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Paul Grice – La pragmatica del linguaggio

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Vita

Paul Grice nasce il 13 marzo a Birmingam 1913, in Inghilterra e muore il 28 agosto del 1988 a Berkeley, California.

Intraprende studi classici nel Corpus Christi college ad Oxford. Conclusi gli studi, insegna per un anno in una scuola pubblica. Rinsavito dall’esperienza d’insegnamento, ritorna a Oxford ma per cinque anni è costretto ad interrompere il suo studio per servire la patria nella Royal Navy.

Nel 1967 si sposta alla Berkeley University  e lì insegnerà fino al 1979, anno del ritiro dalla vita accademica.

Paul fu una persona culturalmente attiva, amava giocare a scacchi, suonare il pianoforte e praticava il cricket. Organizzava spesso cene a casa propria alle quali partecipavano grandi personaggi della filosofia.

Grice non pubblicò molto ed è soprattutto noto attraverso la raccolta di lavori “Studies in the way of words”, di cui curò personalmente la revisione. E’ oggi famoso per i suoi contributi fondamentali in pragmatica, lo studio del linguaggio nella comunicazione ma diede importanti contributi anche in metafisica. Approfondì la conoscenza di due grandi pensatori della filosofia: Kant e Aristotele. Del primo troviamo traccia nelle famose massime griceane.


Principi generali della teoria Griceana[1]

  1. Il significato di un enunciato è ciò che esso significa secondo le intenzioni comunicative di chi l’ha espresso.
  2. Il significato di un enunciato: Il parlante P vuole dire o significa qualcosa mediante l’enunciato E se e solo se P ha l’intenzione che E susciti uno stato mentale S in D e D comprende P se ne comprende le intenzioni e se comprende le ragioni del proferimento di E.
  3. Il significato del parlante: Un parlante P significa I nell’enunciato E se e solo se un parlante P intende significare I attraverso l’espressione E.
  4. Comprendere un enunciato significa aver compreso le intenzioni di colui che l’ha proferito.
  5. Principio di cooperazione: dai del tuo meglio per mantenere il tuo contributo positivo ai fini della conversazione.
  6. Il contenuto intenzionale del parlante può essere considerato distinto dal valore di verità e dal riferimento dell’enunciato proferito.
  7. Livelli del processo comunicativo:
    1. Livello dell’intenzione del parlante,
    2. Livello della credenza del parlante,
    3. Enunciato esplicito del parlante,
    4. Ricognizione del livello delle intenzioni del parlante da parte del destinatario.
  8. Contestualizzazione: una certa espressione E assume un certo significato S secondo le intenzioni del parlante P solo all’interno di un contesto C, dove C è considerato come una parte del bagaglio di conoscenze condivise tra il parlante P e il destinatario D.
  9. Intenzioni implicite:
    1. Proposizioni dichiarative: enunciati che veicolano credenze.
    2. Proposizioni imperative: enunciati che veicolano ordini tali che sono soddisfatti solo se all’enunciato segue la sua realizzazione.
  10. Concezione del significato:
    1. Ciò che un’espressione E significa secondo la denotazione semantica convenzionale.
    2. Ciò che un’espressione E significa per il parlante P.
    3. Ciò che un’espressione E lascia intendere secondo l’intenzione del parlante P nell’occasione O.
  11. Simbolismo:
    1. P = Parlante.
    2. D = Destinatario.
    3. E = Espressione linguistica asserita.
    4. p,q = Proposizioni espresse dall’enunciato E.
    5. Lettere maiuscole = contenuto proposizionale.
  12. Connettivi logici: nella conversazione i connettivi logici sono interpretati con valori relazionali aggiuntivi rispetto a quelli espressi dalle tavole di verità.
  13. Principio generale di economia della conversazione: tra un’interpretazione 1 dell’enunciato E da parte di D di lunghezza N e un’interpretazione 2 di E da parte di D di lunghezza N’ dove N < N’ bisogna selezionare l’interpretazione meno pesante da un punto di vista cognitivo.
  14. Proposizione: concetto astratto definito da proprietà fonologiche, sintattiche e semantiche.
  15. Enunciato: atto linguistico che veicola una proposizione.
  16. Livelli della comunicazione:
    1. Il significato di un enunciato è l’intenzione del parlante.
    2. Il principio di cooperazioni pone le aspettative da rispettare e si declina nelle massime conversazionali.
    3. Per comprendere un parlante bisogna distinguere ciò che dice da ciò che lascia intendere.
  17. L’aspettativa del destinatario: il destinatario si attende che P sia comunicativo.
  18. Processo comunicazione:
    1. P dice E a D.
    2. P dice che E.
    3. P pensa che D capisca E.
    4. P pensa che D pensi che P crede E.
    5. D ascolta E.
    6. D completa il significato di E, se necessario.
    7. D intuisce che E sia un’espressione esaustiva.
    8. D pensa che P creda che E.
  19. Caratteristiche comunicative:
    1. Le espressioni sono orientate verso un agente.
    2. Le espressioni comunicative sono aperte: le intenzioni sono manifeste e trasparenti, cioè credute riconoscibili dal parlante.
    3. Le espressioni comunicative sono riflessive: la possibilità della comprensione degli enunciati del parlante riposa sulla possibilità che il destinatario comprende le intenzioni del parlante.
  20. Comunicare non è semplicemente informare: nel processo di informazione il parlante non intende veicolare credenze.
  21. Condizioni della comunicazione:
    1. P intende produrre in D la credenza p tramite E.
    2. P intende far sì che D riconosca che E è stato prodotto secondo l’intenzione (a).
  22. Caratteristiche generali della comunicazione:
    1. Attività razionale.
    2. Attività che richiede collaborazione.
    3. Attività finalizzata ad uno scopo.
  23. Massime di guida delle aspettative del destinatario:
    1. Quantità: dà un contributo comunicativo non maggiore né minore alla conversazione.
    2. Qualità: dì il vero.
    3. Relazione: sii pertinente.
    4. Modo: sii ordinato nell’esposizione, non oscuro etc..
  24. Le massime creano aspettative sia che si violino sia che si rispettino.
  25. Il livello dell’esplicito consente inferenze di natura logica e consente un trattamento semantico delle espressioni.
  26. A livello esplicito i processi di disambiguazione di enunciai polisemici e la saturazione degli indicali è lasciato al destinatario.

 Filosofia

Struttura dell’articolo

0. Introduzione

1. Sintassi, semantica e pragmatica

2. Il problema del punto di incontro tra due posizioni in contrasto: il formalismo e informalismo

3. Gli attori della conversazione e l’attribuzione reciproca di credenze

4. Il simbolismo

5. I livelli di esistenza della comunicazione

6. Ciò che deve essere “patrimonio comune” per capirsi

7. I due livelli della comunicazione verbale: esplicito ed implicito

8. Principio di cooperazione e massime

9. Osservazione sui principi della comunicazione di Grice

10. Il mondo sommerso

0.  Introduzione

In questo articolo tratteremo nell’essenziale la pragmatica secondo Grice. Grice non è stato solo un filosofo del linguaggio, ma ha trattato diversi argomenti, quali l’Etica, la Metafisica e l’analisi del pensiero di grandi pensatori, come Kant e Aristotele.

In questa presentazione ci siamo attenuti principalmente all’esigenza di chiarire la pragmatica griceana, soprattutto insistendo sulle condizioni di possibilità della stessa, ritenendo preferibile ricostruire per intero il campo di esistenza della pragmatica, piuttosto che limitarci ad una pura esposizione del pensiero di Grice in merito. Ci pare che lavorare in questo modo fosse più fruttuoso che limitare il discorso in modo più netto. D’altra parte, il lettore può benissimo concentrarsi nella lettura di alcuni paragrafi specifici.

1. Sintassi, semantica e pragmatica secondo Grice

La pragmatica è lo studio del linguaggio nel suo aspetto concreto, cioè nell’atto del comunicare. Il problema dello studio della lingua è un fatto complesso, essa è passibile di molte analisi diverse: sintassi, semantica, pragmatica. Nessun approccio può definirsi totalmente isolato dall’altro ma ciascuno sottolinea un diverso metodo per un diverso particolare oggetto: lo studio della sintassi è lo studio delle regole formali che stabiliscono quali asserzioni sono ben formulate in un particolare linguaggio e quali no. Nel caso della lingua naturale, la sintassi enuncia le regole di buona o cattiva formazione di frasi in una particolare lingua: “Giuseppe Garibaldi fu un grande generale” è un enunciato ben formato in italiano mentre “Giuseppe Garibaldi quella ne mangia” non ha alcun senso. Stabilire, dunque, i vincoli formali di una lingua è ciò che si propone di fare la linguistica.

Le proposizioni ben formate di un linguaggio non si limitano ad essere delle strutture puramente formali, a differenza, ad esempio, di enunciati della logica elementare. “a → b” non ha alcun significato, cioè non si riferisce a niente ma mostra solo una relazione tra un qualunque enunciato “a” e un enunciato “b” espresso dal connettivo logico “→”, cioè di implicazione. L’aspetto del significato è trattato dalla semantica, cioè la disciplina che studia la relazione che intercorre tra una proposizione ben formata e il suo riferimento. Ma non solo questo studia la semantica: una volta posto che un enunciato significa qualcosa, ci si può lecitamente chiedere se esso sia vero oppure falso. In questo senso, non solo il linguaggio può descrivere stati del mondo ma ci si può legittimamente chiedere quali condizioni rendano vere o false le descrizioni fatte attraverso il linguaggio.

Di tutto ciò la pragmatica non si occupa. Il linguaggio non è, infatti, uno “strumento” indispensabile per descrivere la realtà in cui viviamo, ma è generalmente usato nell’attività più comune tra gli esseri umani: la comunicazione. Lo studio delle espressioni comunicative del linguaggio è l’oggetto su cui verte l’indagine. In questo dominio non ci sarà tanto il problema di cosa sia vero e di cosa sia falso, quanto del ruolo relazionale del parlante con il destinatario, la contestualità dell’informazione e la condivisione di certi principi che rendano possibili veri e propri scambi di idee. Quando comunichiamo, siamo quasi sempre guidati dal fine di far passare certi nostri stati mentali agli altri, piuttosto che ad asserire delle proposizioni vere a priori o esprimere certi enunciati che hanno un riferimento effettivo nella realtà dei fatti. Chiarire i termini, i vincoli e i modi della comunicazione è il fine della pragmatica.

La pragmatica di Grice è incentrata su due nozioni fondamentali: il principio di cooperazione e l’implicito. Il principio di cooperazione è l’assunzione che sta alla base di ogni comunicazione, cioè che il parlante voglia effettivamente rendere manifeste le sue intenzioni tramite espedienti linguistici. Se violiamo tale assunto, allora abbiamo la cessazione di ogni comunicazione giacché colui che parla non ha alcuna intenzione di dirci cosa ne pensa.

Il punto fondamentale, sottolineato in modo importante da Grice, è che la conversazione non si limita esclusivamente al piano dell’esplicito. Anzi, molto spesso noi saremmo indotti a non capire cosa gli altri ci vogliono comunicare se ci limitassimo all’aspetto epifenomenico della conversazione, cioè il livello esplicito. Una frase come:

(1)   “La signora è un avvoltoio”

dice esplicitamente che essa è un pennuto dotato di un collo ricurvo, un becco ad uncino e si ciba di carogne. Tuttavia, tale descrizione, che non è altro che la stessa definizione del grosso pennuto, è incompatibile con la definizione standard di “signora”. Dunque, se dovessimo stare solo all’esplicito, noi dovremmo dire che la proposizione “La signora è un avvoltoio” è falsa. Naturalmente, ciò che vogliamo dire proferendo quella frase non è ciò che è detto esplicitamente. E’ del tutto intuitivo, quasi meccanico, generare l’idea da (1) che la signora in questione sia particolarmente attenta a sfruttare le debolezze altrui. Ma è da osservare che questa implicatura, termine tecnico per definire le frasi che generiamo implicitamente cioè che non diciamo, non è deducibile da principi logici, ma solo a partire da alcuni principi che stanno al di là della logica e che vincolano le nostre produzioni linguistiche nell’atto comunicativo.

Grice, in realtà, si è spinto piuttosto in avanti nell’analisi pragmatica del linguaggio. Ad esempio, ha stabilito un principio di economia che vincola le generazioni di implicature, ha definito con chiarezza cosa le implicature sono, quali generi ci siano. Ma di tutto ciò, parleremo un po’ più nel dettaglio.

2. Il problema del punto di incontro tra due posizioni in contrasto: il formalismo e informalismo.

Nell’articolo “Logica e conversazione”, tratto da una lezione che Grice aveva tenuto, egli delinea molto essenzialmente il problema da cui voleva partire. Il linguaggio naturale è analizzabile da due punti di vista molto diversi che Grice chiama “approccio formalista” e “approccio informalista”, precisando che le due posizioni non si prestano a facili schematizzazioni per quanto la loro distinzione sia genericamente accettabile.

Il punto di vista formalista è quello di chi pensa che il linguaggio naturale sia un modo indispensabile ma rozzo di descrivere il mondo. Esso è intrinsecamente ambiguo, spesso oscuro e, grazie a questi difetti, distorce non solo la nostra possibilità di costruire concetti in modo chiaro, ma è anche impermeabile a qualunque correzione. Per tale ragione, è necessario fondare il linguaggio della scienza su una struttura linguistica più affidabile, che non consenta ambiguità, oscurità e paralogismi. Il linguaggio scientifico deve essere “trasparente” e consentire solo inferenze “vere”.

Il punto di vista informalista sottolinea l’artificiosità del linguaggio logico e la sua insufficienza in sede pratica. Il linguaggio naturale è elastico ed estremamente efficiente per quasi tutti i nostri scopi. Inoltre, il fatto che esso consenta ambiguità e sia talvolta oscuro, non significa che sia un buon mezzo per trasmettere le nostre informazioni. E se è senza dubbio vero che il linguaggio scientifico debba essere più rigoroso del linguaggio naturale, da ciò non segue affatto che il linguaggio naturale debba essere valutato sulla sua utilizzabilità dalla scienza.

Secondo Grice, bisogna sforzarsi di oltrepassare questo duplice punto di vista. Egli, infatti, sosterrà una strada diversa da quella degli “informalisti”. Tenendo fermo il principio che la comunicazione esplicita sia vincolata da parametri logici-semantici stabiliti dai vincoli che i “formalisti” sottoscriverebbero, è però vero che quegli stessi vincoli non sarebbero sufficienti a “reggere” su se stessi tutti i fenomeni comunicativi che entrano in gioco in una qualunque conversazione. Per Grice è evidente che il linguaggio nella comunicazione non sia uno “spirito senza corpo”, cioè entrano in gioco dei fattori che non vengono tenuti conto dalla semplice analisi semantica: è il ruolo dell’intenzione.

La comunicazione è intesa come un’attività intenzionale tra soggetti i quali, se vogliono trasmettersi intenzioni o credenze, devono rispettare certi vincoli entro i cui può esistere la comunicazione stessa. Due persone che conversino sono razionali, collaborative e si predispongono in modo tale da riuscire a parlare tra loro senza interferire l’uno nella comunicazione dell’altro. Grice sottolinea che la conversazione è un’attività che richiede una certa coordinazione, così come tutte le altre attività che richiedano la partecipazione di più persone: una partita di calcio implica il rispetto di certe regole ma, all’interno di quelle stesse, anche che i giocatori si predispongano in modo tale da collaborare l’uno con l’altro in modo armonioso. Per Grice, una conversazione è, in qualche modo, simile ad una partita di pallone, nel senso di attività che richiede una collaborazione armonica tra soggetti.

3.Gli attori della conversazione e l’attribuzione reciproca di credenze.

La conversazione è un’attività che vede implicate due figure: il parlante e il destinatario. In un’immagine teorica astratta, il numero dei parlanti e dei destinatari non ha importanza. Il parlante è colui che esprime una certa proposizione mediante un determinato atto linguistico, o enunciato. Una proposizione è un fatto astratto, essa è una struttura linguistica ben formulata con una certa denotazione e un certo valore di verità. Tuttavia, concretamente, esistono enunciati. Se dico:

(2)   Nelly è il mio vicino di casa.

sto proferendo un certo atto linguistico. Si potrebbe definire un enunciato come quel particolare atto linguistico che esprime una certa proposizione in un dato tempo, in un dato spazio. L’idea è un po’ questa: l’omicidio è il fatto dell’idea di uccidere. L’idea di uccidere è un fatto astratto, come una qualunque proposizione, ma essa non diventa “concreta” fino a che non viene espressa mediante un comportamento esplicito, cioè l’omicidio.

Il parlante è colui che esprime degli enunciati, cioè atti linguistici che esprimono proposizioni. L’atto esplicito della conversazione è ciò che viene detto in modo manifesto ed è ciò che fa il parlante quando dice qualcosa.

Il destinatario è colui che ascolta il parlante. Egli non solo si fa certe idee da ciò che il parlante dice, ma anche da ciò che il parlante lascia intendere. Ed eccoci ad un punto nodale.

In una conversazione, il significato delle parole proferite da un parlante non è esclusivamente quello veicolato a livello esplicito. Il parlante, infatti, non si limita a cianciare a vanvera ma vuole significare qualcosa. Il significato dei termini del parlante non è definito nei termini dell’esplicito, quanto al livello delle intenzioni. Esiste una differenza importante tra ciò che viene detto e ciò che si vuole dire. Il parlante, come attore intenzionale della conversazione, vuole comunicare una certa idea, più propriamente una credenza. Non solo vuole comunicare credenze ma anche comunicare la relazione che egli stesso intrattiene con la credenza. Facciamo un esempio:

(3)   Il Cagliari è una grande squadra di calcio.

ciò che voglio dire non è tanto che la squadra del Cagliari sia effettivamente una delle grandi, quanto il fatto che “Io penso che il Cagliari è una grande squadra di calcio”. Cioè il parlante vuole dire al destinatario che crede in una certa cosa. Ma prendiamo il caso di (3). Il destinatario potrebbe non capire che l’intenzione del parlante è quella di trasmettergli che lui pensi che il Cagliari sia una grande squadra di calcio, quanto un dato di fatto. Dire “Io credo che p” non è equivalente a dire “p”: una proposizione asserisce una mia convinzione, l’altra un certo fatto.

Il destinatario, dunque, non è solo un ascoltatore “passivo”, ma si impegna a riconoscere le intenzioni di chi parla. Per comprendere appieno l’importanza di riconoscere intenzioni, bisogna pensare così: come sarebbe una conversazione se il destinatario non fosse mai in grado di riconoscere le intenzioni del parlante? Be’ facciamo un esempio:

Giuseppe: “Quel tale ha un diavolo per capello”.

Giovanni: “Non vedo nessun diavolo, dunque, quel tale non può avere un diavolo per capello.”

Giuseppe: “Giorgio è uno squalo”.

Giovanni: “No. Giorgio è un uomo”.

Giuseppe: “Barry Lyndon è un film lungo”.

Giovanni: “Abbiamo tempo”.

In realtà, in questi scorci di conversazioni possibili, risulta molto chiaro solo nel secondo esempio cosa potrebbe accadere di continuo se il destinatario si limitasse ad ascoltare enunciati del parlante senza comprendere il valore intenzionale dell’atto comunicativo. Per Grice è fondamentale che il destinatario sia in grado di riconoscere le intenzioni comunicative del parlante giacché il messaggio vero e proprio non è solo ciò che viene detto a livello esplicito. Per comprendere l’implicito, e, vedremo, anche qualcosa dell’esplicito è necessario comprendere ciò che il parlante pensa. Il destinatario, per capire, deve attribuire credenze al parlante e il parlante si aspetta che lui lo faccia. Se non lo facesse, cadrebbe il principio di cooperazione.

Si noti che i bambini autistici hanno problemi comunicativi proprio perché non riescono a fare ciò che un buon destinatario dovrebbe: attribuire credenze a colui che parla. Non facendolo, incorrono a un vero e proprio “posto di blocco” grazie al quale sono delle piccole isole senza ponti.

 Chiudiamo cercando di dare una definizione precisa di “parlante” e “destinatario”:

  1. Il parlante P è l’agente della comunicazione che proferisce un certo enunciato E secondo una certa intenzione I.
  2. Il destinatario D è l’agente della comunicazione che ascolta un certo enunciato E e lo comprende se e solo se comprende l’intenzione I del parlante P.

4. Simbolismo[2]

Per facilitarci il compito e aumentare il rigore, ci sembra lecito usare una certa terminologia che massimizzi le nostre espressioni in tal senso.

Useremo la lettera maiuscola P per intendere il parlante.

Useremo la lettera maiuscola D per intendere il destinatario.

Useremo la lettera maiuscola I per intendere l’intenzione del parlante.

Useremo la lettera maiuscola C per intendere il contesto in cui viene asserita una certa proposizione.

Useremo la lettera maiuscola E per intendere l’enunciato esplicito di P.

Useremo le lettere minuscole p,q… n per una qualunque proposizione veicolata dall’enunciato in questione.

Useremo le lettere maiuscole per esprimere il contenuto conversazionali delle proposizioni.

5. I livelli di esistenza della comunicazione

Come si vede, una comunicazione si gioca a due, cioè ci sono due “attori” in gioco, il parlante P e il destinatario D. Tuttavia, abbiamo accennato ancora vagamente al fatto che nella conversazione si diano dei limiti precisi entro i quali P e D riescano a comunicare. Non solo. Abbiamo accennato alla necessità di sofisticata che sia. Qui discuteremo un po’ più approfonditamente i livelli della conversazione.

Possiamo riassumere i livelli del processo comunicativo in questo modo:

:

  1. Livello dell’intenzione del parlante,
  2. Livello della credenza del parlante,
  3. Enunciato esplicito del parlante,
  4. Ricognizione del livello delle intenzioni del parlante da parte del destinatario.

(a) Il livello dell’intenzione del parlante è la base della comunicazione, prova ne sia il fatto che, se negata l’intenzione, non si dà alcun processo attraverso cui un parlante “polarizza” il suo linguaggio in modo tale che possa essere compreso, almeno secondo le sue intenzioni.

(b) Il livello della credenza è ciò che un certo parlante crede e vuole comunicare. Per tale ragione, secondo alcuni, il livello dell’intenzione e quello della credenza, sono lo stesso. Tuttavia, abbiamo distinto i due piani perché si possono dare dei casi problematici non facendolo[3]. La credenza è espressa nei termini di una credenza-proposizionale del tipo “Credo che p”, quindi non semplicemente nei termini di uno stato mentale, quanto di una vera e propria proposizione. Supponendo che il parlante voglia mantenersi comunicativo e non pronunciare il falso (sulla questione ci intratterremo meglio più avanti), l’enunciato che verrà proferito dal parlante dovrebbe coincidere con la sua stessa credenza.

(c) è il livello dell’esplicito, cioè ciò che viene effettivamente pronunciato. L’enunciato, o la serie, sono il materiale fondamentale della comunicazione giacché, a partire da essi, noi possiamo attribuire credenze al parlante e il parlante si esprime proprio perché si aspetta che il destinatario lo faccia. Alcune precisazioni: il livello esplicito, per Grice, è descritto interamente dalle regole della logica formale, per quel che attiene alla sintassi, mentre per i criteri di verità e i relativi valori ci si deve attenere a quel che la semantica formale ci ha insegnato. In questo senso: Grice rimane molto legato all’approccio “formalista”, per usare i suoi stessi termini. Ma ciò solo per quanto riguarda il livello dell’esplicito.

(d) L’ultimo “atto” della comunicazione è il riconoscimento delle intenzioni del parlante da parte del destinatario. Che il destinatario debba riconoscere le intenzioni del parlante perché vi sia comunicazione è reso manifesto dal fatto che gli enunciati di comunicazioni non avrebbero un chiaro significato se non alla luce di ciò che essi lasciano intendere. Ad esempio:

(3)   “Svolta a destra”.

è una frase imperativa che non acquisisce alcun significato se non a partire dal fatto primordiale che il parlante vuole comunicare una certa intenzione e che il destinatario sappia che P vuole effettivamente comunicargli esattamente ciò che pensa. Dunque, perché la comunicazione sia effettiva è necessario che il destinatario riconosca le intenzioni del parlante. In realtà, D deve presumere alcune assunzioni prima di poter attribuire la credenza della proposizione a P. Infatti, D si aspetta che P sia comunicativo: esistono delle aspettative condivise tra il mittente e il ricevente senza le quali l’uno non potrebbe aspettarsi che l’altro capisca né l’altro potrebbe riconoscere ciò che l’uno vuol dirgli. Esiste, dunque, una sfera di regolarità, non dissimili dalle aspettative che nutriamo sul comportamento degli oggetti e non meno forti, che ci guidano nella codifica di messaggi, quando siamo i parlanti e nella loro decodifica quando siamo i destinatari. L’insieme delle aspettative deve essere condiviso, altrimenti, si arriverebbe facilmente a fallimenti comunicativi. Il destinatario si aspetta il rispetto di altre condizioni, oltre a quella di “cooperatività”, in particolare s’immagina, presuppone, non dubita che il parlante dica il vero. A partire da queste aspettative, dall’enunciato esplicito, dal contesto e da conoscenze enciclopediche condivise il destinatario capisce le intenzioni del parlante.

6. Ciò che deve essere “patrimonio comune” per capirsi

La comunicazione è un’attività che implica collaborazione, cooperazione e coordinazione. Tuttavia, il fatto che due persone possano voler compiere una serie di azioni coordinate ancora non determina necessariamente un dialogo, uno scambio di battute o una partita di tennis. Per giocare a tennis, ad esempio, si necessita di una serie ben definite di condizioni materiali senza le quali non si può iniziare nessuna partita: una palla da tennis, due racchette, un campo. Ma le condizioni materiali non sono le sole indispensabili per avere una partita di tennis: se due persone non conoscono le regole del tennis, difficilmente potranno giocarvi; se entrambi non hanno memoria e si dimenticano del punteggio automaticamente cade la possibilità di praticare quello sport. La semplicità della frase “giochiamo a tennis” implica delle condizioni materiali, un contesto linguistico condiviso (giacché i giocatori devono comunicare l’uno con l’altro per dirimere le controversie relative all’applicazione delle regole), una serie di conoscenze condivise piuttosto rigide (la conoscenza delle regole del tennis è un dato comune imprescindibile) e, in fine, l’intenzione reciproca di voler effettivamente giocare a tennis e non squash (sport in cui le condizioni materiali sono piuttosto simili a quelle del tennis).

Parlare per comunicare è molto vicino a voler giocare a tennis: innanzi tutto deve essere possibile a livello materiale potersi esprimere, condizione sulla quale Grice non insiste per nulla giacché non ha alcuna rilevanza al fine di spiegare la pratica della comunicazione.

Ma altri punti fondamentali sono saltati fuori. Senza un contesto condiviso non è possibile comunicare giacché salterebbero tutti i “riferimenti” né sarebbero comprensibili proposizioni con indicali, cioè espressioni che alludono a condizioni molto specifiche determinate nel contesto: “Oggi piove qui” non può essere compresa se non si sa che “Oggi” è “Martedì 11 maggio 2010” e che “qui” è “Milano”. Tuttavia, se il lettore non avesse letto il nostro lavoro proprio nell’istante stesso in cui veniva scritto e non sapesse che io vivo a Milano non avrebbe mai potuto sapere se la frase “Oggi piove qui” fosse vera o falsa, se fosse ironica oppure se fosse semplicemente un’asserzione sul tempo meteorologico. Questo è un caso molto semplice, ma si danno moltissimi casi, se non tutti, in cui una conversazione risulta impossibile se non si hanno delle coordinate spazio-temporali condivise e un vasto contesto d’oggetti che costituiscono una delle conoscenze di sfondo della comunicazione. Un altro esempio: “Luigi è un porco” significa “Luigi è un suino” oppure “Luigi è sporco”, “Luigi è un uomo che non controlla i propri istinti sessuali in pubblico” etc.? Come fare a decidere senza un contesto?

Senza contesto condiviso cessa ogni comunicazione: si dà prima e dopo la comunicazione, la rende possibile e entrambi gli “attori” credono che sia un patrimonio di conoscenze accessibili all’altro. Da osservare: due persone che dialogano attraverso il telefono, magari distanti mille miglia l’uno dall’altro condividono sempre un contesto. In questo caso entrambi sanno che il contesto dell’uno è inaccessibile all’altro ma entrambi si immaginano la condizione dell’altra persona e se l’uno è Milano, e l’altro lo sa, sarà possibile comprendere una frase come “Oggi piove qui”.

Altra condizione imprescindibile per la comunicazione è una serie di conoscenze “enciclopediche” disponibili alla mente sia del parlante che del destinatario. Facciamo questo esempio: Luigi è un uomo esperto nella difficile arte della marineria e Mario non lo è. I due si mettono a discutere sulle qualità del film “Master & Commander”, un film ambientato su un bastimento inglese del 1800. Luigi dice “E’ bellissima la scena in cui un marinaio, dopo essersi afferrato alla gomena, risale sulla coffa”. Per Mario, che non conosce né la parola “gomena” né “coffa” sarà ben difficile comprendere ciò che Luigi sta dicendo. Altri casi problematici sono offerti da casi di usi idiosincratici, cioè personali, delle parole:

(5) “Il zozzo è a portata di mano”

(la parola “zozzo” traduce la parola cagliaritana gergale di “caddozzone”). Ma che cosa significa? Zozzo in questo caso vuol dire “paninaro”, venditore ambulante di snack che avendo a che fare con salsicce, wurstel e cipolle è generalmente associato all’unto, all’odore dell’arrosto e ad una certa fuliggine che non lo rendono propriamente l’immagine dell’uomo acqua e sapone. Un lettore che non fosse avvezzo all’uso idiosincratico della parola, magari dialettale come “caddozzone”, non comprenderebbe (5). Ciò non è dovuto, ad esempio, alla decontestualizzazione della frase o dal fatto che non ci sia una situazione in cui siano presenti sia il destinatario che il parlante. Semplicemente sono entrambi casi di non condivisione piena delle conoscenze enciclopediche, cioè quel patrimonio supposto comune senza il quale non è possibile alcuna comunicazione.

E’ indispensabile pensare che, indipendentemente da una definizione più chiara di “conoscenza enciclopedica”, essa debba esserci. In primo luogo, si suppone, correttamente, che il “mondo degli oggetti” sia conosciuto almeno in modo simile: non immaginiamo che un uomo possa pensare a “quadrato” in modo diverso da un altro. Ma neanche ci aspettiamo che se una persona parla genericamente di un “dado” egli non sia in grado di comprenderlo. Ciò è confermato anche dalla pratica dell’insegnamento dell’italiano a stranieri completamente digiuni della nostra lingua. Quando insegno loro la lingua, procedo proprio dal “mondo degli oggetti” perché si suppone comune: essendo loro di cultura araba, cioè provenienti da una civiltà raffinata che ha costruito un’immagine del mondo fisico “standard” pressappoco, se non identica, alla nostra, non c’è alcuna barriera che “separi le nostre menti” se non la barriera del linguaggio ma non delle conoscenze enciclopediche.

In fine, è fondamentale che ci sia l’intenzione da parte del parlante e del destinatario di comunicarsi delle idee, credenze, opinioni, pensieri. In poche parole: la comunicazione rende accessibili contenuti mentali altrimenti preclusi. Tuttavia, come forse risulta chiaro, è evidente che sia P che D debbano reciprocamente avere la volontà di manifestare il loro proprio pensiero. Di più. Entrambi “gli attori” devono riconoscersi l’un l’altro questa volontà. In qualche modo è come la base del “diritto”: attribuisco agli altri quegli stessi diritti naturali che conferisco a me stesso e se un’altra persona trasgredisce una legge, mi sento a mia volta in potere di trasgredirla così se penso che l’altro non voglia comunicare con me, in linea di massima non c’è comunicazione e di ciò sono consapevole. Viceversa, la condizione della comunicazione richiede ed implica che entrambi gli attori vogliano comunicare (abbiano l’intenzione di comunicare).

Per concludere questo paragrafo, vorremmo citare un passo di Logica e conversazione in cui Grice chiarisce quanto una conversazione possa essere simile ad una qualunque attività collaborativa:

“Poiché è mio scopo dichiarato, fra gli altri, quello di vedere il discorrere come un caso speciale di comportamento finalizzato e , in effetti, razionale, può valere la pena di notare che le aspettative o le presunzioni connesse con almeno alcune delle massime sopra elencate hanno i loro corrispettivi in sfere di transazione diverse dallo scambio linguistico. Ne elencherò brevemente alcuni, uno per ciascuna categoria:

  1. Quantità. Se tu mi aiuti a riparare una macchina, io mi aspetto che il tuo contributo non sia né più né meno di quanto è richiesto; se, ad esempio, a un certo punto ho bisogno di quattro bulloni, mi aspetto che tu me ne passi quattro, non due o sei.
  2. Qualità. Mi aspetto che i tuoi contributi siano autentici e non spurii. Se ho bisogno di zucchero come ingrediente del dolce che mi stai aiutando a preparare, non mi aspetto certo che tu mi passi il sale; se ho bisogno di un mestolo, non mi aspetto che tu mi passi un finto mestolo di gomma.
  3. Relazione. Mi aspetto che il contributo del mio compagno sia appropriato ai bisogni immediati a ogni stadio della transazione; se sto mescolando gli ingredienti del dolce, non mi aspetto che mi si dia un bel libro, e neppure un guanto da forno (per quanto questo contributo possa risultare appropriato in una fase seguente).
  4. Modo. Mi aspetto che il mio compagno renda chiaro qual è il contributo che mi sta dando, e che esegua la sua azione con una celerità ragionevole.”[4]

7. I due livelli della comunicazione verbale: esplicito ed implicito

Quando due persone parlano stanno esprimendo enunciati in un determinato linguaggio. Tuttavia, si danno diverse possibilità. Innanzi tutto, posso pensare ad una proposizione senza dirla. Posso dire un enunciato. Posso lasciare intendere una proposizione non espressa da alcun enunciato e lasciarne intendere un’altra. Qualche esempio per aiutarci a vedere chiaro.

Il primo caso è piuttosto semplice: “domani pioverà”, lo penso ma non lo dico, perché magari qualcuno la pensa diversamente e non ho voglia di impegnarmi con lui in un dibattito sterile di meteorologia spicciola.

Il secondo caso:

(6) Giovanni è un bravo ragazzo.

Ciò che sto proferendo è proprio che GIOVANNI E’ UN BRAVO RAGAZZO. Lo dico perché lo penso e lo proferisco fisicamente, cioè pronuncio con qualche mezzo la proposizione (6).

L’ultimo caso è il più complesso, sebbene nella quotidianità non ci dia mai alcun problema:

(7) Milito è un rapace.

La proposizione (7) dice qualcosa di vero? No. Milito, l’attaccante dell’Inter è attualmente uno dei migliori attaccanti “d’area”, e non solo, in circolazione. Però questa frase è falsa perché “rapace” non denota un ruolo di calcio ma un particolare tipo di uccello. Milito non è un particolare tipo di uccello, perciò (7) è falsa. Ma noi con (7) non vogliamo in realtà dire MILITO E’ UN PENNUTO PREDATORE ma lasciamo intendere un’altra proposizione, o una serie: le qualità “astratte” del rapace vengono associate al giocatore di calcio, cioè la rapidità, la capacità di sfruttare l’attimo giusto, etc.. Dunque, il livello esplicito è effettivamente ciò che è detto, e cioè che Milito è un rapace. Ma il livello implicito, ciò che non viene detto, è effettivamente quel che noi vogliamo lasciare intendere senza dirlo apertamente.

Ci sono molti contesti in cui il livello esplicito ha delle limitazioni e noi ci serviamo di utili espedienti per lasciare intendere ben oltre quel che potremmo dire a livello esplicito. Nella quotidianità il livello dell’implicito consente di essere molto “economici” nei termini di ciò che diciamo esplicitamente: se dovessimo dire tutto ciò che intendiamo con “Milito è un rapace” dovremmo fare tutto discorso molto lungo e dispendioso sia da dire che da ascoltare.

Grice è stato il primo filosofo a mettere in luce l’esistenza e la rilevanza dell’implicito nelle conversazioni ordinarie. Per lui, l’implicito, cioè tutto ciò che non vien detto, è generato o per via inferenziale o per via di convenzioni o da usi linguistici particolari, piuttosto che dall’inosservanza manifesta delle massime, ma di questo è meglio parlare più avanti, una volta introdotte le massime griceane e il principio di cooperazione.

8. Principio di cooperazione e massime

E’ una condizione necessaria, ma non sufficiente, che i due attori della conversazione abbiano l’intenzione reciproca di comunicare credenze. Questa condivisione di interessi fonda il principio fondamentale griceano: il principio di cooperazione.

Un parlante P e un destinatario D devono essere caritatevoli l’uno con l’altro, cioè qualunque cosa dica P, D deve supporre che P sia ancora comunicativo. All’interno di una conversazione il destinatario deve sempre supporre, a meno di dati evidenti e manifesti, che il parlante continui a voler comunicare con lui.

Questo principio segna il limite tra ciò che rientra nei compiti del parlante e del destinatario: sii, per quanto possibile, cooperativo, cioè dai il tuo contributo quel tanto che basta per mantenere la comunicazione al livello richiesto. Per usare le parole di Grice:

“Potremmo allora formulare un principio generale approssimativo che ci si aspetterà che i partecipanti (ceteris paribus) osservino, e cioè: il tuo contributo alla conversazione sia tale quale è richiesto, allo stadio in cui avviene, dallo scopo o orientamento accettato dello scambio linguistico in cui sei impegnato.”[5]

Come si vede, Grice stesso non va al di là di una semplice enunciazione di “un principio generale approssimativo” intendendo, con ciò, limitarsi a ciò che ragionevolmente due persone impegnate nella comunicazione fanno effettivamente e che, in una certa misura, si aspettano che gli altri facciano.

Un secondo punto da osservare è la relatività della conversazione: non esistono dei parametri universali che stabiliscano a priori il “livello” della conversazione. Uno scambio comunicativo tra due professori universitari in un seminario è cosa ben diversa da una chiacchierata al bar tra conoscenti.

Il principio di cooperazione, abbiamo detto, è condizione necessaria per l’esistenza della comunicazione. Esso, però, non è sufficiente a enumerare tutte le aspettative che il parlante e il destinatario avranno sull’andamento della discussione. Infatti, ricordiamoci, il problema centrale rimane sempre il fatto che, a differenza che in un trattato di logica o di semantica formale, ciò che noi vogliamo ottenere, quando parliamo o, forse più in generale ma questo Grice non lo sostiene a quanto ci risulta, è riuscire a trasmettere delle nostre idee e non semplicemente ad asserire degli enunciati puri, senza un qualche tipo di impegno in prima persona. Occorrono altre “norme” per “regolare” gli scambi comunicativi.

Questi principi sono le Massime Griceane. Esse guidano le aspettative del destinatario nel comprendere gli enunciati del parlante, e ancora una volta di più, comprendere un enunciato significa comprendere le intenzioni del parlante. Nell’enunciazione Grice si rifà direttamente ad una buona autorità: Kant.

“Una volta assunto come accettabile un principio generale di questo tipo, si possono forse distinguere quattro categorie sotto l’una o l’altra delle quali cadranno certe massime e sub massime più specifiche, tali che la loro osservanza porti, in generale, a risultati conformi al Principio di Cooperazione. Memore di Kant, chiamerò queste categorie Quantità, Qualità, Relazione e Modo.”[6]

Grice è esplicito. Una volta assunto il principio generale di cooperazione (condizione necessaria), si possono distinguere alcune sottoclausole (sottocondizioni) il cui rispetto implica necessariamente il principio di cooperazione. Cioè: se rispetto le Massime della conversazione sto conversando, se mi attengo alle Massime allora sarò senz’altro compreso.

La prima categoria è quella di Quantità che si può definire, in generale, come la norma che sancisce la giusta “dimensione d’informazione”: dai tante informazioni quanto richiesto. Dunque, non bisogna essere prolissi né essere eccessivamente stringati. Per tale ragione, questa categoria, espressa dalla norma generale sopracitata, si può ulteriormente specificare:

“1. Dà un contributo tanto informativo quanto è richiesto (per gli scopi accettati dallo scambio linguistico in corso).

  1. Non dare un contributo più informativo di quanto richiesto.”[7]

Ma cosa succede se il parlante non rispettasse la massima di quantità? Facciamo un esempio:

Che ora è?

Sono le otto.

La risposta alla domanda “Che ora è” è tanto informativa quanto richiesta se non è necessario essere precisi, supponendo che non si è esattamente alle otto. Ma in determinati contesti è necessario essere rigorosi. Se do un appuntamento ad uno sconosciuto, dunque una persona per cui gli obblighi morali sono più forti, devo essere preciso. In questo senso, se una persona mi chiede l’ora, senza  specificarmi il grado di esattezza, sono legittimamente giustificato a dire “sono le otto” se sono le otto e un minuto o le otto meno cinque.

La massima di Qualità è senza dubbio quella più importante:

“Sotto la categoria di Qualità cade una supermassima –“Tenta di dare un contributo che sia vero”- e le due massime più specifiche:

  1. Non dire ciò che credi essere falso.
  2. Non dire ciò per cui non hai prove adeguate.”[8]

“Non dire ciò che credi essere falso” è il principio sommo, per Grice, senza il quale perde di senso conversare. Non posso parlare con un bugiardo cronico e pensare di comprenderlo perché egli maschera le intenzioni delle sue espressioni. Non solo. Quando conversiamo, anche con sconosciuti, noi ci attendiamo che non dicano bugie.

La categoria di relazione:

“Sotto la categoria della Relazione collocherò una massima sola, cioè «sii pertinente»”.

Con ciò si intende che non bisogna parlare a sproposito e che noi ci aspettiamo che gli altri si atterranno a tale Massima, a meno che non vogliano fuoriuscire da principio di cooperazione. L’infrazione di tale massima, se manifesta, conduce a fenomeni di implicatura che vedremo più avanti.

In fine, la categoria di modo:

“Infine, sotto la categoria del modo, che interpreto come relata (come le categorie precedenti) a ciò che viene detto, ma piuttosto a come si dice ciò che viene detto, includo la supermassima «Sii perspicuo»:

  1. Evita l’oscurità.
  2. Evita l’ambiguità.
  3. Sii breve (evita la prolissità).
  4. Sii ordinato nell’esposizione.

e quante altre potrebbero risultare necessarie.”[9]

In caso di conflitto tra massime, per esempio tra la Massima di qualità e quella di quantità, interviene un’intuitiva gerarchia delle regole:

“E’ ovvio che osservare alcune di queste massime è questione meno pressante che osservarne certe altre; un uomo che si sia espresso con indebita prolissità è in genere esposto a critiche meno aspre di un uomo che abbia detto qualcosa che ritiene falso.”[10]

9. Osservazione sui principi della comunicazione di Grice

Il principio di cooperazione e le massime come devono essere intese: una serie di regole morali che bisogna rispettare o, piuttosto, come una razionalizzazione di comportamenti standard comprensibili a partire da quelle leggi? Grice esplicitamente parla di “razionalizzazione”, di comprensione ragionevole di comportamenti conversazionali più che di una sorta di impegno morale. Tuttavia, non si può dire che nella formulazione delle massime, e del principio di cooperazione stesso, non ci sia in qualche modo una sorta di “normatività”: noi ci aspettiamo in senso forte che il nostro interlocutore sia collaborativo, partecipi attivamente alla discussione, che sia verace etc. E se lui non cooperasse con noi in quel modo, dicesse bugie, fosse troppo poco informativo noi ci infastidiremmo e, al limite estremo, lo potremmo accusare di essere un bugiardo, di essere reticente e così via. Queste accuse sono qualificazione di azioni morali e, in qualche modo, anche se Grice non lo dice, bisogna supporre che ci sia una qualche sorta di impegno che i due attori della conversazione stringono tacitamente.

L’idea che in Grice ci sia una realtà normativa è stato sottolineato dalla Saul nell’articolo citato in bibliografia. E non si può darle torto.

Qualcuno potrebbe osservare che, in realtà, le conversazioni si fondano spesso sulla violazione di principi: le metafore, l’ironia, le analogie sono tutte forme di non rispetto di alcune massime. Grice ne tiene conto. Egli, infatti, non si limita ad affermare che solo il rispetto delle massime induce all’uditore un certo tipo di riconoscimento di intenzioni, ma pure la violazione manifesta delle massime porta alla ricognizione di un altro tipo di intenzione.

10. Il mondo sommerso: l’implicito

Abbiamo appena visto come Grice riconosca l’importanza della violazione delle massime. D’altra parte, per un filosofo che sostenga una “razionalizzazione” dell’uso del linguaggio nei suoi aspetti quotidiani, è necessario che dia una spiegazione per fenomeni quali l’ironia, la metafora e di molte altre figure retoriche.

Un dato di fatto è che se noi dovessimo esprimere tutto ciò che pensiamo a parole, la conversazione sarebbe un processo estremamente lungo e dispendioso. Dovremmo chiarire tutto ciò che non diciamo nella pura frase enunciata, il che, ammesso che sia possibile, sarebbe anche molto difficile.

Uno dei mezzi a nostra disposizione per poter comunicare ciò che intendiamo dire è sfruttare le massime a nostro vantaggio, cioè violarle in modo manifesto, cioè chiaro per il destinatario, in modo tale che costui possa attribuirci certe credenze non immediatamente espresse dall’enunciato a livello esplicito.

Grice parla di “implicature” per indicare tutte quelle derivazioni implicite, cioè non dette dal parlante ma riconosciute dal destinatario. Si possono distinguere due tipi di implicature: le implicature convenzionali e le implicature conversazionali.

In generale, la possibilità di generare implicature è fondata sulla possibilità di attribuire credenze agli altri, condizione senza la quale non sarebbe mai possibile derivare delle frasi sulla sola base delle nostre aspettative. Quando ci aspettiamo qualcosa da qualcuno è perché noi sappiamo che quel qualcuno pensa che noi pensiamo che lui pensa. Un programma informatico del linguaggio, ad esempio, che operi esclusivamente operazioni di codifica e decodifica di espressioni linguistiche esplicite non sarebbe mai in grado di generare in sé proposizioni non poste immediatamente da caratteristiche logiche degli enunciati stessi. Ciò perché il programma in questione, opera solo procedure effettive, cioè meccaniche dove non si danno salti di ordine logico e tutte le inferenze sono giustificate da regole sintattiche. Ma nella conversazione umana le implicature vengono generate di continuo e non possono essere sostituite da argomentazioni fondate su caratteristiche puramente formali del discorso. Grice in questo da ragione a Locke il quale sosteneva che i nostri vocaboli non veicolano altro che idee:

“…essendo esse [le parole] immediatamente i segni delle idee degli uomini, e, per tal modo, gli strumenti coi quali gli uomini comunicano le loro concezioni (…), i nomi uditi suscitano certe idee non meno prontamente che se di fatto ci colpissero i sensi quegli oggetti che sono atti a produrre le idee medesime”[11]

Nel discorso noi facciamo effettivamente questo. Non solo. Quando noi argomentiamo qualcosa, spesso facciamo affidamento non sulle relazioni logico-semantico degli enunciati ma sulla catena di immagini che quelle parole suscitano in noi.

Le implicature sfruttano due diverse caratteristiche degli enunciati. Le implicature convenzionali le formulazioni particolari degli enunciati mentre le implicature conversazionali le caratteristiche contestuali del discorso.

Le implicature conversazionali sono derivate da alcune strutture della frase che suggeriscono certe aspettative al destinatario:

(8) Lisa è carina ma è intelligente.

L’esempio è ripreso da quello della Bianchi. Cosa voleva dire il parlante con (8)? Immediatamente noi generiamo in noi una frase, dunque una proposizione non esplicita, non detta,  che “Se P ha usato proprio l’espressione (8) formulata in quel modo, pensa che l’essere carina non implichi quasi mai l’essere intelligente”. Questa implicatura non nasce da un fatto contestuale, cioè relativa al modo con cui l’enunciato è stato proferito, piuttosto che sia stato detto in un certo luogo e in un certo momento, quanto dal fatto che la costruzione dell’enunciato stesso suggerisce l’idea che P pensi ad una certa cosa.

Le caratteristiche salienti delle implicature convenzionali possono essere riassunte come segue:

“[Le implicature convenzionali] 1. Sono distaccabili: lo stesso contenuto proposizionale può essere espresso in modo da rimuovere l’inferenza. (…)

2. Non sono cancellabili: non è cioè possibile bloccare la generazione dell’implicatura, né contestualmente, né esplicitamente (…).

3. Vengono generate in tutti i contesti: non richiedono particolari informazioni di sfondo in quanto sono indotte dall’uso di certe particelle o costruzioni. (…)

4. Non sono calcolabili: sono colte intuitivamente da D, e l’intuizione non è rimpiazzabile da un argomento (…).

5. Non sono parte del significato delle espressioni (…).”[12]

Le implicature conversazionali non si fondano su caratteristiche strutturali dell’enunciato, quanto dal fatto che non sarebbero comprensibili se l’ascoltatore non generasse un’altra frase in sé per comprendere l’intenzione del parlante. Facciamo un esempio. Supponiamo di essere in pizzeria e qualcuno ci chieda se la nostra pizza è buona:

(9) Ha le acciughe e c’è molto origano.

Il primo punto chiaro è che noi non abbiamo risposto alla domanda, da un punto di vista logico: noi non abbiamo risposto “si” o “no” giacché la domanda “E’buona la tua pizza” ammette come risposte o “Si è buona” o “No, non è buona”. Sembra che la frase (9) sia detta da un parlante che sia fuoriuscito dal principio di cooperazione o, almeno, sia stato impertinente, cioè abbia violato la massima di relazione: non ha risposto con precisione e ha cambiato discorso. Tuttavia, il lettore stesso penserà che questo ragionamento sia del tutto fuori luogo è evidente che (9) voglia dire “A me le acciughe e l’origano non piacciono, dunque la pizza non è buona”. Come si vede, lo studio della pragmatica è reso difficile proprio da questo fatto: che noi dobbiamo lavorare proprio sui meccanismi che ci rendono ovvie le nostre derivazioni di intenzioni.

Tornando a noi. Secondo Grice noi dobbiamo sempre essere caritatevoli nei confronti del parlante, cioè sino a prova contraria dobbiamo supporre che egli rimanga comunicativo. Di conseguenza, noi da (9) dobbiamo tener fermo che il parlante voglia dirci qualcosa intorno alle sue credenze. Tuttavia è evidente che (9) non risponda alla domanda. Il destinatario suppone che il parlante voglia lasciare intendere qualcosa. Non solo: D pensa che P voglia effettivamente lasciare intendere un’altra proposizione, diciamo Q, che renda comprensibile (9). E il parlante, a sua volta, dicendo (9) si aspetta che D derivi la proposizione Q che renda comprensibile (9). E’ evidente che l’implicatura conversazionale da (9) dovrebbe essere: “A me le acciughe e l’origano non piacciono, dunque la pizza non è buona”.

Come ha proceduto il parlante? Egli non ha risposto direttamente alla domanda ma ha reso manifesto cosa bisognasse inferire: egli ha violato apertamente la massima ma non per questo ha rinunciato alla cooperatività. Egli è rimasto all’interno della conversazione. Grice parla di “sfruttamento” di una massima in casi come (9): viene sfruttata la massima attraverso la sua negazione palese, cioè che sia evidente non solo al parlante ma anche al destinatario.

“Mi ritrovo ora a poter caratterizzare la nozione di implicatura conversazionale. Di un uomo il quale dicendo (o facendo mostra di dire) che p abbia implicato che q, si può dire ce ha implicato q, nel caso in cui: (1) si abbia motivo di presumere che egli si stia conformandosi alle massime conversazionali, o almeno al principio di cooperazione; (2) per rendere coerente con questa presunzione il fatto che egli dice o fa mostra di dire che p (o che fa l’una o l’altra cosa in quei termini) è richiesta la supposizione che egli si renda conto che, o pensi che, q; e (3) il parlante pensa (e si aspetta che l’ascoltatore pensi che lui pensa) che faccia parte della competenza dell’ascoltatore inferire, o affermare intuitivamente, che è richiesta la supposizione indicata in (2).”[13]

Le condizioni per comprendere le frasi come quelle simili a (9), i casi di ironia e tanti altri esempi di violazione manifesta delle massime, noi ci lasciamo guidare sostanzialmente da tre condizioni: in primo luogo, devono essere presenti le tre clausole espresse da Grice (quelle della citazione); in secondo luogo il contesto gioca un ruolo fondamentale per rendere chiaro cosa un parlante ci lasci intendere e, terzo, le conoscenze enciclopediche (che si suppongono condivise) ci guidano a capire cosa qualcuno lasci intendere. Da osservare che se cade anche solo uno delle tre condizioni, cade la possibilità di generare implicature conversazionali.

Si danno implicature conversazionali poste dalla violazione di ciascun tipo di massima.

Per un discorso più approfondito dell’argomento, rimandiamo ai testi in bibliografia.


Bibliografia

Bianchi C., Pragmatica cognitiva, Laterza, Roma-Bari, 2009.

Grice P., Logica e conversazione, In Filosofia del linguaggio, Raffaello Cortina, Milano, 2003.

Locke J., Saggio sull’intelletto umano, Laterza, Roma-Bari, 2001.

Richard E. Grandy and Richard Warner, Grice, in http://plato.stanford.edu, First published Tue Dec 13, 2005; substantive revision Mon May 8, 2006

Saul J., Speaker Meaning, What is said and What is implicate. Nous, 2002.


[1] Il grassetto evidenzia una definizione rigorosa.

[2] Questo simbolismo è ripreso da “Pragmatica cognitiva” di C. Bianchi. Si veda la bibliografia.

[3] Si veda “Il paradosso dell’ingannatore che si autoinganna ma non inganna nessuno”.

[4] Grice P., Logica e conversazione, da Filosofia del linguaggio, Raffaello Cortina, Milano, 2004 p.231.

 

[5] Ivi. p. 229.

[6] Ivi. p. 229.

[7] Ivi. p. 229.

[8]Ivi. p. 229.

[9] Ivi. p. 230.

[10] Ivi. p. 230.

[11] Locke J., Saggio dell’intelletto umano, Laterza, Roma-Bari, 2001, p. 429.

[12] Bianchi C, Pragmatica cognitiva, Laterza, Roma-Bari, 2009, pp. 48-49.

[13] Grice P., Logica e conversazione, In Filosofia del linguaggio, Raffaello Cortina, Milano, 2003, p. 234.


Giangiuseppe Pili

Giangiuseppe Pili è Ph.D. in filosofia e scienze della mente (2017). E' il fondatore di Scuola Filosofica in cui è editore, redatore e autore. Dalla data di fondazione del portale nel 2009, per SF ha scritto oltre 800 post. Egli è autore di numerosi saggi e articoli in riviste internazionali su tematiche legate all'intelligence, sicurezza e guerra. In lingua italiana ha pubblicato numerosi libri. Scacchista per passione. ---- ENGLISH PRESENTATION ------------------------------------------------- Giangiuseppe Pili - PhD philosophy and sciences of the mind (2017). He is an expert in intelligence and international security, war and philosophy. He is the founder of Scuola Filosofica (Philosophical School). He is a prolific author nationally and internationally. He is a passionate chess player and (back in the days!) amateurish movie maker.

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