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Chisholm – Conoscenza e opinione vera

Schema

Introduzione al problema della terza condizione della conoscenza dalla formulazione platonica

Riformulazione del problema della terza condizione

Inizio delle presentazioni delle varie candidate

Enunciazione tesi candidata: “S ha prova adeguata che P è vera”

Prima obiezione e la sua smentita

Altre due obiezioni decisive

Enunciazione di una nuova tesi candidata su base probabilistica e le sue possibili formulazioni

Significato statistico della probabilità

I problemi del significato statistico

Significato induttivo della probabilità

Problemi del significato induttivo

Significato assoluto della probabilità

Problemi del significato assoluto della probabilità

Enunciazione di una nuova tesi candidata: l’osservazione

Problemi dell’osservazione

Ambiguità semantica

Nuovo pericolo di circolo vizioso

La proposta di Austin: partendo dall’analisi pragmatica del linguaggio ordinario si riconsidera il problema del Teeteto

Definizione di “funzione esecutiva”

La fallacia descrittiva

I problemi della proposta di Austin

I problemi della definizione di “funzione esecutiva”

Sensi diversi del performativo

Fallacia esecutiva di Austin e la riconsiderazione del problema del Teeteto

Analisi di altri termini epistemici che esprimono valutazioni di proposizioni

Evidente, ragionevole, più ragionevole, gratuita, indifferente,  accettabile, inacettabile

Enumerazione e discussione delle varie definizioni

La proposta di Chisholm per la definizione della terza condizione necessaria a definire la conoscenza

 

Introduzione al problema della terza condizione della conoscenza dalla formulazione platonica

Chisholm inizia la sua analisi con una breve presentazione della definizione di conoscenza offerta da Platone e da alcune osservazioni del filosofo greco: l’opinione vera è una credenza vera, cioè una proposizione P, assunta da parte di un soggetto S, una persona qualunque, tale che la credenza della proposizione è vera. Ad esempio, scendo in cantina e afferro una bottiglia senza etichetta che contiene del vino e penso “la bottiglia contiene un Chianti”. Effettivamente, tale ipotesi è vera perché il vino all’interno della bottiglia è proprio un Chianti. Eppure, il fatto di pensare ad una certa proposizione vera non sembra essere sufficiente per asserire che una persona abbia conoscenza: poteva essere altrimenti, la bottiglia poteva non contenere chianti. Platone, dunque, osserva che l’opinione vera deve essere una condizione necessaria per la conoscenza: conoscere una proposizione implica che tale proposizione sia vera e che io la pensi. Però ci deve pur essere una terza condizione che discrimini un’opinione vera da una conoscenza: se non fosse così, potremmo solo avere opinioni vere.

La relazione di dipendenza della condizione della credenza con la conoscenza è mostrata dal fatto che “se io so che P allora io credo che P e se io credo che P allora non (necessariamente) so che P”. In altre parole, se io so che una proposizione è vera allora la devo credere ma non viceversa.

Chisholm arriva, in questo modo, a porre il punto nodale: qual è la terza condizione che discrimina la conoscenza dall’opinione vera?

“S sa che P” è vera

se e solo se

  1. P è vera,
  2. S crede che P,

Inizio delle presentazioni delle varie candidate

Enunciazione tesi candidata: “S ha prova adeguata che P è vera”.

La prima candidata, presa in considerazione da Chisholm, è la seguente:

“S sa che P” è vera

                                                                                                    se e solo se

  1. P è vera,
  2. S crede che P,
  3. S possiede una prova adeguata per credere che P.

La prima obiezione che Chisholm muove rimarca il fatto che, molto spesso, accade di credere a proposizioni nonostante si abbiano prove adeguate per credere l’incontrario. In effetti, ci sono casi in cui credere ad una determinata proposizione ci viene così irresistibilmente controintuitivo che è per noi impossibile crederci, nonostante possiamo avere delle prove contrastanti. Ciò accade in matematica, in fisica o negli scacchi, tutte discipline in cui le nostre intuizioni vengono messe a dura prova da quelli che sono i nostri ragionamenti. Il punto è che se si può credere a qualcosa di diverso da ciò di cui abbiamo prova adeguata allora la terza condizione non implica la seconda! Abbiamo posto, come condizione per la conoscenza, che se “S sa che P” allora a fortiori “S crede che P”.

La seconda obiezione di Chisholm è più significativa. La precedente, infatti, si basa su una condizione logica che potrebbe non apparire così stringente. Non così è la seconda: è possibile avere prove adeguate per credere che P ma non conseguire conoscenza. Ad esempio, in periodo elettorale c’è chi crede, secondo prove (statistiche, sondaggi etc.), di poter stabilire chi vincerà. Tuttavia, nessuno può dire con certezza, nonostante le prove, che essi sappiano effettivamente chi vincerà. Questa obiezione è interessante: essa mostra come avere delle semplici conferme per avere un’opinione non è sufficiente per avere conoscenza in quanto ci sono delle situazioni (in questo caso di proposizioni che si potranno conoscere solo nel futuro) nelle quali il disporre di prove non è condizione decisiva per possedere conoscenza. Un esempio altrettanto incisivo è quello di proposizioni al passato: potremmo avere una molteplicità di prove per dire che “l’uomo di Neanderthal si estinse per cause naturali” ma potrebbero non conseguire conoscenza perché, magari, i Neanderthal si estinsero per cause artificiali, ad esempio, furono sterminati e rimpiazzati dagli Homo sapiens. D’altronde, la conoscenza indiziaria è così affascinante perché consente sempre delle strade alternative alla propria immaginazione.

La terza obiezione di Chisholm all’idea di prova adeguata è che essa presuppone il concetto stesso di conoscenza. In altre parole, possedere una prova adeguata non sarebbe altro che possedere una proposizione conosciuta che sostenga la nostra credenza. Ad esempio, nel caso delle elezioni le prove adeguate sarebbero le proposizioni derivate dalle statistiche, dai sondaggi che sarebbero, a loro volta, delle proposizioni vere conosciute. Chisholm porta un altro esempio: io ho una prova adeguata dell’invivibilità del pianeta mercurio, se so che è incandescente. Ma questo implica che so già una certa proposizione su cui baso l’altra e ciò conduce, da un lato, ad un regresso all’infinito sul piano argomentativo e, d’altro canto, implica una definizione circolare: “S sa che P è vera, se P è vera, se S crede che P e se S ha una prova adeguata che P è vera e avere prova adeguata vuol dire conoscere una proposizione Q che prova che P: dunque, S conosce una proposizione Q che prova che P”.

Dunque, abbiamo tra argomenti contro l’idea che la terza condizione sia “S ha prova adeguata che P è vera”: (1) la condizione di conoscenza implica la presenza di una credenza, ma si può credere a qualcosa di cui si hanno prove contrarie;[1] (2) la prova adeguata non è condizione sufficiente per avere conoscenza (nella bottiglia della cantina non c’è del Chianti, nonostante il suo gusto lo ricordi molto); (3) la definizione di “prova adeguata” è una parola già connotata epistemicamente e questo conduce ad un regresso all’infinito argomentativo e ad una definizione circolare di conoscenza. Dunque, le obiezioni si muovono su tre direttrici: l’asse delle condizioni logiche, l’asse dei controesempi fattuali, l’asse della circolarità definitoria e argomentativa.

Enunciazione di una nuova tesi candidata su base probabilistica e le sue possibili formulazioni

Scartata la possibilità di definire la conoscenza in termini di “prove adeguate” Chisholm passa in rassegna la possibilità di definirla in termini di probabilità che, almeno apparentemente, sembrano rimandare ad una dimensione non direttamente epistemica. Così, egli propone di definire la conoscenza come segue:

“S sa che P è vera”

                                                      se e solo se

  1. P è vera,
  2. S crede che P è vera,
  3. P è probabilmente vera.

Il primo problema che presenta questa terza condizione è la sua ambiguità perché il concetto stesso di “probabilità” è inteso in più modi. Chisholm considera tre possibili significati della probabilità: probabilità statistica, probabilità induttiva, probabilità assoluta.

La probabilità statistica è ciò che accade per lo più ed essa indica che esiste un certo campione di riferimento e, all’interno di questo campione, alcuni elementi godono di una certa proprietà ma non tutti. La probabilità sarebbe l’incidenza statistica di questa proprietà sul campione. Ad esempio, nella nostra cantina abbiamo un centinaio di vini ma solo alcuni sono rossi. La proposizione “quella bottiglia contiene un vino rosso” è più o meno probabile in base alla quantità di vini rossi che sono presenti nella nostra cantina.

Il problema del significato statistico della probabilità è mostrato da un controesempio:

  1. Si consideri il caso di conoscenza proposizionale. (Assunzione)
  2. Una proposizione conosciuta è membro di una classe più ampia di proposizioni (il campione) e la maggior parte dei membri dell’insieme delle proposizioni in questione gode della proprietà P.
  3. La proprietà P distingue le proposizioni vere dalle false.
  4. La proprietà P, per esser distintiva di conoscenza, non può coincidere con la verità delle proposizioni perché la verità delle proposizioni credute da S, se sono vere, non sono portatrici di una proprietà ulteriore tale che si possa dire che S le conosca.

Se la proprietà P fosse semplicemente che la proposizione del campione è vera allora essa sarebbe in tutto e per tutto una credenza vera, cioè un’opinione! Come si è detto, l’opinione vera è condizione necessaria ma non sufficiente della conoscenza e, di conseguenza, una proposizione che gode della proprietà P (esser vera) sarebbe un’opinione e non sarebbe conosciuta.

Chisholm, eliminato il significato statistico, passa al significato induttivo della probabilità. Il significato induttivo di probabilità: “probabile” si riferisce ad una certa relazione tra proposizioni. Cioè “a” e “b” sono due proposizioni dove R(a,b), cioè “a” è più probabile di “b”. Così, “a” è più probabile di “b” è un’asserzione scaturita dall’argomento induttivo. In altre parole, il significato induttivo lega due proposizioni tra loro in modo tale che una sia più probabile dell’altra sulla base della constatazione che la prima si verifica più frequentemente della seconda. Ad esempio, se è vero che “questo corvo è nero” e “quest’altro corvo è nero” e “etc.” allora la proposizione “tutti i corvi sono neri” sarà più probabile della frase “tutti i corvi non sono neri”, pur non escludendo, in definitiva, che non tutti i corvi siano neri. Il punto è: (1) c’è una maggiore probabilità che una certa proposizione sia vera rispetto alle probabilità che sia vera la sua negazione e (2) tale probabilità è verificata su base statistica.

I problemi del significato induttivo della probabilità sono due. Prima di tutto è difficoltoso stabilire quando un argomento induttivo è valido e quando no, o, almeno, è una questione altrettanto controversa che non la sola definizione di conoscenza e, in tal senso, dire che “la conoscenza fa appello all’induzione” sposta solo il problema senza eliminarlo. Un secondo punto è evidenziato dal seguente argomento: il soggetto S conosce la proposizione P come vera a condizione che P sia più probabile in relazione ad una seconda proposizione E. Qual’è la proposizione E? Tale proposizione E, infatti, deve possedere una certa proprietà F tale che essa consenta di giustificare la proposizione P. Ma, allora, la proposizione E sarebbe, per ciò, conosciuta da S. E si ritorna al circolo vizioso già incontrato nel caso delle giustificazioni secondo prova adeguata: se la giustificazione della credenza che P rimanda ad una seconda proposizione E, allora tale proposizione E deve possedere una proprietà tale che consenta di giustificare P senza che P l’abbia a sua volta. Ma, allora, E sarebbe di per sé conosciuta e, allora, eccoci di fronte alla prospettiva della circolarità: allora E sarebbe a sua volta fondata su una proposizione G che a sua volta… etc.. Come sempre, torniamo al nostro esempio della bottiglia di vino nella nostra fresca cantina: poniamo che P sia “in questa bottiglia c’è del chianti” e E sia “in questa bottiglia c’è del vermentino”. La probabilità induttiva sarebbe espressa così: “in questa bottiglia c’è del chianti è più probabile rispetto che in questa bottiglia c’è del vermentino” ed è subito evidente il punto: ma, allora, bisogna esser certi che “in questa bottiglia c’è del vermentino” è vera perché essa è la base della nostra giustificazione. Ma “esser certi” è una proprietà epistemica! Ed ecco che anche la probabilità induttiva fallisce nella sua possibilità di fondare la nostra terza condizione.

Rimane da trattare il terzo significato della probabilità: la probabilità assoluta. Una proposizione P è più probabile in senso assoluto per un soggetto S  a condizione che P sia probabile nel significato induttivo in base a tutte le proposizioni che S conosce come vere. Chisholm osserva, semplicemente, che tale definizione ingloba già il concetto stesso di conoscenza. Ciò è vero per due ragioni: primo, fa appello al significato di probabile in senso induttivo, in secondo luogo, fa appello all’insieme di proposizioni che sono già conosciute da S come vere. In altre parole, è assolutamente più probabile che una proposizione P sia vera in base all’insieme delle proposizioni che già ho assodato che lo siano. E’ assolutamente più probabile (per me?) che la mia bottiglia contenga del chianti in quanto ho già appurato che tutte le bottiglie della mia cantina sono effettivamente del chianti. Il che, naturalmente, presuppone che io sappia già che quelle bottiglie contengano quel vino e non dell’altro.

Enunciazione di una nuova tesi candidata: l’osservazione

L’osservazione, come possibile candidata alla terza condizione, sembra particolarmente allettante. Infatti, secondo alcune ingenue riflessioni di filosofia della scienza, liminari all’epistemologia più stretta, sembra che la condizione necessaria per poter dire di conoscere una proposizione fa appello alla nostra possibilità di osservazione. Infatti, in generale, si assume assai spesso che ciò che contraddistingue una teoria scientifica da una metafisica sia proprio il fatto che la teoria scientifica assuma la certezza delle sue proposizioni in base ad una qualche verifica empirica. Inoltre, questa posizione sembra immune dall’obiezione di circolarità, presente sia nella versioni epistemologiche che vincolano la conoscenza alla prova adeguata e alla probabilità: l’osservazione è un fatto empirico le cui basi non rimandano ad ulteriori assunzioni di proposizioni ma esclusivamente a dei dati psicologici.

La possibile definizione di conoscenza, offerta sulla base che l’osservazione sia la terza condizione può essere così espressa:

S sa che P è vera

                                               se e solo se

  1. P è vera,
  2. S crede che P,
  3. P è una proposizione osservativa.

Anche questa proposta ha i suoi problemi. Innanzi tutto, esistono proposizioni vere non osservative, come le proposizioni della logica e, per la verità, anche molte proposizioni della scienza rimandano a degli oggetti ipotetici. Queste osservazioni rendono piuttosto sgradevoli la proposta di basare la conoscenza sull’osservazione. Ma c’è una ragione più decisiva. La definizione stessa di “osservazione di qualcosa” è ambigua: il termine “osservazione” può essere interpretato in due sensi diversi, uno proposizionale e uno non proposizionale. Per fare un esempio: “Io osservo che la bottiglia contiene del chianti” è diversa dal dire “io osservo la bottiglia contenente del chianti”. In un caso noi stiamo osservando un fatto mentre nel secondo caso stiamo dicendo che stiamo esperendo determinate osservazioni. “Io vedo che il vino è rosso” è diverso dal dire “io vedo il vino rosso”: in un caso facciamo appello ad uno stato di cose del mondo, nell’altro stiamo parlando di ciò che ci appare alla vista. I due significati sono molto diversi e hanno conseguenze diverse sul piano meramente epistemologico: dire “io osservo che la bottiglia contiene del chianti” implica “io so che la bottiglia contiene del chianti” ma “io osservo la bottiglia di chianti” non implica “io so che nella bottiglia c’è del chianti”. Un altro esempio: “io vedo che il cielo è blu” è molto diverso da dire “il vedo il cielo blu”. Chisholm, molto correttamente, fa osservare che i termini di valenza osservativa fanno capo a un’unica grammatica: percepire, vedere, sentire, gustare, annusare etc.. e tutti offrono il medesimo problema. Se per l’uso non-proposizionale bisogna escludere una relazione diretta con uno stato epistemico superiore, capace, cioè, di giustificare le nostre credenze, non è stato ancora sollevato il problema per l’uso proposizionale dei termini osservativi. Nell’uso proposizionale (osservo che…) il problema nasce dal fatto che per tale osservazione devo già sapere ciò che sto andando a vedere: “Io osservo che non è il sole a girare attorno alla terra” implica che già si sappia che il sole non gira attorno alla terra! Così, l’esempio di Chisholm di Robinson Crosue: quando arrivò un bastimento Venerdì guardò la barca ma non la riconobbe come tale perché egli non sapeva cosa fosse “una barca” a differenza di Robinson che, pur avendo una vista inferiore a quella di Venerdì, riconobbe immediatamente il vascello come tale.

Dunque, la conoscenza osservativa ha un problema fondamentale: innanzi tutto, non consente di trattare ogni tipo di conoscenza e, dunque, non offrirebbe comunque una condizione universale, valida per tutti i casi come le proposizioni logiche e le proposizioni scientifiche fondate sugli enti puramente immaginari (gli atomi, per esempio). In secondo luogo, la grammatica della parola “osservare”, e di tutta la sua famiglia di termini, è ambigua perché può essere intesa nella sua interpretazione proposizionale o in quella non-proposizionale. La seconda categoria esclude uno statuto epistemico sufficiente a giustificare le nostre conoscenze mentre la prima categoria implica che, dal punto di vista epistemico, ci sia una pre-comprensione del fenomeno che si sta andando ad osservare, è dato per scontato il suo riconoscimento. Questa forma di pre-comrpensione è a sua volta una comprensione e implicherebbe, evidentemente, un regresso all’infinito nell’ordine delle giustificazioni.

La proposta di Austin: partendo dall’analisi pragmatica del linguaggio ordinario si riconsidera il problema del Teeteto.

Muovendo dall’analisi del linguaggio ordinario, cioè dai quegli usi non filosofici del linguaggio, Austin si interroga su una questione precedente: il problema di Platone è ben formulato? La sua analisi indurrebbe a concludere negativamente. Austin sostiene che nel linguaggio ordinario ci siano alcune asserzioni che hanno una funzione non-descrittiva, cioè che non servano a descrivere uno stato di cose ma, piuttosto, abbiano lo scopo di eseguire un compito, portare a termine un’azione. Queste espressioni si contraddistinguono per la divergenza evidente di significato dalla prima alla terza persona: “Io prometto” è diverso da “Lui promette” perché in un caso io sto proferendo un atto linguistico a cui io stesso sono vincolato ed inizia e finisce nel momento del proferimento. Questo genere di atti vengono chiamati da Austin “illocutori”. Esempi di tali funzioni esecutive possono essere i verbi quali: giurare, promettere, rivendicare, assumere… La differenza tra l’uso performativo (l’uso in prima persona) e l’uso descrittivo è evidenziato dal fatto che nell’uso in terza persona sto descrivendo un atto mentre nell’uso in prima persona lo sto eseguendo. In questo senso, l’uso performativo esclude l’uso descrittivo. Così, “Io conosco” sarebbe, per Austin, una funzione esecutiva (mi sto impegnando a sostenere qualcosa) ma non sto descrivendo propriamente nulla: i filosofi cadono nella “fallacia descrittiva”, dalla quale bisogna sempre guardarsi, cioè travisano un uso propriamente operativo del linguaggio con il suo uso descrittivo. In questo senso, per Austin, “io conosco” significa “io sto dando la mia parola per dire che P è vera”, ovvero “io sto usando la mia autorità per dire che P è vera”. Così, la differenza tra “credere” e “sapere” sarebbe nella diversa funzione operativa assolta: nel caso di “conoscere” io sto aggiungendo un certo peso alla proposizione, vincolandomi, in qualche modo, rispetto a quello che sto dicendo; viceversa, nel caso del “credere” io mi sto salvaguardando, svincolandomi dalle eventuali ripercussioni sociali alle quali potrei incorrere, qualora mi fossi sbagliato. Di conseguenza, il problema del Teeteto sarebbe mal formulato perché si cercano delle condizioni di verità per un atto che, invece, non ha a che fare con la verità quanto con l’operatività.

I problemi della proposta di Austin sono due. In primo luogo egli dà per assodato che si abbia ben chiara la definizione di funzione esecutiva quando egli stesso non ne fornisce una. Chisholm ne propone una possibile: quando ci si trova in una opportuna circostanza, allora per tali atti (performativi) basta pronunciare le parole usate dal parlante per designare un tale atto così “io domando” equivale a compiere una specifica “funzione esecutiva”. Ma, anche in questo caso, c’è l’ombra dell’ambiguità: la funzione esecutiva può essere interpretata in senso largo e in senso stretto. Ad esempio, “Io domando” può essere l’espressione di una richiesta, che inizia e finisce, in appropriate condizioni, con il suo proferimento. Però, “io domando” potrebbe essere inteso in modo meno forte, vale a dire in termini di semplice affermazione interlocutoria. Infatti, per Austin le funzioni esecutive vengono introdotte da espressioni performative (anche se, nella pratica, si possono compiere atti interlocutori senza esprimerli in forma performativa. Il punto è che nel performativo c’è l’enunciazione netta di un vincolo del soggetto nei confronti del suo stesso atto linguistico) e sono da quelle rese evidenti. Il problema è: “Io conosco” va interpretato in senso largo o in senso stretto? Sicuramente, l’atto del conoscere non inizia né finisce con il suo proferimento: se io dico “Io so che nella bottiglia c’è del chianti” posso, sì, impegnarmi in questo proferimento ma, questo è evidente, il fatto di dichiararlo non implica affatto che io stia per ciò stesso conoscendo! Se dicessi “io so la logica del secondo ordine” non vuol dire affatto che allora la conosco! Così, dire che “io so che P” non significa che io sappia effettivamente che P. In questo senso, la proposta di Austin non risolve il problema perché mostra solo che, in certe circostanze, proferire che si sa qualcosa implica che ci si prenda le proprie responsabilità, ma non che si sappia effettivamente ciò che si sta dicendo. Ad esempio, un testimone in un processo potrebbe anche dire “io so che l’assassino è il signor Smith” ma non per questo possiamo dire che, solo sulla base della sua asserzione, egli lo sappia sul serio e, giustamente, la sua testimonianza non costituirebbe una prova schiacciante di per sé (specie se il teste in questione fosse un drogato).

 Chisholm ribalta l’argomento di Austin: Austin sosteneva che molti filosofi cadono nella fallacia descrittiva rinnegando il valore pragmatico di alcune asserzioni a favore di un troppo pervasivo descrittivismo. Ma Austin stesso cade nella fallacia esecutiva quando non si rende conto che, dietro all’uso esecutivo del termine “conoscere”, ce n’è anche uno descrittivo.

Altri termini epistemici.

Conoscere è un termine di valutazione epistemica che ci serve per discriminare alcuni tipi di credenze. L’epistemologia include tutta una serie di termini valutativi in senso epistemico: evidente, ragionevole, più ragionevole, gratuita, indifferente, accettabile, inacettabile. Chisholm, con in vista il suo punto d’arrivo, quando proporrà la sua versione della definizione tripartita di conoscenza, tratta tutti questi termini.

Inacettabile è la negazione di una qualsiasi proposizione che si sa essere vera. In altre parole, non si può accettare una qualunque proposizione falsa. Ad esempio, non si può accettare una proposizione complessa contraddittoria sulla base del fatto che è falsa.

Gratuita è quella proposizione che è priva di elementi per essere accettabile. Essa sarebbe una proposizione che si può credere senza ulteriori motivi. “Tra tre secoli pioverà” è una frase gratuita. Tutte le proposizioni inacettabili sono gratuite, perché non hanno alcun motivo per essere accettate. Così, le proposizioni inacettabili sono un sottoinsieme delle proposizioni gratuite perché non tutte le proposizioni gratuite sono false.

Indifferente è ciò che può accadere o non accadere e ciascuna delle sue possibilità ha lo stesso grado di probabilità (1/2). “Domani pioverà” è una proposizione indifferente. La definizione di “indifferenza” può essere riformulata come segue: una proposizione “a” e una proposizione “non-a” sono indifferenti se si hanno le stesse ragioni per poter accettare “a” o “non-a”.

Ragionevole è la proposizione di cui si dice di aver prova adeguata.

Evidente è la proposizione vera.

Esiste una differenza tra avere “evidenza” e avere “prova adeguata”. Si può avere prova adeguata per proposizioni non evidenti. La logica del concetto di “prova adeguata” è diversa dal concetto di “evidente”. In fine, ci sono proposizioni evidenti senza che si abbia per esse prove adeguate.

La proposta di Chisholm per la definizione della terza condizione necessaria a definire la conoscenza.

Chisholm parte dalla considerazione che una definizione capace di legare in sé tutti i termini epistemici sarebbe da considerare ottimale perché risolverebbe il problema di Platone: non escluderebbe nessuna valutazione epistemica e terrebbe conto di tutti i casi.

Chisholm parte dalla considerazione dei possibili atteggiamenti nei confronti di una proposizione: (1) si può credere e accettare una proposizione; (2) si può non credere e respingere una proposizione e se ne accetta la negazione; (3) ci si può astenere dall’assumere una determinata proposizione; (4) si può rifiutare una proposizione.

L’atteggiamento di una persona può essere diverso in base alle circostanze. In base ad esse, può essere più o meno ragionevole adottare un certo atteggiamento piuttosto che un altro.  Una proposizione è più ragionevole di un’altra se il crederla è più ragionevole che rifiutarla. Esser ragionevole vuol dire esser al di fuori di ragionevole dubbio. Così, una proposizione è ragionevole, se credere alla proposizione non è più ragionevole del rifiutarla. Mentre una proposizione è inaccettabile se crederla è meno ragionevole che non crederla. In fine, una proposizione è accettabile se rifiutare P non è più ragionevole che crederla. Il tutto può essere riassunto in una comoda tavola di possibilità:

Più ragionevole Meno ragionevole Accettabile Non accettabile Qualifica
1 0 1 0 Ragionevole
0 0 1 0 Gratuita
1 0 0 1 Inaccettabile
0 0 1 0 Accettabile

Una proposizione è evidente per S se (1) P è ragionevole per S e (2) non c’è alcuna proposizione che sia più ragionevole di P.

A questo punto Chisholm è in grado di proporre la sua definizione di conoscenza, riempiendo il vuoto lasciato aperto alla terza condizione:

S sa che P al tempo t

                                                                 se e solo se

  1. S crede che P al tempo t,
  2. P è vera,
  3. P è evidente a S nel tempo t.

La proposta di Chisholm verrà messa in crisi dai due controesempi di Gettier ma la sua analisi, nella sua parte critica, è, comunque, una base di partenza per considerare in modo più attento il problema di Platone, soprattutto, rispetto all’analisi epistemologica delle varie possibili candidate alla terza condizione.

Bibliografia

Gettier E., “E’ la conoscenza credenza vera giustificata=”, Analysis 23 (1963): 121-123, in Bottani, A., Penco, C. (a cura di), Significato e teorie del linguaggio, Franco Angeli, Milano, 1991.

Goldman, A., (1967), “A Causal Theory of Knowing”,  The Journal of Philosophy, vol 64, n. 12, pp. 357-372

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Haack, S., (2009), “Il buono, il brutto e il cattivo. Disambiguare il naturalismo di Quine”, Rivista di Storia della Filosofia, 1, 2009 (traduzione rimaneggiata e aggiornata di Haack, S. (1993), Evidence and Inquiry, Blackwell, Oxford, 1993, cap. 5), pp.75-87.

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Quine W.V.O. “Due dogmi dell’empirismo”, in Filosofia del linguaggio, Raffaello cortina, Milano, 2004.

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Quine, W.V.O. (1969) “Epistemology Naturalized”, in Ontological Relativity and Other Essays, Columbia University Press, New York, 1969.

Vassallo N., Teoria della conoscenza, Laterza, Roma-Bari 2003.

Wittgenstein L., Causa ed effetto. Lezioni sulla libertà del volere, Einaudi, Torino, 2006.

 


[1] Ad esempio, posso credere che il pianeta Mercurio sia abitabile nonostante io creda che sia incandescente.


Giangiuseppe Pili

Giangiuseppe Pili è Ph.D. in filosofia e scienze della mente (2017). E' il fondatore di Scuola Filosofica in cui è editore, redatore e autore. Dalla data di fondazione del portale nel 2009, per SF ha scritto oltre 800 post. Egli è autore di numerosi saggi e articoli in riviste internazionali su tematiche legate all'intelligence, sicurezza e guerra. In lingua italiana ha pubblicato numerosi libri. Scacchista per passione. ---- ENGLISH PRESENTATION ------------------------------------------------- Giangiuseppe Pili - PhD philosophy and sciences of the mind (2017). He is an expert in intelligence and international security, war and philosophy. He is the founder of Scuola Filosofica (Philosophical School). He is a prolific author nationally and internationally. He is a passionate chess player and (back in the days!) amateurish movie maker.

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