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Il Tempo – Un’introduzione

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Consigliamo – Il tempo secondo KantLeibniz


Dunque, che cos’è il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio, però, spiegarlo a chi me lo chiede, allora non lo so più.

Agostino 

Con queste famose parole Agostino d’Ippona esprime la difficoltà di definire il concetto di tempo. Questo interrogativo si presenta tuttora dopo aver ricevuto molteplici risposte nel corso dei secoli, da quella legata alla durata della vita di Seneca al tempo come forma universale dell’esperienza in Kant, fino al tempo soggettivo e mutevole della relatività, e ai suoi concetti limite: big bang e buchi neri.

Il tempo per Seneca

Mentre rinviamo i nostri impegni, la vita passa. Tutto, o Lucilio, dipende dagli altri, solo il tempo è nostro.

Seneca

Questo passo tratto dalla prima delle lettere a Lucilio, racchiude in sé il fulcro del concetto di tempo per il filosofo romano, vissuto sotto il principato di Nerone. Il tempo, infatti, è visto da Seneca come unico bene liberamente fruibile dall’ uomo, o meglio, dal  sapiens: infatti solo il saggio può goderne appieno il valore e gestirlo nel modo giusto. Proprio questa è l’esortazione che Seneca rivolge al suo amico e allievo Lucilio, ponendosi però come un maestro che ha studiato sui propri errori, esempio di un occupato tra tanti, come quelli  che vengono ritratti nel  De brevitate vitae, un occupato che eppure ha saputo riappropriarsi del suo tempo, dopo una vita “sprecata” nel cercar di contenere e istruire il giovane Nerone..

All’ analisi della problematicità del tempo Seneca dedica alcune delle sue pagine più famose, sia nelle Lettere a Lucilio che nel dialogo De brevitate vitae, composto nel 49 o secondo altri studiosi nel 62 d.C., entrambi momenti molto importanti nella vita dello scrittore: il primo segna il ritorno a Roma dopo l’ esilio in Corsica, il secondo il definitivo ritiro a vita privata. In entrambe le opere comunque il messaggio è un invito a riappropriarsi della propria vita e del proprio tempo dedicandosi all’ otium e all’ analisi di sé stessi: entrambi i destinatari del resto, Lucilio e Paolino, sono uomini che ricoprono cariche pubbliche, le quali li sviano dalla ricerca filosofica e li costringono a impiegare il proprio tempo per gli altri. Questo, secondo Seneca, causa il disagio esistenziale dovuto all’apparente brevità della vita, nodo cruciale nell’ analisi della questione: infatti la vita non è breve di per sé, ma il tempo per quanto fuggevole e incerto possa essere, è bastante a garantire l’accesso alla virtus, che è poi il fine ultimo di una vita correttamente impiegata.

Ma come si può impiegare il proprio tempo? Innanzitutto Seneca dà numerosi esempi sul come non impiegarlo, esempi che vanno a riempire interi capitoli del De brevitate. L’autore attacca i funzionari statali del tempo ma anche quelli che passano la vita nel curarsi del proprio aspetto fisico, quelli che “…molte ore passano dal barbiere, mentre si strappa, se qualcosa è cresciuto durante l’ultima notte, mentre si va a consiglio sui singoli capelli, mentre o viene rimessa a posto la chioma scompigliata o cominciando a venir meno viene tirata sulla fronte di qua o di là…”, oppure i vecchi che hanno passato la propria vita a procrastinare e che solo durante la malattia piangono la loro vita, lasciata fuggire via.

Allora qual è la via da seguire per far si che la vita non fugga, ma che essa ci appaia lenta e lunga abbastanza? Rendersi padroni di sé stessi, e quindi del proprio tempo, partendo dalla considerazione iniziale: esso è l’unica cosa che ci appartiene, “dono immensamente fuggevole”. Una vita vissuta senza rimandare, una vita dedicata alla ricerca di sé, una vita incentrata sul presente: “vive protinus!” Sarà l’incitamento indirizzato a Paolino, rimarcando il Carpe Diem oraziano.

Seneca fa quindi del tempo una questione soggettiva e psicologica, un tempo che è sostanzialmente la misura della durata della vita:  malgrado la grandezza della sua analisi e delle sue parole, siamo ancora lontani da un’ idea di tempo che consideri il tempo in sé e per sé.

 

Kant : il tempo come forma a priori della sensibilità

Nell’estetica trascendentale Kant studia le forme a priori della sensibilità, riprendendo l’intento di attuare la “rivoluzione copernicana” della filosofia, ovvero il passaggio definitivo dalla filosofia del soggetto a quella dell’oggetto. Sulla falsariga di questo intento nella Critica della ragion pura Kant afferma che è possibile formulare giudizi sintetici a priori, ossia giudizi fecondi dal punto di vista conoscitivo, ma nel contempo universali e necessari. Questa posizione filosofica è comunemente nota con il nome di ‘criticismo trascendentale’. Descrivendo il modo in cui questo tipo di giudizio è possibile, Kant distinse tra i ‘fenomeni’ (dal greco phainómenon “ciò che appare”), vale a dire gli ‘oggetti per noi’, in quanto sono conosciuti dall’uomo e si collocano nel mondo dell’esperienza sensibile, e le ‘cose in sé’, cioè gli oggetti considerati a prescindere dalle modalità in cui appaiono e sono esperiti dal soggetto conoscente. I fenomeni, l’unica porzione di realtà conoscibile, consistono propriamente nella sintesi o unione fra il materiale grezzo delle nostre sensazioni e le forme a priori (cioè non desunte dall’esperienza) della nostra intuizione: lo spazio e il tempo.

Lo spazio è definito come “senso esterno”, mentre il tempo è considerato un “senso interno”: in ultima analisi tutto ciò che esiste nel mondo fisico viene percepito e ordinato attraverso le strutture a priori del soggetto e ciò che, in prima battuta, viene collocato nello spazio viene poi ordinato temporalmente (come dimostra la nostra memoria). In sostanza se gli esseri umani non fossero capaci di avvertire lo scorrere del tempo non sarebbero neanche capaci di percepire il mondo sensibile e i suoi oggetti che, anche se sono inconoscibili in sé, sono collocati nello spazio. Quindi il tempo rappresenta per Kant la rappresentazione secondo la quale noi percepiamo in successione le sensazioni che ci vengono dal senso esterno, che vengono quindi in un certo qual modo “filtrate” dal senso interno, il tempo. Kant rifiuta quindi le teoria materialiste di Newton che dichiaravano spazio e tempo unità a sé stanti, indipendentemente dagli oggetti contenuti. Insomma per il filosofo tedesco il tempo è solo un quadro mentale, un mezzo della nostra percezione, un artificio dell’intelletto che ci permette di osservare i fenomeni.

Da una visione del tempo che si identifica con il ciclo vitale dell’uomo passiamo ad un tempo che diviene struttura del pensiero umano, racchiudendo quindi il tempo in una dimensione ancora più incatenata alla figura dell’uomo e negandone esplicitamente una propria valenza ontologica. Per stravolgere questa visione, dovremo aspettare la nuova rivoluzione scientifica del ventesimo secolo, che non solo libera il tempo da ogni legame con l’uomo ma che anzi lo rende dinamico e elemento attivo e tangibile nell’evoluzione dell’universo.

 

La svolta del 1905: la teoria della relatività ristretta e il tempo relativo

Nel 1905 Einstein pubblicò il primo di due importanti studi sulla teoria della relatività, in cui negava l’esistenza del moto assoluto. Egli sosteneva infatti che nessun oggetto dell’universo potesse rappresentare un sistema di riferimento assoluto e universale, fisso rispetto al resto dello spazio. Al contrario, qualsiasi corpo (ad esempio, il centro del sistema solare) poteva costituire un buon sistema di riferimento per lo studio delle leggi che regolano il moto dei corpi. Secondo Einstein, dunque, il movimento è un concetto relativo, che può essere descritto in qualsiasi sistema di riferimento inerziale, e tutti gli osservatori che descrivono i fenomeni fisici in tali sistemi di riferimento pervengono alle medesime leggi di natura. È questa l’ipotesi fondamentale, nota come principio di relatività einsteiniana, su cui poggia tutta la teoria di Einstein: per due osservatori in moto relativo uno rispetto all’altro a velocità costante valgono le medesime leggi della natura.

La novità geniale introdotta da Einstein consiste nell’aver stabilito che la velocità di propagazione della luce rispetto a un qualsiasi osservatore è sempre la stessa, ed è pari a 300.000 km/s. Il concetto di invarianza della velocità della luce veniva mutuato dalle equazioni di Maxwell, nelle quali la velocità di propagazione delle onde elettromagnetiche – dunque anche della radiazione luminosa – è una “costante naturale”, che non varia se i fenomeni sono descritti in sistemi di riferimento diversi.

Secondo Einstein, dunque, due osservatori in moto uno rispetto all’altro, misurano la medesima velocità della luce, come dimostrato dall’esperimento di Michelson e Morley. L’ipotesi è in netto contrasto con la fisica classica, secondo la quale solo uno di essi si sarebbe potuto considerare a riposo. Per Einstein, invece, entrambi gli osservatori possono essere considerati a riposo, e ciascuno esegue correttamente la propria misura, assumendo il proprio sistema di coordinate come riferimento: queste coordinate però sono collegate le une alle altre mediante appropriate equazioni matematiche, le trasformazioni di Lorentz, già introdotte per rendere invarianti le leggi dell’elettromagnetismo. Come conseguenza dell’impossibilità di definire un moto assoluto, Einstein mise anche in dubbio la possibilità di definire un tempo e una massa assoluti. Le trasformazioni di Lorentz infatti prevedono che un orologio in moto relativo rispetto a un osservatore appaia più lento, mentre gli oggetti materiali sembrino avere massa più grande, modificando entrambi il loro valore di una quantità pari al fattore β. Il principio di tempo assoluto della meccanica newtoniana fu dunque sostituito dal principio di invarianza della velocità della luce dallo stato di moto dell’osservatore.

L’abbandono del concetto di simultaneità comporta che due eventi registrati come simultanei da un osservatore non risultino tali a un secondo osservatore in moto rispetto al primo. In altre parole, non ha senso assegnare l’istante in cui avviene un evento senza definire un riferimento spaziale. L’evoluzione di ogni particella o oggetto nell’universo viene perciò descritta da una cosiddetta linea universale in uno spazio a quattro dimensioni (tre per lo spazio e una per il tempo), detto spazio-tempo. La “distanza” o “intervallo” tra due eventi qualsiasi può essere accuratamente descritta per mezzo di una combinazione di intervalli di spazio e di tempo.

La relatività generale e il tempo dinamico

Nel 1915 Einstein formulò la teoria della relatività generale, valida anche per sistemi in moto accelerato uno rispetto all’altro. La necessità di una simile teoria era data dall’apparente contrasto esistente tra le leggi della relatività e la legge della gravitazione. Per risolvere questi conflitti, egli sviluppò un approccio completamente nuovo al concetto di gravità: nella nuova formulazione, le forze associate alla gravità sono del tutto equivalenti a quelle prodotte da un’accelerazione, per cui risulta teoricamente impossibile distinguere per via sperimentale i due tipi di forze. L’analogia fra le due relatività è evidente: mentre la teoria della relatività ristretta stabilisce che una persona, all’interno di una macchina che viaggi a velocità costante su una strada liscia, non può in alcun modo sapere se si trova in quiete o in moto rettilineo uniforme, la teoria della relatività generale afferma che una persona, all’interno della macchina in moto accelerato, decelerato o curvilineo, non può dire in alcun modo se le forze che determinano il moto siano di origine gravitazionale o se si tratti di forze di accelerazione attivate da altri meccanismi.

Come esempio si consideri un astronauta in piedi in una navetta ferma sulla Terra. A causa della gravità i suoi piedi aderiscono al pavimento della navicella con una forza pari al peso della persona, w. Se si considera la stessa navicella nello spazio, lontana da qualunque oggetto e non soggetta in alcun modo alla gravità, l’astronauta aderisce ancora al pavimento, se la navicella accelera. Se l’accelerazione è pari a 9,8 m/sec2 (il valore di accelerazione di gravità sulla superficie della Terra), la forza con cui l’astronauta rimane ancorato al pavimento della navicella è ancora uguale a w. Senza guardare fuori dal finestrino, l’astronauta non è in grado di capire se la navicella si trovi ferma sulla Terra o in accelerazione nello spazio.

Secondo la teoria di Einstein, la legge di gravitazione di Newton è un’ipotesi non necessaria; Einstein considera infatti tutte le forze, sia quelle gravitazionali che quelle convenzionalmente associate all’accelerazione, come effetti di un’accelerazione. Così anche la forza gravitazionale, che tiene saldamente la navicella ferma sulla terra, tirandola verso il basso, è attribuibile a un’accelerazione della navicella: infatti, nello spazio tridimensionale la navicella appare ferma, ma nello spazio-tempo a quattro dimensioni, essa è in moto lungo la sua linea universale. L’ipotesi di Newton, secondo cui due oggetti si attraggono con una forza di entità proporzionale alle loro masse, viene sostituita in relatività generale dall’ipotesi che lo spazio-tempo sia curvato nelle vicinanze dei corpi massivi. La legge della gravitazione di Einstein consiste semplicemente nell’affermazione che la linea universale di un corpo è una geodetica nello spazio-tempo, ossia una curva che congiunge i vari punti dello spazio secondo il percorso più breve.

Da quando è stata introdotta, la relatività ha trovato un gran numero di conferme sperimentali. Ad esempio, la teoria predice che la traiettoria di un raggio luminoso sia curvata dalla presenza di un corpo molto massivo: durante l’eclisse del 1919, infatti, gli scienziati sono riusciti a verificare la deflessione di un raggio di luce nelle immediate vicinanze del Sole. Recentemente sono stati effettuati test analoghi per misurare la deflessione delle onde radio emesse da quasar lontani, mediante l’uso di interferometri a radiotelescopio.

La teoria generale della relatività cambia totalmente il concetto di tempo: se nella teoria della relatività ristretta il tempo – per quanto misurabile solo in modo relativo – continuava il suo corso immutato e apparentemente immutabile, senza che nulla potesse influire su di esso. Con la relatività generale invece quando agisce una forza, o si muove un corpo,  essi mutano la curvatura dello spazio-tempo, che a sua volta influisce sui moti e sulle forze. La vecchia visione di un universo immutabile nel tempo e nello spazio era così destinata a mutare nella nozione di un universo dinamico, in espansione, con un inizio un evoluzione e una fine. Dopo secoli di universo statico, ritornò in auge quell’ inizio del tempo che Agostino collocava nel momento della creazione. Il tempo iniziava nel Big Bang.

L’inizio del tempo: il Big Bang

Nel 1924 l’astronomo Edwin Hubble dimostrò che la nostra non era l’unica galassia ma soltanto una tra centinaia di milioni di galassie. Ora, per misurare le distanze di queste galassie si possono usare numerosi metodi, tutti però correlati con la luminosità delle stelle che vanno a comporre la data galassia. Ogni stella, a seconda della propria composizione e della propria temperatura, emette un diverso spettro d’assorbimento, e una conseguente diversa colorazione/luminosità. Osservando gli spettri emessi dalle galassie si poté osservare che tutti avevano un marcato spostamento della lunghezza d’onda verso il rosso, e Hubble nel 1929 dimostrò che tale spostamento era direttamente proporzionale alla distanza della galassia. Si comprese quindi che tale spostamento della lunghezza d’onda era dovuto all’ effetto Doppler, per il quale se la sorgente delle onde è in allontanamento rispetto al ricevente, la sua frequenza diminuisce e la sua lunghezza aumenta, risultando quindi spostata verso il rosso, che contrassegna le frequenze minori.

L’implicazione di tale scoperta non poteva essere latra se non quella che l’universo si stesse espandendo, e che le galassie si stessero allontanando l’una dall’ altra a velocità sempre maggiori maggiore fosse la loro distanza, seguendo un movimento detto di recessione.

Quest’ulteriore scoperta distrusse definitivamente l’idea di un universo stazionario comportando anche che “seguendo” a ritroso il moto delle galassie si potesse arrivare al momento in cui tutte le galassie si trovavano compresse in un solo punto di densità infinita, che fu chiamato singolarità del Big Bang. Il nome è dovuto all’ enorme esplosione che avrebbe dato via all’inizio dello spazio e del tempo, e dell’universo come lo conosciamo ora, e al fatto che esso rappresenta una singolarità, ossia un fenomeno indescrivibile anche per la teoria che ne predice l’avvenimento, cioè la relatività generale. Fondamentale per avvalorare la teoria del Big Bang fu la scoperta nel 1964 della radiazione cosmica di fondo una radiazione fossile di temperatura media pari a 2,7 K che viaggerebbe per lo spazio dai tempi del Big bang, una sorta di registrazione di quel momento  – le cui cause sono tuttora inspiegabili – che ci è pervenuta seppur “indebolita”, e da qui a sua bassa temperatura. Le misurazioni effettuate dal radiotelescopio COBE nei primi anni novanta potenziarono ulteriormente la teoria poiché rispecchiavano le fluttuazioni nell’ omogeneità della radiazione necessarie a spiegare l’esistenza di regioni con un maggiore addensamento di materia, regioni nelle quali si sono poi sviluppate le galassie.

A questo punto sono 3 i possibili modelli capaci di descrivere l’ evoluzione sell’ universo:

-Nel primo l’universo si espanderebbe sempre più lentamente finché la forza di gravità non causerebbe un collasso dell’universo su se stesso, che si contrarrebbe nella singolarità del Big Crunch.

-Nel secondo la forza di gravità non sarebbe abbastanza forte da contrastare i moto di recessione, e avremmo un universo in perpetua espansione, e quindi di tempo infinito.

-Nella terza l’universo avrebbe una massa molto vicina al livello critico per dare via la collasso, ma non abbastanza per attuarlo appieno, limitandosi a rallentare l’espansione senza mai però arrivare ad un livello pari a zero.

Sappiamo grazie ai calcoli sulla velocità del moto di recessione che l’universo si espande di una quantità compresa tra il 5 e il 10% ogni miliardo di anni. Calcolando approssimativamente la massa totale dell’universo utilizzando come riferimento quella da noi visibile otteniamo un valore pari a neanche un centesimo di quello necessario all’arresto dell’espansione. Però questa stima è da considerarsi altamente inesatta: infatti non conosciamo la quantità di materia oscura presente nell’universo, ovvero di quella materia fredda che riempie gli spazi intergalattici. Anche tenendo conto di approssimativi valori comprendenti tale materia otteniamo un valore dieci volte inferiore a quello richiesto per “attivare” il Big Crunch.

Eppure la teoria del big bang stenta tuttora ad affermarsi poiché tenendo conto di particolari effetti quantistici è possibile ipotizzare un universo che non abbia avuto inizio in tale singolarità, e quindi il ritorno ad un concetto di tempo infinito nel passato e nel futuro.

I buchi neri: corpi al di fuori del tempo

Fu proprio all’interno dei dibattiti intorno alla singolarità del Big Bang che nel 1965 Roger Penrose dimostrò che una stella soggetta al collasso gravitazionale viene intrappolata in una regione la cui superficie e il cui volume si contrae fino ad un valore nullo, cosicché la curvatura dello spazio tempo in quella regione diventa infinita dando vita ad una singolarità localizzata nello spazio-tempo detta buco nero.

Per capire come possa formarsi un buco nero è essenziale riepilogare brevemente le fasi finali dell’ evoluzione di una stella. Le stelle si evolvono a seconda della loro massa, e a seconda della loro massa “muoiono” in modi differenti. Nel 1928 un fisico di origine indiana, Subrahmanyan Chandrasekhar , si rese conto che una forza gravitazionale sufficientemente forte avrebbe potuto superare la repulsione conseguente al principio di repulsione di Pauli. Le stelle che nella fase degenere della loro vita o in seguito a una supernova abbiano una massa superiore a 1,44 masse solari (limite di Chandrasekhar) non possono quindi evitare di collassare su se stesse divenendo:

– se hanno massa compresa tra 1,44 e 3 masse solari stelle di neutroni, in cui la forza di gravità non è sufficiente a vincere la repulsione tra neutrone e protone. Stelle di tale tipo sono le pulsar (pulsating radio source), stelle non luminose scoperte tramite l’utilizzo di radiotelescopi, che emettono impulsi radio a intervalli regolari.

– con una massa superiore a 3 masse solari, buchi neri, ovvero un corpo con una forza gravitazionale tale che neppure i raggi luminosi possano evadere alla sua attrazione, destinata ad accrescere sempre più ogniqualvolta la massa del buco nero si accresca in seguito all’attrazione di altra materia la suo interno.

Per descrivere un buco nero, riporto un passo del libro “L’universo alle soglie del duemila” dell’ astronoma italiana Margherita Hack:

Non è facile rappresentarsi un buco nero. Si potrebbe dire che, a causa dell’enorme forza di gravità alla superficie della stella collassante, lo spazio si richiude sopra la stella, che sparisce dal nostro universo ma che si fa comunque sentire con la sua attrazione gravitazionale. Fasci di radiazione che si trovino a passare a migliaia di chilometri di distanza dal buco nero vengono deviati in modo impercettibile dalla loro traiettoria rettilinea. Ma via via che si considerano fasci che passano più vicino al buco nero, la deviazione diventa più sensibile, e addirittura possono essere costretti a circumnavigarlo invertendo la loro traiettoria, o, se ancora più vicini, essere intrappolati e costretti a descrivere orbite circolari attorno ad esso, senza poter più sfuggire, o infine essere inghiottiti dal buco.

Tornando alla stella collassante, quando questa avrà raggiunto una contrazione tale che nessuna radiazione ne possa uscire, diremo che è caduta sotto il suo ‘orizzonte degli eventi’. Un termine che sta proprio ad indicare che nessun evento che avvenga sotto tale orizzonte potrà mai essere visto all’esterno: perciò l’orizzonte degli eventi si può considerare la superficie del buco nero. Il raggio dell’orizzonte degli eventi dipende dalla massa collassata; tanto più grande è la massa, tanto più grande è anche questo raggio.

Per esempio, per una massa pari a 10 masse solari il raggio sarà di circa 35 chilometri; ma per una massa pari a 100 milioni di masse solari, il raggio sarà di circa 350 milioni di chilometri.

 

Quindi, secondo la relatività generale in prossimità di un buco nero la forza gravitazionale altera in maniera sensibile lo spazio-tempo. In particolare, il tempo rallenta man mano che ci si avvicina, dall’esterno, all’orizzonte degli eventi, e si ferma completamente sull’orizzonte stesso. Dal punto di vista teorico un corpo, che subisce una contrazione entro il raggio di Schwarzschild, collassa in una singolarità dello spazio-tempo, cioè in un oggetto senza dimensioni e di densità infinita. Teoricamente qualsiasi corpo può, in caso di un collasso che lo faccia contrarre all’interno del proprio raggio di Schwarzschild, divenire un buco nero. Ad esempio è possibile che buchi neri di piccola massa si siano formati in quelle condizioni di temperatura e pressione elevatissime che hanno caratterizzato i primi istanti dell’universo. Questi buchi neri sono detti “primordiali” e il loro studio sarebbe importantissimo per conoscere i primi istanti del tempo. A causa però della loro massa ridotta, trovarne qualcuno sarebbe veramente difficile poiché non produrrebbe effetti gravitazionali apprezzabili.

Insomma i buchi neri altro non sono che enormi pieghe nello spazio-tempo, e la materia al loro interno può in un certo senso esser considerata al di fuori del tempo. Rappresentano quindi i buchi neri l’estremità del tempo opposta a quella del Big Bang’?Se essi sono destinati ad aumentare il loro orizzonte degli eventi in modo esponenziale, inglobando quantità sempre maggiori di energia, essi finiranno per inglobare l’universo intero? E che cosa c’è, dentro un buco nero?C’è il tempo?E lo spazio?

Molte di queste domande non hanno ancora risposta, soprattutto per quanto riguarda lo stato della materia all’interno dell’orizzonte degli eventi: esso infatti ci è precluso, poiché qualsiasi ipotetico astronauta che si avventurasse sull’orizzonte degli eventi verrebbe disgregato in atomi dalla forza di gravità presente, o perlomeno capiterà in epoche e luoghi differenti, se dovesse incappare in uno di quelli che son chiamati wormhole, particolari canali all’interno dello spazio tempo. Eppure questi canali sarebbero così instabili che anche la presenza di un astronauta potrebbe chiuderli, così causando la fine delle speranze dei viaggiatori nel tempo, per il conforto di chi teme l’effetto farfalla!

Il noto fisico Stephen Hawking, che sta dedicando a sua vita a costruire una teoria del tutto che inglobi la relatività alla quantistica, nel suo tentativo di fare “piazza pulita” delle singolarità, ha scoperto che anche i buchi neri hanno una fine, ed evaporano, permettendo all’universo di non preoccuparsi troppo di finire dentro un “buco nero finale”. Ciò avviene perché i buchi neri emettono una radiazione, che sarebbe il frutto della conversione della materia inglobata in energia. Essi insomma con il tempo restituirebbero all’universo tutto ciò che hanno inglobato, svanendo nel nulla e ripristinando il classico tessuto spazio-temporale.

Conclusioni

Ma insomma che cos’è il tempo? È quindi una dimensione nella quali i corpi in postano in senso univoco, dando luogo a presente, passato e futuro? Ha realmente un inizio, e dei limiti all’interno dei buchi neri?

Malgrado noi riusciamo per ora ad avere un buon quadro d’insieme dei meccanismi del tempo ancora molte sono le domande che attendono una risposta, non soltanto dalla fisica, ma anche dalla filosofia che non deve fuggire le grandi sfide del nostro tempo.

Certo è che l’uomo ha compito grandi passi avanti rispetto alla visione psicologica di Seneca, ancora incentrata sulla figura dell’uomo, o rispetto al tempo che per Kant era soltanto una struttura del soggetto, un nostro modo di registrare il fenomeno.

Ora l’uomo ha compreso che dinnanzi alle vastità intergalattiche esso non rappresenta che una massa trascurabile, seppur con l’orgoglio e il vanto di poter carpire i segreti di quel tempo che è storia di un mondo che è nato prima di noi e che non avrà memoria delle nostre domande, quando non saremo più che energia, quando saremo tornati al tutto.


Bibliografia

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Andrea Corona

Andrea Corona nasce a Cagliari nel 1991. È un appassionato ciclista e lettore, divoratore di storie in ogni coniugazione. Il suo film preferito è Pulp Fiction, il suo libro preferito sarà il suo quando vedrà luce, almeno per i primi 5 minuti. Ha recentemente scoperto il mondo degli audiobook e non smetterà di parlarvene qualora gli diate corda. Vive a lavora a Padova.

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