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Putnam sul rapporto tra filosofia e scienza: per una terza via ragionevole

Jared Tarbell, CC BY 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/2.0>, via Wikimedia Commons

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Traggo il contenuto di questa riflessione dal capitolo primo del volume La filosofia nell’età della scienza, volume il quale raccoglie i più recenti saggi filosofici di Putnam[1].

Oggi si pone cogente la domanda sul posto della filosofia nell’insieme complessivo del sapere dell’uomo. Ci si interroga sia sul posto sia sulla stessa legittimità e utilità del sapere filosofico, dunque, prima, se in generale vi è un posto per la filosofia, e poi, se sì, qual è.

Possiamo, semplificando e schematizzando, rintracciare, come spesso si è fatto (e ci si riferisce all’analisi della storia della filosofia proposta da Heidegger, che Putnam, tuttavia, non condivide), la ragione per cui questa domanda oggi si pone nel fatto che, mentre storicamente la filosofia (almeno dal Medioevo alla fine dell’Ottocento) ha occupato gran parte dei propri sforzi e del proprio tempo in questioni metafisiche e teologiche, oggi, per lo più grazie allo sviluppo della scienza e della tecnica, e dunque della carica di secolarizzazione che ad esso si è accompagnata, si è ormai radicata la visione per cui non abbisogniamo più di Dio (o di un altro sostanzialmente equivalente principio primo metafisico) come fondamento del mondo naturale o della morale, e dunque è sterile ed obsoleta la storica funzione e attività della filosofia come indagine sui fondamenti primi della realtà. Da qui l’interrogativo se vi sia oggi un posto per essa e, nel caso, quale sia, soprattutto relativamente al posto della scienza, la qual’ultima ha sostituito con fermezza e solidità il compito, storicamente filosofico, di definire l’ontologia del mondo naturale, uomo (naturale) compreso. La ragion d’essere della filosofia è in sostanza messa in discussione dalla scienza, la quale ha reso obsoleta sia l’idea della necessità di postulare un Dio a fondamento del mondo naturale sia l’idea di un’anima immateriale.

Ora, è possibile individuare due risposte estreme e tra loro opposte, nonché errate, nell’opinione di Putnam, alla domanda posta oggi alla filosofia. La prima è la risposta del positivismo logico, la seconda del postmodernismo. Vediamole nell’essenziale.

Per il positivismo logico sono centrali due punti: primo, gli unici enunciati ad avere significato sono quelli che possono essere controllati e verificati (con metodo scientifico), dunque tutti gli altri enunciati non hanno significato; secondo, gran parte della filosofia tradizionale (se non proprio tutta) deve essere abbandonata in quanto priva di contenuto, proprio perché composta da enunciati che non possono essere controllati e verificati attraverso il metodo scientifico. Nel 1934 Carnap[2] scrive: «Tutte le affermazioni che appartengono alla Metafisica, all’Etica regolativa e all’Epistemologia (di tipo metafisico) hanno il difetto di essere di fatto non verificabili e perciò non scientifiche. Nel Circolo di Vienna siamo soliti descrivere queste affermazioni come dei nonsense». Da queste premesse si deduce facilmente la risposta del positivismo logico: la filosofia deve diventare scienza, ovvero essere incorporata in essa; la filosofia tradizionale va abbandonata, mentre va sviluppato il cosiddetto studio (filosofico) della «logica della scienza». Carnap si dedicherà di fatto allo studio della logica della scienza, ma con risultati ogni volta fallimentari.

La risposta del postmodernismo è diametralmente opposta. La legittimità e l’attualità della filosofia non è minacciata dalla scienza poiché anche la scienza stessa, come per altro qualsiasi descrizione di fatti, è una forma di finzione perché i fatti sono una costruzione concettuale relativa alle credenze assunte da una determinata comunità, per tanto, la scienza stessa costruisce i fatti che verifica sulla base delle credenze assunte dalla comunità degli scienziati. Se, in sostanza, non esiste una descrizione veridica della realtà, ogni descrizione trova in sé la propria legittimità.

Secondo Putnam entrambe le risposte non sono sostenibili e la posizione corretta deve configurarsi come una sorta di terza via. Per delineare la sua risposta Putnam ricorre a due definizioni della filosofia, non sue, che, secondo lui, andrebbero integrate. La prima è quella data da Stanley Cavell in La riscoperta dell’ordinario[3], dove la filosofia consisterebbe nell’interrogarsi criticamente sui criteri della propria cultura e vita, la seconda è tratta da La filosofia e l’immagine scientifica dell’uomo[4] di Wilfrid Sellars, ed è filosofia come comprensione di come le cose stiano insieme. La prima definizione individuerebbe maggiormente l’aspetto morale della filosofia, la spinta ad interrogare la nostra vita e cultura, a capire la loro storia e come possano cambiare, eventualmente secondo un ideale guida; la seconda definizione individuerebbe invece l’aspetto teoretico, in quanto richiesta di chiarezza e coerenza su quanto conosciuto. Questi due aspetti o compiti sono comunque da considerarsi l’uno integrazione dell’altro.

Se da una parte il positivismo logico ha pensato di preservare (attraverso la riduzione della filosofia a scienza) l’aspetto teoretico abbandonando quello morale (pur bollando come insensate molte questioni teoretiche), dall’altra il postmodernismo preferisce preservare il lato morale a spese del teoretico. Fare filosofia implica tuttavia occuparsi di entrambi gli aspetti, e la risposta alla domanda resa cogente dall’apparire della scienza come impresa conoscitiva principale, non può essere la rinuncia ad uno dei due aspetti, pena salvare qualcosa che di filosofico avrà solamente il nome.

Come entrambe le soluzioni non sono da accettare, poiché parziali, pure hanno qualcosa di valido, recuperabile nella delineazione di una terza via.

Non accettare la soluzione di riduzione proposta dal positivismo logico non implica negare che vi sia e che vi debba essere un rapporto molto stretto tra filosofia e scienza. Quello che i positivisti assumevano era una forte e netta separazione tra fatti (e verifica dei fatti attraverso l’osservazione) e valori, tra fisica e metafisica. Tuttavia quest’assunzione è stata da più parti e attraverso diversi contributi stabilita come falsa (per un’esposizione della critica della dicotomia fatto/valore vedi: Putnam H., Fatto/valore: fine di una dicotomia e altri saggi, Roma, Fazi, 2004), ed anzi, pare proprio che l’intreccio tra fisica e metafisica, oltre ad essere in certa misura necessario, sia anche salutare ad entrambe le parti. Ad esempio, la filosofia ha un ruolo nella scienza, poiché questa non si accontenta, giustamente e di fatto, di scegliere una teoria solamente perché migliore o più esplicativa delle teorie alternative, ma si chiede anche quale sia la teoria vera, ovvero come sia realmente il mondo, e cerca di comprendere (anche in termini metafisici) cosa vogliano dire le teorie. Questo è quello che la scienza fa, al di là delle teorizzazione della filosofia della scienza. Ma ci sono anche altri fatti che ci inducono a concludere che la filosofia, o meglio, la considerazione normativa, entri nella scienza: ad esempio che tutti i giudizi di ragionevolezza (come la coerenza o la semplicità) sono giudizi di valore, e sono presupposti dell’indagine scientifica. Questa non è una situazione da risolvere, poiché non pone alcun problema vero, anzi è da accettare. Il profondo intreccio tra fatti e valori, e nella scienza tra fatti valori e teorie, è indispensabile alla conoscenza, che altrimenti non potrebbe evolvere.

L’iniziale analisi della crisi della filosofia, presentata brevemente in questo scritto, è tratta da Essere e Tempo di Heidegger (1927), ma, secondo Putnam, è errata, proprio come la visione di Wittgenstein sulla fine della filosofia tradizionale. La filosofia non si è mai solamente occupata di questioni ontologiche e teologiche, e non c’è ragione di vedere nella mancata risoluzione dei problemi della filosofia il suo fallimento o la sua crisi. La volontà di autonomia del postmodernismo non è dunque completamente da rigettare. Tuttavia oggi la filosofia né va confusa con la scienza né concepita in totale autonomia o contrapposizione con essa; piuttosto va preservata sia sotto l’aspetto morale che teoretico, sia nelle sue parti maggiormente dialoganti con la scienza, o ad essa proprio interne, sia con le sue parti più distanti dal sapere scientifico e più vicine alle esperienze soggettive e quotidiane.


[1] Putnam, H., La filosofia nell’età della scienza, Edizione italiana de il Mulino a cura di De Caro M. e Macarthur D., 2012, pp. 57-70.

[2] Carnap R., The Unity of Science, London, Kegan Paul, Trench, Trubner and Co., 1934, pp. 26-27.

[3] Cavell S., La riscoperta dell’ordinario. La filosofia, lo scetticismo, il tragico. Roma, Carocci, 2001, pp. 174-175.

[4] Sellars, W., La filosofia e l’immagine scientifica dell’uomo. Roma, Armando, 2007, p. 27.


Francesco Margoni

Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive dell’Università di Trento. Studia lo sviluppo del ragionamento morale nella prima infanzia e i meccanismi cognitivi che ci permettono di interpretare il complesso mondo sociale nel quale viviamo. Collabora con la rivista di scienze e storia Prometeo e con la testata on-line Brainfactor. Per Scuola Filosofica scrive di scienza e filosofia, e pubblica un lungo commento personale ai testi vedici. E' uno storico collaboratore di Scuola Filosofica.

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