
1. Introduzione: il negativo come condizione del pensiero
In questo scenario, filosofia e psicoanalisi si incontrano: entrambe sono chiamate a pensare l’impensabile, a trattenersi presso il negativo senza cedere alla tentazione del senso immediato. Il pensiero, in quanto tale, si origina sempre da una frattura: «Pensare è sempre pensare contro se stessi», scriveva Adorno, rifiutando ogni riconciliazione prematura (Adorno, 1966)[5]. È su questa frattura che questo saggio intende soffermarsi, per pensare il trauma non come un limite, ma come una soglia: il luogo stesso in cui si apre la possibilità della trasformazione.
La difficoltà a simbolizzare l’esperienza traumatica ha prodotto un incremento di fenomeni regressivi: violenza, panico morale, negazione, agiti collettivi. Tali manifestazioni possono essere comprese come “deiezioni psichiche”, secondo la felice espressione coniata da Federica Mazzocchini, ossia come espulsioni dell’indicibile che il soggetto non riesce a elaborare mentalmente. Come nota Julia Kristeva, «ciò che viene rigettato non per questo scompare. L’abietto è ciò che inquieta un’identità» (Kristeva, 1980)[4].
La pandemia globale da Covid-19 ha rappresentato un evento dirompente, capace di infrangere le coordinate stabili della vita sociale e psichica. In termini heideggeriani, essa ha dischiuso un ‘evento di verità’ (Ereignis), forzando il soggetto a confrontarsi con l’abisso del proprio esserci, con la propria finitezza, con il limite che il pensiero moderno aveva spesso rimosso a favore di una fiducia quasi cieca nella tecnica e nel progresso (Heidegger, 1927)[3].
Il contributo della psicoanalisi freudiana si rivela in questa prospettiva prezioso: il trauma non è l’evento in sé, ma la sua risonanza ritardata, il suo ritorno come eccesso da significare. Come scrive Freud, «non è tanto il fatto oggettivo a rendere traumatico un evento, quanto il modo in cui esso viene registrato e successivamente riattivato» (Freud, 1895)[2]. Questo fenomeno, denominato ‘après-coup’ o Nachträglichkeit, trova una risonanza filosofica nella logica della retroattività che informa anche la temporalità dialettica.
In questo senso, è possibile rintracciare una profonda analogia con la dialettica hegeliana, la quale fonda la possibilità del sapere sull’esperienza del negativo. Per Hegel, «la verità non è una moneta coniata che si possa consegnare bella e fatta», ma è il risultato di un processo in cui il soggetto deve attraversare l’alterità e la contraddizione per giungere a un’autocomprensione più alta (Hegel, 1807)[1]. Il negativo, dunque, non è una semplice negazione ma un momento costitutivo del divenire del pensiero.
«Quando l’emozione non può essere pensata, viene evacuata» scrive Wilfred Bion, indicando un punto di frizione tra affetto e rappresentazione. Questa affermazione ci introduce al cuore del problema che questo saggio intende affrontare: la modalità con cui la psiche, individuale e collettiva, gestisce l’eccedenza affettiva e cognitiva generata da eventi traumatici. Il trauma, in quanto eccesso di realtà non simbolizzabile, rappresenta un elemento disgregante ma al contempo generativo del pensiero. Esso si configura come ciò che non può essere integrato nel flusso del discorso ordinario, e proprio per questo rende necessaria una riformulazione simbolica e concettuale dell’esperienza.
2. Trauma e spirito assoluto: ritorni e negazioni
La dialettica hegeliana mostra che il sapere non è mai dato immediatamente, ma è il risultato di un processo storico, travagliato e contraddittorio. Il trauma può essere letto in questa cornice come una figura del negativo, un evento che infrange la coerenza del vissuto e costringe il soggetto a una rielaborazione retroattiva della propria esperienza. Come afferma Freud, il trauma non è tanto ciò che accade quanto ciò che ritorna, in un secondo tempo, a investire la psiche con la forza del rimosso: è la “Nachträglichkeit”, o “après- coup”, che rende traumatica un’esperienza attraverso la sua risonanza postuma¹.
Questa logica temporale non lineare è strutturalmente analoga a quella che Hegel attribuisce al movimento dello Spirito: il passato non è mai semplicemente trascorso, ma viene costantemente riattivato nel presente, rielaborato alla luce del cammino della coscienza. Il sapere assoluto, nella Fenomenologia dello spirito, non è un punto d’arrivo pacificato, bensì il risultato del passaggio attraverso il negativo. La coscienza deve attraversare l’alienazione e il conflitto per riconoscersi nel tutto². Così, anche il trauma diventa occasione: la sua ripetizione nel tempo costringe a pensare ciò che era rimasto impensato.
In questo senso, la crisi psichica ha una valenza speculativa. Lacan, a partire da Freud, sostiene che il soggetto nasce da una mancanza costitutiva, da un vuoto attorno al quale si organizza il desiderio³. Il trauma espone il soggetto a questa mancanza radicale, facendo vacillare l’illusione di unità del sé. Il dolore, quindi, non è soltanto ciò da cui difendersi, ma anche ciò che può mettere in moto il lavoro del pensiero.
È quanto emerge anche in Adorno, per il quale l’esperienza della contraddizione non deve essere superata troppo in fretta: «La forza del pensiero sta nel resistere all’identità»⁴. La frattura, l’incongruenza, la non-coerenza diventano così risorse teoriche. Il trauma, allora, non è soltanto una ferita clinica, ma un’interruzione ontologica che apre lo spazio per una nuova configurazione del senso.
Note:
- Freud, S. (1895). Studi sull’isteria. In particolare il concetto di “Nachträglichkeit” (azione differita), ripreso anche in Al di là del principio di piacere (1920).
- Hegel, W.F. (1807). Fenomenologia dello Spirito, Laterza, passim.
- Lacan, (1973). Il seminario. Libro XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Einaudi.
- Adorno, W. (1966). Dialettica negativa, Einaudi, p. 151.
3. Deiezione psichica come sintomo sistemico
Nel contesto post-pandemico, la nozione di “deiezione psichica” – introdotta da Mazzocchini – permette di leggere la sofferenza emotiva non più come esclusivamente individuale, ma come espressione sintomatica di un disagio sistemico¹. In psicoanalisi, Bion ha descritto i contenuti psichici non elaborabili come “elementi beta”: esperienze grezze, impensabili, che non possono essere trasformate in pensiero e vengono quindi espulse sotto forma di agiti, sintomi o ideologie². Tali espulsioni non sono prive di senso: esse segnano il punto in cui il legame simbolico si spezza, in cui l’Altro fallisce nel suo ruolo di contenitore.
Sul piano filosofico, si può sostenere che la deiezione psichica funzioni come un sintomo sociale nel senso adorniano del termine: ciò che non funziona a livello sistemico riemerge nel soggetto come disturbo, frammento, disfunzione³. Il sintomo, come già suggeriva Lacan, non è un semplice errore da correggere, ma una verità che insiste, una lettera che ritorna dal reale⁴. In questo senso, il sintomo non solo appartiene al soggetto, ma lo oltrepassa: parla a nome del sistema, ne denuncia le contraddizioni, le esclusioni, i vuoti.
La pandemia ha reso visibile un’intera topografia dell’impensato collettivo: solitudini estreme, pulsioni di morte, infantilismi culturali, negazionismi, scissioni morali. In termini foucaultiani, si potrebbe dire che il potere ha operato non solo sul corpo, ma sulla psiche, generando dispositivi di soggettivazione ansiogeni, confusi, spesso autoimmuni⁵. In questo scenario, la deiezione psichica rappresenta la risposta soggettiva a una rottura epistemica più ampia: quella di un mondo che ha smesso di offrire narrazioni condivise.
È per questo che il sintomo va ascoltato non solo clinicamente, ma anche filosoficamente. Come sostiene Kristeva, l’abietto è ciò che non può essere integrato nel simbolico, ma al contempo ne costituisce la soglia costitutiva: ciò che espelliamo per mantenere un’identità stabile ritorna per destabilizzarla⁶. Il trauma diventa così un segno, un frammento di un discorso che esige di essere riscritto. E la deiezione, in questo quadro, si configura come un appello: non una fine, ma l’inizio possibile di una rielaborazione.
Note:
- Mazzocchini, F. (2025). Espellere l’indicibile. Deiezioni psichiche e trasformazioni emotive nell’era post-pandemica.
- Bion, R. (1962). Apprendere dall’esperienza, Armando Editore.
- Adorno, W. (1951). Minima Moralia, Einaudi.
- Lacan, (1975). Il seminario. Libro XX: Encore, Einaudi.
- Foucault, (1975). Sorvegliare e punire, Einaudi.
- Kristeva, (1980). Poteri dell’orrore, Spirali.
4. Scotomizzazione collettiva e rimozione dialettica
Il concetto di scotomizzazione collettiva descrive quel fenomeno psichico e sociale in cui intere porzioni di realtà vengono oscurate dalla coscienza condivisa: il dolore non trova parola, il lutto viene bypassato, il trauma viene rimosso non individualmente, ma a livello di massa¹. Non si tratta di una semplice dimenticanza, bensì di una strategia difensiva, analoga alla rimozione freudiana, che permette al sistema di funzionare evitando il confronto con la propria crisi strutturale².
Questa dinamica è particolarmente evidente nella gestione simbolica della pandemia: slogan come “torniamo alla normalità” hanno agito come anestetici culturali, rimuovendo la profondità dell’evento traumatico e ripristinando un ordine solo apparente. È ciò che Donatella Lisciotto ha definito “normalizzazione del vuoto”³: la sospensione affettiva sostituita da produttività forzata, il silenzio interiore riempito da rumore ideologico.
In termini filosofici, questa rimozione può essere letta come espressione della dialettica negativa. Adorno ci mette in guardia contro le forme di pensiero che cercano troppo in fretta di chiudere le ferite del reale: ogni sintesi prematura rischia di perpetuare l’ingiustizia da cui nasce⁴. La scotomizzazione è, in questo senso, un fallimento speculativo: ciò che è stato escluso dal discorso torna come distorsione, come patologia, come ripetizione traumatica.
Ma è proprio in questo ritorno che si apre una possibilità critica. Come sostiene Derrida, il rimosso non è semplicemente assente: è spettrale, agisce nel presente in forma dislocata, come fantasma che inquieta l’ordine simbolico⁵. La scotomizzazione non elimina il trauma, lo riconfigura altrove, lo riproduce sotto altre sembianze. È qui che filosofia e psicoanalisi si toccano ancora una volta: nel tentativo di dare parola a ciò che il discorso dominante tende a cancellare.
La rimozione dialettica, a differenza della scotomizzazione difensiva, implica invece un ritorno meditato: il negativo non viene espulso, ma rielaborato. In questo processo, il pensiero assume una postura radicalmente etica: accetta il rischio dell’inquietudine, la
presenza dell’Altro, la possibilità del conflitto. Il vero lavoro del lutto – individuale e collettivo – comincia solo quando si rinuncia alla rimozione e si sceglie di pensare il dolore.
Note:
- Mazzocchini, F. (2025). Espellere l’indicibile. Deiezioni psichiche e trasformazioni emotive nell’era post-pandemica.
- Freud, (1915). Rimozione, in Metapsicologia.
- Lisciotto, (2022). Soggetti smarriti, Mimesis.
- Adorno, W. (1966). Dialettica negativa, Einaudi.
- Derrida, (1993). Spettri di Marx, Cortina.
5. Funzione analitica come pensiero in attesa
In un’epoca dominata dalla velocità, dalla reattività e dalla compulsione alla chiarezza, la funzione analitica si distingue come un esercizio di sospensione. Non è soltanto un dispositivo clinico, ma una vera e propria postura del pensiero. Essa non mira all’immediata interpretazione, né alla rapida ricomposizione del senso: il suo compito è sostare nel vuoto, contenere l’indicibile senza forzarlo, creare lo spazio necessario perché il senso possa eventualmente emergere¹.
Come sottolinea Donald Meltzer, il pensiero autentico nasce nella capacità di tollerare l’opacità: solo chi può reggere la frustrazione del non-capito può generare trasformazione². In questo, la funzione analitica si avvicina alla “pazienza del concetto” hegeliana: il sapere non giunge come fulmine, ma attraverso il lavorìo del negativo, la mediazione delle contraddizioni. Il soggetto analitico – come lo spirito hegeliano – non conosce per intuizione, ma per attraversamento.
È proprio in questa dimensione di attesa che il pensiero può riattivarsi. Il trauma, infatti, non domanda spiegazioni precoci, ma un ascolto radicale. Come scrive Freud, ciò che è stato rimosso torna come sintomo perché non ha trovato un orecchio disposto ad accoglierlo³. L’après-coup – ossia la temporalità del trauma – richiede un interlocutore, un’alterità capace di fare da sponda senza saturare il campo semantico. Senza questo spazio di risonanza, l’evento traumatico si incista e si ripete.
Lacan chiama questo spazio “tempo per comprendere”: un tempo che non è cronologico ma logico, e che deve essere custodito contro le pressioni del godimento immediato⁴. La funzione analitica non produce senso; custodisce la sua possibilità. E in questo atto di cura si fa profondamente politica: è un gesto di resistenza alla logica prestazionale, alla medicalizzazione dell’esistenza, alla riduzione del dolore a patologia da gestire.
Pensare, in questa ottica, non è dominare l’oggetto ma restare con l’oscuro. L’analista – ma anche il filosofo – è colui che accetta di essere trasformato dall’ascolto, che si dispone alla passività attiva di chi sa che il pensiero nasce dopo. Dopo il silenzio, dopo la lacerazione, dopo la sospensione. Solo allora il trauma può trasformarsi in parola, e la parola in legame.
Note:
- Bion, R. (1962). Apprendere dall’esperienza, Armando Editore.
- Meltzer, (1983). Il processo psicoanalitico, Borla.
- Freud, (1915). Rimozione, in Metapsicologia.
- Lacan, J. (1964). Il tempo logico e l’asserzione di certezza anticipata, in Scritti,
6. Kairos e crisi: il tempo dell’apertura
Ogni crisi porta con sé una frattura nella linearità del tempo. La pandemia globale, così come altre forme di shock collettivo, ha prodotto un’interruzione dell’ordine cronologico, sospendendo l’illusione di un progresso continuo e controllabile. In questa sospensione emerge un altro tempo, qualitativo e critico: il Kairos, il tempo dell’occasione, della decisione, della trasformazione¹.
Nel pensiero greco antico, Kairos indicava il momento opportuno, il varco che si apre nel fluire ordinario degli eventi. Diversamente da Chronos – tempo quantitativo, misurabile – Kairos è tempo denso, carico di possibilità. In termini psicoanalitici, è il tempo dell’après- coup: il momento in cui il trauma ritorna e può finalmente essere significato, a condizione che il soggetto trovi un luogo psichico e relazionale per accoglierlo².
Heidegger ha tematizzato questo tempo come Ereignis – evento dell’Essere – che non si impone dall’esterno ma esige disponibilità a essere accolto³. Il pensiero, in questa prospettiva, è un lasciarsi accadere, un mettersi in ascolto di ciò che eccede la volontà. La crisi, allora, può essere abitata non solo come rovina, ma come grembo di possibilità: una soglia che apre al nuovo se il soggetto sa restare nel vuoto senza affrettare il riempimento.
In ambito clinico, questa soglia è rappresentata dalla capacità di tollerare l’incertezza: di non diagnosticare troppo in fretta, di non interpretare con ansia, di lasciare che il sintomo parli⁴. Il Kairos dell’analisi coincide con questo tempo di sospensione attiva, di pensiero in attesa, in cui la parola può emergere non come spiegazione, ma come trasformazione del silenzio.
Ma tale apertura richiede anche un contesto. Una comunità capace di reggere il trauma non è quella che rimuove la crisi, ma quella che sa sostarvi, costruendo spazi in cui il tempo dell’elaborazione non venga negato o accelerato. Il Kairos è dunque anche un tempo politico: domanda strutture che sappiano contenere, ascoltare, restare. Solo così il trauma può divenire evento di soggettivazione, non solo di frantumazione.
Note:
- Ricœur, (1983). Tempo e racconto. Vol. I: Configurazione del tempo nel racconto di finzione, Jaca Book.
- Freud, (1920). Al di là del principio di piacere.
- Heidegger, (1927). Essere e tempo, Longanesi.
- Ogden, H. (2005). Questo Articolo non ha un titolo. Riflessioni sulla psicoanalisi come forma d’arte, in «Psiche», 1.
7. Espressione infantile e simbolizzazione del trauma
In molti contesti clinici e scolastici, soprattutto nel periodo post-pandemico, il trauma infantile non si è manifestato attraverso il linguaggio verbale, ma tramite forme espressive indirette, prime fra tutte il disegno. Lungi dall’essere un semplice passatempo, il disegno infantile rappresenta uno spazio simbolico denso, in cui affetti, angosce e desideri trovano una via di accesso all’espressione. È una sorta di “scrittura primitiva” del mondo interno, una grammatica del dolore che precede e accompagna la parola¹.
Durante i lockdown, molti bambini hanno vissuto un’interruzione brutale delle consuete reti di sostegno: scuola, contatti amicali, rituali familiari. Il tempo si è contratto in una ripetizione senza eventi, e lo spazio domestico si è trasformato in contenitore angusto, a volte ansiogeno. In questi vuoti, il foglio ha funzionato come teatro interno, come scena in cui ciò che era troppo angosciante per essere detto poteva almeno essere tracciato.
In un disegno raccolto in ambito scolastico, una bambina di sette anni rappresenta una casa interamente sbarrata: le finestre sono crocifisse da travi nere, non c’è porta, non ci sono figure umane. Il cielo è grigio, un sole nero incombe su tutto. Alla domanda “chi vive lì?”, la risposta è: «nessuno vuole uscire. Se escono si rompono». L’immagine, di impatto quasi apocalittico, testimonia un’esperienza soggettiva di chiusura claustrofobica, ma anche la percezione di un mondo esterno devastante².
Un altro bambino, di nove anni, disegna se stesso due volte: una figura grande, quasi occupante tutto il foglio, con una bocca aperta e mani tese; accanto, una figura identica ma molto più piccola, chiusa in un cerchio rosso. Alla domanda su chi siano, risponde: «sono io prima e dopo. Prima potevo gridare. Poi non più». Qui il disegno diventa narrazione visuale dell’après-coup: una doppia temporalità del trauma, dove la soggettività si spezza tra ciò che era e ciò che è diventato³.
Come sottolinea Kaës, il disegno del bambino è sempre una “forma simbolica del legame”, in cui l’assenza dell’Altro, il ritiro, l’incomprensibilità del dolore trovano forma⁴. Il compito del clinico non è quello di interpretare in modo rigido, ma di restituire cornice, di sostenere l’espressione prima che la comprensione. Il disegno, così inteso, è anche una forma di resistenza simbolica: uno spazio in cui l’indicibile può essere ospitato senza venire subito domato.
In un tempo in cui l’ascolto autentico è spesso sacrificato alla prestazione e al controllo comportamentale, riconoscere nel disegno un atto di parola silenziosa significa restituire dignità all’esperienza psichica del bambino. Significa, anche, accogliere il trauma non solo come disfunzione da curare, ma come storia che chiede di essere narrata – anche, e soprattutto, senza parole.
Note:
- Cramer, (1999). Il disegno infantile: segni e simboli. Milano: Cortina.
- Vignetta clinica raccolta in contesto scolastico (modificata per motivi di privacy).
- Kaës, (2009). Il legame inconscio. Roma: Borla.
8. Conclusione: la soglia come figura del pensiero
Il trauma, nel suo emergere come interruzione e discontinuità, non rappresenta soltanto un evento clinico, ma anche una figura concettuale: un luogo del pensiero. In questo saggio abbiamo provato a leggere la frattura prodotta dal dolore – individuale e collettivo – non come una condizione da eludere o risolvere rapidamente, ma come soglia da abitare. La soglia è, per definizione, uno spazio ambiguo: non più da un lato, non ancora dall’altro. Eppure è proprio lì, in quella zona di passaggio, che si gioca la possibilità della trasformazione.
Nel tempo post-pandemico, segnato da ansie diffuse, scotomizzazioni sistemiche e crisi di senso, filosofia e psicoanalisi condividono un compito comune: sostenere l’apertura, accompagnare il pensiero nei luoghi dell’informe. La funzione analitica, come quella speculativa, non fornisce risposte immediate, ma esercita una presenza che permette al senso di accadere. Si tratta di un lavoro silenzioso, a volte invisibile, che tuttavia rappresenta una delle forme più profonde di cura.
Sulla soglia si sta senza garanzia. Non si sa se ci sarà passaggio, né quando. Ma si resta. È questa l’etica implicita che attraversa tanto l’ascolto clinico quanto il pensiero filosofico: un’etica della sospensione, del rispetto per ciò che non può ancora essere detto, della fiducia nel tempo del senso. Come ci insegna Adorno, il pensiero autentico nasce dalla capacità di restare accanto alla ferita, di non cedere alla tentazione della conciliazione prematura¹.
Restituire dignità all’indicibile significa questo: non forzarlo, ma ascoltarlo; non chiuderlo in una spiegazione, ma accompagnarlo nella sua trasformazione. È nella soglia che il soggetto può ricomporsi, non come identità unificata, ma come costellazione di esperienze narrate. È lì che il trauma può divenire parola, il sintomo legame, la crisi evento.
In un’epoca che tende a espellere ogni forma di negatività, abitare la soglia è un gesto controculturale. Ma anche, forse, l’unico realmente umano.
Nota:
- Adorno, T. W. (1966). Dialettica negativa. Torino: Einaudi.
Bibliografia
Adorno, T. W. (1951). Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa. Torino: Einaudi. Adorno, T. W. (1966). Dialettica negativa. Torino: Einaudi.
Bion, W. R. (1962). Apprendere dall’esperienza. Roma: Armando Editore.
Cramer, B. (1999). Il disegno infantile: segni e simboli. Milano: Raffaello Cortina Editore.
Derrida, J. (1993). Spettri di Marx. Lo stato del debito, il lavoro del lutto e la nuova Internazionale. Milano: Raffaello Cortina Editore.
Foucault, M. (1975). Sorvegliare e punire. Nascita della prigione. Torino: Einaudi.
Freud, S. (1895). Studi sull’isteria. In collaborazione con J. Breuer. Freud, S. (1915). Rimozione. In Metapsicologia. Freud, S. (1920). Al di là del principio di piacere.
Heidegger, M. (1927). Essere e tempo. Milano: Longanesi.
Hegel, G. W. F. (1807). Fenomenologia dello spirito. A cura di V. Cicero. Bari: Laterza. Kaës, R. (2009). Il legame inconscio. Roma: Borla.
Kristeva, J. (1980). Poteri dell’orrore. Saggio sull’abiezione. Milano: Spirali.
Lacan, J. (1964). Il tempo logico e l’asserzione di certezza anticipata. In Scritti. Torino: Einaudi.
Lacan, J. (1973). Il seminario. Libro XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Torino: Einaudi.
Lacan, J. (1975). Il seminario. Libro XX: Encore. Torino: Einaudi.
Lisciotto, D. (2022). Soggetti smarriti. Pandemia e spaesamento psichico. Milano: Mimesis.
Mazzocchini, F. (2025). Espellere l’indicibile. Deiezioni psichiche e trasformazioni emotive nell’era post-pandemica. Inedito.
Meltzer, D. (1983). Il processo psicoanalitico. Roma: Borla.
Ogden, T. H. (2005). Questo articolo non ha un titolo. Riflessioni sulla psicoanalisi come forma d’arte. In «Psiche», 1.
Ricœur, P. (1983). Tempo e racconto. Vol. I: Configurazione del tempo nel racconto di finzione. Milano: Jaca Book.



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