
Il palco è a noi trionfo, e l’ascendiam ridenti: ma il sangue dei valenti perduto non sarà. Verran seguaci a noi i martiri e gli eroi: e s’anche avverso ed empio il fato a lor sarà, lasciamo ancor l’esempio com’a morir si va[1]
Il Risorgimento in Italia è un’epoca febbrile, segnata da fermenti politici, moti insurrezionali e crisi di identità personali e sociali, ma è anche un periodo di ricerca di nuove forme di libertà, di ideali e del risveglio, soprattutto tra gli intellettuali e gli artisti, di una coscienza nazionale. Anche la musica, come arte capace di veicolare ed esprimere tutta la gamma delle emozioni dell’animo umano, può farsi specchio dell’inquietudine collettiva e partecipare del vivace fermento che caratterizza questo periodo. Ma se sarà Giuseppe Verdi a realizzare in Italia la “nuova funzione sociale dell’arte come proiezione di ideali morali, civili e patriottici”[2] (impossibile non andare con il pensiero a quel famoso “Viva Verdi” che è suggestivo acrostico di “Viva Vittorio Emanuele Re d’Italia”) è comunque in questa cornice inquieta e incerta che si inserisce anche la figura di Gaetano Donizetti (1797–1848), compositore bergamasco tra i più fecondi del melodramma romantico italiano, per il quale la musica non è più, come per la precedente generazione di musicisti, semplice ornamento dell’esistenza. La vita di Donizetti, infatti, attraversa i fremiti di un’Italia frammentata, politicamente ancora dominata da potenze straniere, culturalmente viva ma scissa, lacerata tra l’anelito al nuovo e l’attaccamento alla tradizione; e, in qualche modo, la riflette. La generazione di Donizetti attraversa, quindi, come ben scrive Rostagno (2011), un periodo di grande disorientamento “che corrisponde agli anni delle cospirazioni fallite, dei tentativi insurrezionali, delle aspirazioni represse”[3]. Donizetti, pur non essendo un militante politico, riesce comunque a dar voce, nelle sue opere, seppur spesso inconsapevolmente, a un immaginario in cui eroismo, sacrificio e alienazione si fondono in un linguaggio musicale capace di parlare all’animo di un pubblico che anche nel melodramma va cercando ormai qualcosa di più di un raffinato intrattenimento. È la musica, adesso, che deve disancorarsi dall’estetica kantiana legata al bello come contemplazione, per divenire un’arte educativa e progressiva.[4] Non più “artificio dilettoso” ma “conforto”, “raggio di fiducia e di poesia”[5] per le “anime giovani”.[6]
Opere come Lucia di Lammermoor mettono in scena il dramma dell’individuo schiacciato dal potere e dalle convenzioni, in una spasmodica tensione che richiama le antiche tragedie greche, ma che anticipa il ben più moderno conflitto esistenziale. La protagonista Lucia, infatti, folle d’amore e vittima di una logica sociale che annienta il desiderio, non è più soltanto un personaggio lirico: diventa l’archetipo della soggettività negata, l’emblema di un’umanità che anela alla liberazione. Nello stesso tempo, l’opera comica L’elisir d’amore, pur nella sua leggerezza, gioca con l’illusione, con la fede ingenua nelle soluzioni magiche: una metafora, forse, della condizione umana, sempre sospesa tra la speranza propria degli anni giovanili e il disincanto dell’età matura.
In un’Italia preunitaria in cui il teatro d’opera è uno dei pochi luoghi di espressione pubblica e di aggregazione – insieme ai café -, la musica di Donizetti assume, quindi, valenze politiche indirette: i suoi personaggi in lotta, i suoi finali tragici e drammatici, le sue ambientazioni in terre lontane ma che risuonano e accomunano nella sofferenza, parlano direttamente allo spirito del suo pubblico, sempre più impregnato dei concetti di Nazione, giustizia e destino.
Quella in cui vive Donizetti è un’epoca “di mezzo e di incertezze”[7], ma, nelle parole di Mazzini, la musica non può più segregarsi “dal viver civile”[8], deve diventare educatrice, perché essa è la “sola favella comune a tutte nazioni, unica che trasmetta esplicito un presentimento d’umanità”[9], possiede, infatti, un linguaggio che è comune a tutta l’umanità, quindi, è da tutti comprensibile. Insomma, la musica deve diventare araldo di impegno civile. La musica deve diventare “europea” e può farlo attraverso le forme espressive che le sono proprie: la melodia, che rappresenta l’individualità e l’armonia, che rappresenta, invece, il “pensiero sociale”.[10] Per Mazzini, il fondatore di una “scuola Italo-europea”[11] rigeneratrice può essere soltanto Donizetti, perché innovativo e non semplice imitatore dei grandi del passato. Il melodramma, per Mazzini, come ben sottolinea Rostagno[12], è l’espressione musicale che meglio s’attaglia al periodo febbrile del primo trentennio dell’Ottocento. Soprattutto il Marin Faliero di Donizetti, rappresentato per la prima volta il 12 marzo 1835 in una Parigi piena di esuli italiani, lo entusiasma, perché egli ritrova al suo interno “tutti gli elementi della sintassi risorgimentale”[13]: il contrasto fra la classe popolare e quella aristocratica ormai corrotta che, però, detiene ancora il potere, “la congiura come strumento giustificato politicamente”[14], il traditore e l’eroe che risponde ai propri ideali e valori.
Donizetti morì nel 1848, proprio nell’anno dei moti europei, segnato nel fisico e nella mente da un serio disturbo psichiatrico: si può interpretare la sua morte come un epilogo simbolico per un artista che, senza proclami né manifesti, ha contribuito, quasi suo malgrado (negli anni Quaranta aveva espresso la sua ammirazione verso la figura di Metternich[15]) a forgiare l’immaginario romantico e patriottico della generazione che sarebbe venuta dopo.
La sua musica continua ancora oggi a interrogarci non soltanto a livello estetico, ma stimolando anche la riflessione: che cosa significa essere liberi nella nostra epoca postmoderna? Quali valori possono essere individuati nella nostra società, per i quali valga la pena battersi? Qual è il ruolo della musica oggi?
Riferimenti bibliografici:
Mazzini, G., Filosofia della Musica, in G. Mazzini, Scritti letterari [prefazione di Enrico Nencioni], Milano: Bietti, 1933,
http://piranesi150.altervista.org/alterpages/files/mazzini_filosofia_della_musica.pdf
Rostagno, A., Gaetano Donizetti, in B. Alfonzetti & S. Tatti (a cura di), Vite per l’Unità, Roma: Donzelli editore, 2011.
[1] Bidera G.E., Marin Faliero, libretto su musiche di Gaetano Donizetti, http://www.librettidopera.it/. (conversione a cura di Dario Zanotti).
[2] Rostagno, A., Gaetano Donizetti, in B. Alfonzetti & S. Tatti (a cura di), Vite per l’Unità, Roma: Donzelli editore, 2011, p. 51.
[3] Ibidem.
[4] Mazzini, G., Filosofia della Musica, in G. Mazzini, Scritti letterari [prefazione di Enrico Nencioni], Milano: Bietti, 1933, http://piranesi150.altervista.org/alterpages/files/mazzini_filosofia_della_musica.pdf.
[5] Ivi, p. 6.
[6] Ibidem.
[7] Rostagno, op. cit.
[8] Mazzini, op. cit.
[9] Ivi, p. 16.
[10] Ivi, p. 22.
[11] Ivi, p. 46.
[12] Rostagno, op. cit.
[13] Rostagno, op. cit., p. 55.
[14] Ivi, p. 56.
[15] Ivi.



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