti. Peirce mi pare di capire spiega così la cosa: le conseguenze pratiche in sostanza consistono nella totalità dei modelli generali di condotta razionali che, condizionatamente alle diverse situazioni nonché desideri, seguono dall’accettazione della particolare credenza (o pensiero o teoria, come si vuole) – James sembra essere invece più vago sul concetto di ‘conseguenza pratica’. Tornando al pragmatismo, questo viene definito (sempre da Peirce), come

il principio secondo il quale ogni principio teoretico che si può esprimere in una frase formulata nel modo indicativo è una forma confusa di pensiero il cui solo significato, se ce n’è uno, sta nella sua tendenza a provocare una massima pratica corrispondente che si può esprimere come una frase condizionale la cui apodosi è un imperativo.

Per provare la massima (ovvero l’affermazione che le possibili conseguenze pratiche di un concetto costituiscono la somma totale del concetto) Peirce definisce la credenza come ‘l’essere deliberatamente preparati ad adottare la formula creduta come guida dell’azione’: questa definizione della natura della credenza è fondata nella psicologia e in una concezione della verità come ‘impulso originale ad agire in modo coerente’. Ne consegue che ad es. l’idea per cui ci sono fatti inconoscibili per principio (la cosa-in-sé kantiana) non ha alcun senso, di fatto la verità di quest’idea non ha nessuna incidenza sul nostro comportamento.

Questo detto un po’ in fretta. L’articolo dove Peirce espone molto bene queste idee è ‘How to make our ideas clear’ (in Popular Science Monthly vol. 12 del 1878). Qui riassumo la tesi così come è sviluppata nell’articolo, per cercare di esprimere più chiaramente ed estesamente quello che sopra ho detto frettolosamente. Quello che i logici ci vengono a dire è che avere un’idea chiara è meglio che averne una oscura: giusto. Cosa fa si che un’idea possa essere detta chiara: 1. La famigliarità: ovvero che questa ‘viene appresa in modo tale da essere riconosciuta ovunque s’incontri, e tale che nessun’altra idea possa essere confusa con essa’, 2. La definizione: ovvero che si possa dare ‘una precisa definizione di essa in termini astratti’. Questo è tutto quello che il logico è in grado di dire sulla questione. Tuttavia questa caratterizzazione dell’idea chiara pur essendo effettivamente ‘carina’ non è soddisfacente ed è ormai sorpassata (la si trova nei vecchi malaticci come Cartesio e Leibniz). Di fatto, il semplice analizzare una credenza per definizioni non ci dirà mai qualcosa in più, qualcosa che già non sappiamo – per questo è meglio incominciare a considerare le conseguenze pratiche coinvolte nell’accettazione di una credenza. La domanda deve essere: quale metodo per rendere chiare le nostre idee? Di fatto, il ‘solo’ aver chiaro il proprio pensiero è già un solido fondamento di un sano pensare; si tratta di capire se stessi, però in modo molto pratico, come si vedrà – una vecchia idea molto nuova sempre inattuale, sembrerebbe. Nell’altro e precedente articolo fondamentale ‘The fixation of belief’ (Popular Science Monthly, vol 12 del 1877) si chiariva la natura del pensiero. ‘L’azione del pensiero è stimolata dall’irritazione del dubbio, e cessa quando la credenza è raggiunta; di modo che produrre la credenza è la sola funzione del pensiero’. Abbiamo capito bene? Si chiariva anche la natura della credenza. Questa è caratterizzata da tre proprietà: ‘1. È qualcosa di cui ci rendiamo conto, 2. Acquieta l’irritazione del dubbio, 3. Implica lo stabilirsi nella nostra natura di una regola d’azione (o altrimenti detto, di un abito)’. L’essenza della credenza è proprio lo stabilirsi di un abito, così come l’essenza del pensiero è il produrre una regola d’azione. Da questo segue che se due credenze (ritenute differenti) acquietano lo stesso dubbio (attorno al quale infiamma la discussione) producendo la medesima regola d’azione, queste sono in realtà la stessa credenza. Ingannarsi è facile e assai diffuso (soprattutto tra i metafisici), spesso infatti si prende la sensazione prodotta dall’oscurità del proprio pensiero come una proprietà reale della cosa su cui ci si interroga (sempre molto drammaticamente!), oppure si scambia (quanto spesso!) una semplice differenza nella costruzione grammaticale di due parole per una differenza tra le idee che queste parole tentano di esprimere. Ma possiamo evitare questi inganni, proprio attraverso il metodo pragmatico. Si è definita l’intera funzione del pensiero come quella di produrre abiti d’azione. Questo implica allora che ‘per sviluppare il significato di una cosa non dobbiamo far altro che determinare quali abiti essa produce, giacché quello che una cosa significa è semplicemente l’abito implicato da essa’. E l’identità dell’abito dipende esclusivamente da come porta all’azione, il che significa che dipende da quando e da come porta all’azione. Per il quando ‘ogni stimolo di azione è derivato dalla percezione’, per il come ‘lo scopo dell’azione è produrre qualche risultato sensibile’. Morale: ‘non vi è distinzione di significato, per fine che sia, che possa consistere in altro che in una possibile differenza pratica’. Segue abbastanza chiaramente a questo punto la formulazione della regola (definibile aurea? – per poi chiamare quell’altra magari ‘regola maso’), già data prima, per cui:

considerare quali effetti, che possono concepibilmente avere portate pratiche, noi pensiamo che l’oggetto della nostra concezione abbia. Allora la concezione di questi effetti è l’intera nostra concezione dell’oggetto.

Due rilevanti esempi di applicazione del metodo pragmatico. 1. il problema del libero arbitrio. Questo – tolta la retorica – si riduce alla seguente questione: ‘ho fatto qualcosa di cui mi vergogno; avrei potuto, con uno sforzo di volontà, resistere alla tentazione e fare diversamente?’ Il filosofo pragmatico non esita a definire la questione come riguardante la sistemazione dei fatti, piuttosto che i fatti stessi. 2. Il problema dell’esistenza della realtà. Poiché la realtà – come ogni altra cosa – in fondo consiste semplicemente ‘nei particolari effetti sensibili che le cose che partecipano ad essa producono’, il che sta a dire che consiste nelle credenze che causa, la domanda allora diventa: come si distingue la vera credenza (quella nel reale) dalla falsa (quella nella finzione). Peirce risolve la questione della verità facendo coincidere quest’ultima con l’output di un processo d’indagine (scientifico) che vede la partecipazione di molti studiosi magari con metodi diversi o punti di partenza differenti. In sostanza ‘l’opinione il cui fato è che da ultimo si trovino d’accordo su di essa tutti coloro che indagano (e Peirce sembra avere una grande fiducia nel fatto che un giorno – almeno – l’uomo arrivi alle sue risposte), è ciò che intendiamo per verità, e l’oggetto rappresentato in quest’opinione è il reale.’ Detto altrimenti: ‘la realtà di ciò che è reale dipende dal fatto reale che l’indagine, se è protratta abbastanza a lungo, è destinata a portare in ultimo alla credenza in quella cosa.’ Dunque ciò che è reale è l’oggetto rappresentato in una proposizione vera, e dal momento che è vero ciò a cui tende la ricerca scientifica, ciò che è reale è in sostanza deciso a livello dell’indagine conoscitiva dell’uomo come comunità.

Aggiungo una cosa. Per Peirce il metodo pragmatista (la massima) è un metodo logico scientifico, che serve per chiarire e verificare ipotesi, anche (dunque, non solo!) in filosofia: di fatto la chiarificazione di un ipotesi (ovvero il comprendere esattamente quale sia il suo contenuto) è un passo necessario per compiere quello ulteriore della verificazione empirica (il passo scientifico).

Quello che invece motivava James alle origini a proporre il metodo pragmatico era la volontà di mostrare come si potesse pensare un mondo dove l’uomo procede nell’indagine conoscitiva fondendo esigenze di rigorosità scientificità aderenza ai fatti con l’esigenza (apparentemente opposta) di cogliere e considerare le questioni morali e religiose (in senso ampio) all’interno appunto di questo procedere. Il pragmatismo è un modo di muovere nella direzione della fusione: e consiste nel metodo per terminare finalmente discussioni metafisiche da sempre interminabili (ad esempio disambiguando il significato di un termine in un certo contesto) che venivano regolarmente partorite (e ripartorite) dalla falsa divisione del sapere. In questo senso il pragmatismo si delinea come una salutare tecnica che permette di dissolvere rompicapi metafisici e altre questioni inutili: cos’è veramente il rompicapo della presunta incompatibilità tra determinismo e libero arbitrio? Solo confusione! Di fatto, una volta comparate le conseguenze pratiche della verità del determinismo con le conseguenze pratiche della verità del libero arbitrio, si troverà che non vi è alcun conflitto tra le due, dunque nessun rompicapo – fine della discussione. Il metodo è sempre lo stesso: se da due posizioni teoriche non seguono differenze pratiche, queste sono la stessa e non ha alcun senso (oppure è inutile) continuare a discutere. Solo che – l’ho già detto mi pare – per James fanno parte delle conseguenze pratiche di un pensiero anche le sensazioni, oltre che le reazioni (fisiche, muscolari – l’abito). Così James estende il campo delle conseguenze pratiche, rispetto a Peirce. Detto questo, James non viene a darci ragioni che possano giustificare l’effettiva adozione del metodo pragmatista, tranne l’implicita ragione ‘emotiva’ veicolata dal fatto di osservare, nei suoi scritti tra i molti esempi di applicazione del metodo, come questo effettivamente funzioni bene – e dunque usiamolo pure! Non così invece Peirce. Egli prima argomenta – l’ho già detto – riducendo la credenza all’abito, per cui avere una credenza è avere una certa disposizione all’azione; e allora usare il metodo per chiarire una proposizione implica descrivere l’abito che è la credenza. Poi – negli scritti più tardi – argomenta prima di tutto dando un resoconto del ragionamento scientifico, qui troviamo ragionamenti deduttivi, induttivi, e abduttivi (o l’inferenza alla migliore spiegazione. Ovvero, l’abduzione è un’inferenza con la quale si passa da certi fatti osservati alla supposizione di un principio generale che è in grado di spiegarli bene). Il metodo pragmatista sarebbe sufficiente a fornire l’informazione per un’inferenza alla migliore spiegazione, mentre argomenti induttivi e deduttivi non possono mostrarne la falsità – tuttavia questo rigido pensatore rimarrà sempre insoddisfatto riguardo alle sue soluzioni sul problema della giustificazione del metodo pragmatista. Ma guardiamoli allora questi due pensatori, James e Peirce: diversissimi. E lo si percepisce subito, quando James sviluppa il pragmatismo nella direzione di una rivendicazione del valore (pratico) della fede religiosa e delle varie ragioni sentimentali poiché in fondo vere quanto (o forse più) vere delle ragioni della scienza – e a questo si arriva (o si può arrivare) concependo la verità come quella cosa che dà luogo a conseguenze pratiche soddisfacenti, magari in relazione alle esigenze vitali più profonde (??) dell’uomo: inutile dire che a Peirce non piaceva affatto questa direzione, e per l’occasione inventa, per non confondere la sua posizione con le altre, l’etichetta ‘pragmaticismo’ (è brutta abbastanza? Ma non sarà anche perché il diavolo appare sempre come bello femminile, magari anche profondissimo?). Ora cerco di chiarire meglio la teoria della verità di James. Per questo particolare pensatore la nozione di ‘verità’ non è altro che un espediente per le nostre pratiche conoscitive, esattamente come la nozione di ‘giusto’ lo è per le nostre pratiche di comportamento. Vero non è altro che ciò che si dimostra essere buono per le nostre esigenze pratiche; una credenza è vera quando averla contribuisce alla nostra felicità, alla fioritura dell’umano – inutile far notare la vaghezza di questa posizione.

Detto questo, ora dico invece qualcosina in modo molto schematico sulle tesi generali che seguono (più o meno) o potrebbero seguire dall’adozione del metodo e della prospettiva pragmatica.

Ho detto che teorie e modelli devono essere giudicati per le loro conseguenze pratiche – e nel caso non ne abbiano, non hanno nemmeno senso. Allora, le teorie scientifiche in particolare non sono che utili strumenti per affrontare la realtà (to cope with reality): il criterio di utilità viene individuato nella capacità della teoria di risolvere problemi. Dunque la morale sembra essere: finché la teoria funziona praticamente è giusto usarla, e quando ne salta fuori una che funziona meglio, è giusto sostituire la prima con la seconda. La teoria è uno strumento, non una ricca cornucopia dalla quale trarre risposte alle proprie eterne domande. Sembra di poter dire allora (proprio generalmente – è l’ombra del pragmatista a parlare) che una proposizione o una teoria è vera se funziona bene, dunque che il significato della proposizione o teoria viene definito in base ad una valutazione delle conseguenze pratiche eventuali della sua accettazione (cosa debba essere considerato conseguenza pratica non sembra essere sempre chiaro – anche se prima ho esposto il pensiero dei fondatori sulla questione; orientativamente, le conseguenze di un pensiero o di una teoria sono il ruolo che questo o questa svolgono come strumento nel pensiero e nella deliberazione pratica – ma vale anche la definizione di ‘conseguenza pratica’ data sopra durante l’esposizione della posizione di Peirce). E il corollario sembra essere che proposizioni o teorie false (i.e. che funzionano male) sono da rigettare.

Il pragmatista (o almeno la sua ombra) odia Cartesio, il malaticcio (bisogna pur dirlo!). Dunque il pragmatista rifiuta innanzitutto la visione cartesiana del contenuto mentale come privato e soggettivo, l’idea di una mente in perenne autodigestione: di fatto questa visione genera un vespaio demoniaco di problemi (o falsi problemi) come l’alternativa tra realismo e idealismo, il solipsismo, lo scetticismo (soprattutto la piaga futile dello scetticismo, che nasce dall’assurda richiesta cartesiana della certezza, di fatto, (così Quine ad es.), la tesi dell’esistenza del mondo esterno si giustifica semplicemente col fatto che funziona molto bene, e che è la migliore spiegazione della nostra esperienza sensoriale): problemi che hanno ritardato lo sviluppo di un sano empirismo (ovvero il pragmatismo – perché, se il pensiero non è ancora chiaro, rendiamolo pure tale: il pragmatismo è una forma di empirismo). In questa direzione (contro Cartesio) si muovono in molti, ad es. Peirce con la sua concezione della credenza come regola per l’azione, e Wittgenstein con il suo argomento del linguaggio privato. In questo senso il pragmatista è un libero pensatore, libero da assunzioni (facoltative in fondo) che hanno storicamente generato un’orgia di problemi falsi e irrisolvibili. Sempre contro Cartesio, il pragmatista ha da sempre perso la fiducia nella conoscenza certa. Per il pragmatista niente è assolutamente certo o non rivedibile: le teorie e le credenze non sono che ipotesi modificabili alla luce del procedere dell’indagine conoscitiva. Tale fallibilismo è argomentato variamente: attraverso ad es. l’argomento della meta-induzione pessimistica proposto da Laudan (un argomento veramente cogente) per cui anche le nostre migliori teorie (es. classico, la teoria newtoniana) si sono storicamente rivelate false e sono state conseguentemente riviste sostituite o modificate; attraverso l’argomento che fa notare come il presunto possesso della verità certa impedisca di fatto il sano procedere dell’indagine conoscitiva umana; attraverso l’argomento per cui la nozione di verità certa alimenta fanatismo e dogmatismo.

Inoltre il pragmatista rifiuta la balzana idea per cui l’indagine conoscitiva debba iniziare con il mettere in dubbio tutte le nostre credenze. Il punto è che non ha alcun senso mettere in dubbio tutto, di fatto non è nemmeno possibile, dal momento che la stessa natura conoscitiva osservativa dell’uomo è sempre impregnata di teoria (ovvero, l’uomo guarda per forza sempre da un certo punto di vista): l’indagine conoscitiva deve iniziare o procedere invece mettendo in dubbio singole credenze alla volta (illuminante su questo punto è la metafora di Neurath che paragona l’indagine conoscitiva alla riparazione di una barca mentre questa è in mare). Da queste premesse segue che il pragmatista sostiene generalmente il naturalismo, inteso come quella visione del rapporto scienza filosofia dove le due lavorano in continuo.

L’accordo con le tesi kantiane è parziale. Che l’uomo non possa conoscere che attraverso schemi di categorie è solitamente accettato, di fatto il pragmatista pensa che non si possa mai dare conoscenza disincarnata preteorica decontestualizzata – ovvero: si guarda sempre da un certo punto di vista (e mai da quello esterno, senza occhi vivi). Al contrario di Kant tuttavia il pragmatista non afferma la necessità e l’immutabilità di questi schemi interpretativi, piuttosto afferma che il nostro punto di vista, da cui sempre interpretiamo la realtà, muta storicamente culturalmente nonché contestualmente, e può costantemente essere giudicato inadeguato e così essere sostituito. Questa visione porta al pluralismo descrittivo: esistono più descrizioni valide dell’uomo e del mondo, e in sostanza non è il mondo a vomitarci addosso la descrizione vera, piuttosto è l’uomo che ne sceglie una o più.

Coerentemente con la visione per cui il rapporto con la realtà è sempre mediato concettualmente, il pragmatista critica quelle teorie fondazionaliste della giustificazione per cui la conoscenza è fondata su un certo gruppo di credenze che giustificano tutte le altre credenze ma che non sono esse stesse giustificate da altre credenze, essendo invece giustificate dall’esperienza grezza – ma quale esperienza grezza? Generalmente (così James) il pragmatista è un coerentista, ovvero pensa che la giustificazione di una credenza dipenda (più che dall’aderenza a fatti, cosa sono questi fatti?) dal livello di coerenza (o adattamento) di questa con l’intero corpo di credenze (con la teoria) – i fatti ammessi sono quelli la cui esistenza è conforme o coerente al nostro corpo di credenze.

L’osservazione non è pura e passiva recezione (con Kant, contro Locke e molti altri). Il pragmatista si oppone alla visione (millenaria) che riduce la conoscenza a una forma malaticcia acritica femminile di voyeurismo, alla visione che riduce la conoscenza ad una forma di vassallaggio silenzioso e disinteressato nei confronti della realtà: l’obbiettivo di questi voyeurismi sembra essere quello di replicare fedelmente il mondo, di contemplare le cose da un punto di vista disimpegnato praticamente. Che miseria! È questo che l’uomo (l’animale più passivo che conosca) fino ad oggi ha voluto? Di contro, il pragmatista asserisce che la conoscenza è il prodotto di un indagine (di un processo di soluzione di problemi) che risolve i dubbi in credenze, ma questa indagine si configura necessariamente come sperimentazione, manipolazione, in sostanza modificazione della realtà: il dualismo teoria pratica non esiste. È evidente che osservare non è una pratica passiva. La psicologia lo dice da sempre: osservare è necessariamente selezionare. Non è serio allora pensare che si possa percepire la Natura nella sua verginale freschezza, noi imparziali e passivi: necessariamente siamo stupratori (ovvero osservatori selezionatori, guidati da interessi, aspettative, teorie). Così cade pure l’ideale onanistico degli empiristi della conferma oggettiva della teoria per mezzo di puri dati sensoriali grezzi indipendenti riflettenti la natura, così com’è: e com’è? (qualcuno lo decide? Forse un’ameba?). Il pragmatista (quello eroico – di fatto molti pragmatisti si limitano a sostenere la necessità di una riforma) allora ripudia come fedifraga (dell’uomo) la visione della verità come corrispondenza alla realtà (ai fatti). Per James e Dewey vero è ciò che funziona (ciò che è utile): l’ipotesi vera funziona, l’ipotesi che funziona è vera. Per Pierce (l’ho spiegato sopra) l’opinione vera è quella che sarebbe accettata alla fine di un’indagine. Per Rorty (il quale dissolve la questione, ovvero non tenta nemmeno di spiegare che cosa sia la verità) dire che qualcosa è vero non è attribuirgli una proprietà (di fatto la verità non ha una natura un’essenza), ma è semplicemente fare un atto linguistico performativo (es. avvertire).

Bibliografia essenziale

-Stanford Encyclopedia of Philosophy, http://plato.stanford.edu/entries/pragmatism/.

– Internet Encyclopedia of Philosophy,  http://www.iep.utm.edu/pragmati/.

– Peirce, Il fissarsi della credenza (1877), in Scritti scelti, UTET Torino, pp. 185 – 204.

– Peirce, Come rendere chiare le nostre idee (1878), in Scritti scelti, UTET Torino, pp. 205 – 228.

– Peirce, Pragmatismo (1907), in Scritti scelti, UTET Torino, pp. 591 – 626.


[i] Quando uso la parola ‘pragmatista’ solitamente la uso nel suo significato più ampio e vago possibile.


Francesco Margoni

Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive dell’Università di Trento. Studia lo sviluppo del ragionamento morale nella prima infanzia e i meccanismi cognitivi che ci permettono di interpretare il complesso mondo sociale nel quale viviamo. Collabora con la rivista di scienze e storia Prometeo e con la testata on-line Brainfactor. Per Scuola Filosofica scrive di scienza e filosofia, e pubblica un lungo commento personale ai testi vedici. E' uno storico collaboratore di Scuola Filosofica.

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