
1. Introduzione: il negativo come condizione del pensiero
In questo scenario, filosofia e psicoanalisi si incontrano: entrambe sono chiamate a pensare l’impensabile, a trattenersi presso il negativo senza cedere alla tentazione del senso immediato. Il pensiero, in quanto tale, si origina sempre da una frattura: «Pensare è sempre pensare contro se stessi», scriveva Adorno, rifiutando ogni riconciliazione prematura (Adorno, 1966)[5]. È su questa frattura che questo saggio intende soffermarsi, per pensare il trauma non come un limite, ma come una soglia: il luogo stesso in cui si apre la possibilità della trasformazione.
La difficoltà a simbolizzare l’esperienza traumatica ha prodotto un incremento di fenomeni regressivi: violenza, panico morale, negazione, agiti collettivi. Tali manifestazioni possono essere comprese come “deiezioni psichiche”, secondo la felice espressione coniata da Federica Mazzocchini, ossia come espulsioni dell’indicibile che il soggetto non riesce a elaborare mentalmente. Come nota Julia Kristeva, «ciò che viene rigettato non per questo scompare. L’abietto è ciò che inquieta un’identità» (Kristeva, 1980)[4].

