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Autore: Linda Savelli

Linda Savelli è dottoressa in filosofia, perfezionata in scienza e filosofia (epistemologia generale e applicata), dottoressa in tecniche psicologiche per i servizi alla persona e alla comunità iscritta alla sez. B dell’Albo degli Psicologi della Toscana (Nr. Iscrizione 8747), dott.ssa in Psicologia Clinica e della Riabilitazione e ha un Master di primo livello in Mediazione Interculturale. Da anni si occupa di divulgazione filosofica e psicologica e, più recentemente, ha iniziato a occuparsi di interventi riabilitativi e rieducativi nell’anziano, di supporto accademico e di libroterapia. È autrice di libri e articoli a carattere divulgativo e scientifico, nonché di racconti e di una silloge di poesie.

Robert Schumann: il romantico e il critico

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Quale musica dopo Beethoven? Partire dalla domanda posta da Schubert al suo amico Spaun nel 1812, è un buon modo per mettere in luce le difficoltà attraversate dai musicisti tedeschi nell’Ottocento, costantemente all’ombra dell’imponente figura artistica di Beethoven, amatissimo dalla più grande nobiltà teutonica del tempo. Come poter sviluppare la propria creatività in un periodo in cui Beethoven era venerato quasi come un profeta?

Schuman sceglie la strada della nostalgia, cosa che, di fatto, lo rende in qualche modo il perfetto rappresentante del Romanticismo impregnato dei toni e dei colori del fantastico. La sua fervente immaginazione trova inizialmente terreno fertile nella forma musicale aforistica: idee musicali immaginifiche e brevissime, che daranno vita a una “… integrazione tra immagini e musica, che non aveva avuto precedenti di tale precisione e suggestione nella musica occidentale e che ebbe conseguenze di grande portata nello sviluppo delle avanguardie ottocentesche …”[1]

Gaetano Donizetti, Giuseppe Mazzini e il suono del Risorgimento: la musica come arte progressiva

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Il palco è a noi trionfo, e l’ascendiam ridenti: ma il sangue dei valenti perduto non sarà. Verran seguaci a noi i martiri e gli eroi: e s’anche avverso ed empio il fato a lor sarà, lasciamo ancor l’esempio com’a morir si va[1]

Il Risorgimento in Italia è un’epoca febbrile, segnata da fermenti politici, moti insurrezionali e crisi di identità personali e sociali, ma è anche un periodo di ricerca di nuove forme di libertà, di ideali e del risveglio, soprattutto tra gli intellettuali e gli artisti, di una coscienza nazionale. Anche la musica, come arte capace di veicolare ed esprimere tutta la gamma delle emozioni dell’animo umano, può farsi specchio dell’inquietudine collettiva e partecipare del vivace fermento che caratterizza questo periodo. Ma se sarà Giuseppe Verdi a realizzare in Italia la “nuova funzione sociale dell’arte come proiezione di ideali morali, civili e patriottici”[2] (impossibile non andare con il pensiero a quel famoso “Viva Verdi” che è suggestivo acrostico di “Viva Vittorio Emanuele Re d’Italia”) è comunque in questa cornice inquieta e incerta che si inserisce anche la figura di Gaetano Donizetti (1797–1848), compositore bergamasco tra i più fecondi del melodramma romantico italiano, per il quale la musica non è più, come per la precedente generazione di musicisti, semplice ornamento dell’esistenza. La vita di Donizetti, infatti, attraversa i fremiti di un’Italia frammentata, politicamente ancora dominata da potenze straniere, culturalmente viva ma scissa, lacerata tra l’anelito al nuovo e l’attaccamento alla tradizione; e, in qualche modo, la riflette. La generazione di Donizetti attraversa, quindi, come ben scrive Rostagno (2011), un periodo di grande disorientamento “che corrisponde agli anni delle cospirazioni fallite, dei tentativi insurrezionali, delle aspirazioni represse”[3]. Donizetti, pur non essendo un militante politico, riesce comunque a dar voce, nelle sue opere, seppur spesso inconsapevolmente, a un immaginario in cui eroismo, sacrificio e alienazione si fondono in un linguaggio musicale capace di parlare all’animo di un pubblico che anche nel melodramma va cercando ormai qualcosa di più di un raffinato intrattenimento. È la musica, adesso, che deve disancorarsi dall’estetica kantiana legata al bello come contemplazione, per divenire un’arte educativa e progressiva.[4] Non più “artificio dilettoso” ma “conforto”, “raggio di fiducia e di poesia”[5] per le “anime giovani”.[6]

La musica e la natura del tempo

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I soli paradisi autentici sono i paradisi che abbiamo perduto”

Marcel Proust [1]

Dissertare sulla natura del tempo e del suo scorrere ha senso nella società in cui viviamo, votata all’accelerazione e alla velocità più sfrenata, in cui più mostri di essere rapido – anche se impreciso o approssimativo – e più appari competente e in controllo?

Eppure, una riflessione sul concetto di tempo si rivela utile oggigiorno proprio perché in grado di stimolare il pensiero su altre questioni salienti: la nostra capacità di vivere il momento presente, di godere dell’attimo fuggevole; l’effettiva abilità di lasciarsi andare al flow dell’esperienza; il nostro rapporto con il passato e con i nostri ricordi – che sono il fondamento della nostra identità -; il nostro continuo immaginare un futuro che è formato di aspettative e molto altro ancora. Non possiamo esimerci da un confronto con il concetto di tempo, poiché il tempo, “è il cuore della vita […] Non è sufficiente che [lo] comprendiamo in modo appropriato dobbiamo imparare a viverlo; ogni altra cosa ruota su di esso.”[2] Ma il tempo, questo apriori della sensibilità, per dirla con Kant, così ineffabile e inafferrabile, può essere “immaginato” e pensato secondo diversi poli e assumendo differenti prospettive: omogeneità/eterogeneità; atomismo/flusso; reversibilità/irreversibilità (Kern, 1995), tutti punti di vista capaci di mettere in luce qualcosa di diverso rispetto al fenomeno stesso. Forse dovremmo parlare di “tempi” piuttosto che di “tempo” al singolare.

La tecnica dodecafonica e la querelle sul “Doctor Faustus” di Thomas Mann

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Arnold Schönberg parla del lungo percorso musicale che lo ha portato a quella che lui chiama la “scoperta” della dodecafonia in una conferenza del 1941 da lui tenuta all’Università della California, poi rivista e pubblicata nel 1950 nella raccolta di saggi Style and Idea. La dodecafonia, spiega, non è un “sistema della scala cromatica”, ma un vero e proprio metodo. Sono stati necessari ben dodici anni di tentativi per riuscire nella titanica impresa di creare un nuovo modo di comporre, in grado di sostituire quelle “articolazioni strutturali” che prima venivano garantite dal sistema tonale. Schönberg chiama questo nuovo metodo da lui ideato metodo di composizione con dodici note poste in relazione soltanto l’una con l’altra. La caratteristica principale di questo nuovo – e complesso – modo di comporre musica è quella di utilizzare soltanto una serie di dodici note diverse per ogni composizione: nessuna nota può essere ripetuta nella serie e questa deve obbligatoriamente utilizzare tutte le dodici note della scala cromatica in un ordine diverso rispetto a quello in cui si presentano nella scala. Come spiega Eimert nel suo Manuale di tecnica dodecafonica, “la musica dodecafonica esiste soltanto come sistema di rapporti tra le dodici note […] la più piccola unità di questa musica è la configurazione delle dodici note…”[1]: se la più piccola unità del sistema tonale è la singola nota, nel metodo dodecafonico, invece, essa diventa la serie.

La musica e il rapporto con il testo in Schönberg

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Nel 1911 Schönberg entra in contatto con il pittore espressionista Wassili Kandinsky che, dopo aver ascoltato alcune composizioni del musicista viennese a Monaco, era rimasto così entusiasticamente colpito dalla sua musica, innovativa e dissacrante, da inviargli una lettera di ammirazione, in cui sottolineava anche quante affinità ci fossero tra il suo modo di fare musica e lo stile pittorico di Kandinsky stesso. Nacque, dunque, tra i due innovativi artisti un’amicizia che ebbe lunga durata e che stimolò più di una proficua collaborazione, la più importante delle quali è forse quella legata al volume Der blaue reiter, curato da Kandinsky stesso e dal collega pittore F. Marc, vero e proprio manifesto teorico dell’espressionismo nelle arti figurative. A questo volume Schönberg contribuisce, sollecitato dai due curatori, con due autoritratti (in quegli anni Schönberg si diletta, infatti, anche di pittura, e dipinge quadri piuttosto originali), con il facsimile della sua composizione Hergewächse op. 20, ma soprattutto con un breve scritto di teoria musicale, che si rivela da subito molto importante: Il rapporto con il testo.

La crisi dei linguaggi artistici

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La Vienna di fine Ottocento – inizio Novecento, definita anche come la Città dei Sogni, può essere considerata la città – simbolo di un periodo storico che si delinea inquieto e sull’orlo di grandi cambiamenti; non è un caso che Karl Kraus nel 1914 la descriva acutamente come “il terreno di prova per la distruzione del mondo”[1]. La società tardo-asburgica e Vienna in particolare, rispecchiano bene, infatti, la crisi di “una società in cui tutti gli strumenti, o i mezzi di espressione – dal linguaggio dei politici ai principi del disegno architettonico – avevano apparentemente perso contatto con i loro “messaggi” prestabiliti, ed erano stati privati di ogni capacità di svolgere le loro funzioni peculiari.”[2] La nuova cultura che si sta sviluppando è, quindi, quella del “…“modernismo” dell’inizio del secolo XX espresso da uomini come Sigmund Freud […], Adolf Loos, Oskar Kokoschka e Ernst Mach.”[3]

La poetica della musica di Igor Stravinskij

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Stravinskij è stato spesso accusato di eclettismo dalla critica musicale per la sua inclinazione a riutilizzare e a fare propri in maniera originale i materiali sonori più disparati. Quello che non tutti i suoi detrattori tengono presente è che Stravinskij si considerava un artigiano della musica più che un artista; si riteneva simile all’artigiano medievale «il quale opera, ordina, fabbrica con i materiali a sua disposizione, tutto preso dal fascino del materiale sonoro che può maneggiare a suo piacere, non strumentalmente ma come fine a se stesso.»[1] La musica per Stravinskij nasce come ordine dal caos quando il compositore riesce a organizzare gli elementi sonori in un insieme dotato di significato, infatti, le sonorità elementari e i materiali grezzi non sono ancora musica nel senso proprio del termine, anche quando risultano piacevoli all’orecchio (pensiamo, per esempio, al canto di un uccello o al mormorio dell’acqua che scorre).