Scritto in onore del cinquantesimo anniversario del film “Fantozzi” (1975)

Abstract
Paolo Villaggio, attraverso la figura di Fantozzi, ha costruito uno dei più efficaci dispositivi filosofici della cultura italiana del secondo Novecento. Lontano dal filosofo accademico, Villaggio ha saputo parlare all’Italia e solo all’Italia, radicando la sua critica non nell’astrazione teorica, ma nell’esperienza vissuta, concreta, quotidiana. Fantozzi non è solo una caricatura comica: è un tipo umano, un “uomo senza qualità” capace di incarnare le contraddizioni e le miserie del piccolo borghese nella società industriale avanzata. Attraverso la satira e l’iperbole, Villaggio mette in scena la crisi dell’individuo, la mediocrità dei rapporti sociali, la vacuità delle istituzioni – azienda, famiglia, Stato, religione – svuotate di senso e trasformate in meccanismi di oppressione. La sua forza sta nel mostrare ciò che la filosofia spesso astrae: l’uomo umiliato, silenzioso, ridicolo, che tuttavia continua a vivere, ad amare, a esistere. Fantozzi è il simbolo dell’alienazione moderna, ma anche della resistenza minima e quotidiana. È un antieroe che non si ribella per sé, ma che trova il coraggio di farlo quando guarda negli occhi chi lo ama. Villaggio agisce sul linguaggio, sulle immagini e sulle situazioni per scardinare le narrazioni dominanti. Il lessico assurdo, le situazioni iperrealistiche, la comicità grottesca sono strumenti per restituire dignità al dolore comune. In questo, Fantozzi è filosofia incarnata: non sistema, ma esperienza. Una riflessione sull’uomo in quanto tale, più antropologica che politica, dove il riso è l’unica forma di catarsi possibile. A distanza di decenni, Fantozzi continua a parlare perché è ancora vero. Perché nella sua goffaggine, nella sua solitudine, nella sua tenacia, c’è l’eco di qualcosa che riguarda tutti noi. Villaggio ha mostrato che anche l’umiliazione, se raccontata con onestà, può diventare un gesto di pensiero.
Il presente scritto sceglie consapevolmente di non approfondire una parte significativa della produzione artistica di Paolo Villaggio — in particolare figure come Fracchia o il Professor Kranz — poiché si ritiene che il compimento più denso, tanto sul piano comico quanto su quello filosofico, dell’opera letteraria, cinematografica e cabarettistica dell’autore si realizzi nel personaggio di Fantozzi.
Questo lavoro raccoglie riflessioni che mirano a collocare Fantozzi entro un preciso orizzonte culturale, proponendolo come un autentico dispositivo filosofico. Attraverso di esso, Villaggio può essere a buon diritto incluso tra quei pensatori della seconda metà del Novecento che hanno contribuito in modo originale alla comprensione delle contraddizioni e delle tensioni della condizione postmoderna.
Quest’ultima, nella sua accezione più ampia, include una serie di riflessioni sociali, psicologiche e ideologiche: il trionfo del capitalismo, la fine delle grandi narrazioni, la burocratizzazione del lavoro e il progressivo sgretolarsi delle strutture solide della società, a favore di una realtà “liquida”.
Villaggio, attraverso la maschera grottesca e tragicamente comica di Fantozzi, ha dato vita a un meccanismo critico di rara efficacia, il cui impatto sulla cultura italiana resta, ancora oggi, senza eguali.
Per questo, il contributo filosofico di Paolo Villaggio nel panorama culturale italiano merita oggi un riconoscimento più attento e profondo. A differenza dei grandi pensatori della seconda metà del Novecento, Villaggio ha saputo costruire una sintesi originale e potente tra letteratura, cinema e critica filosofica della società dei consumi. Questa operazione, mai tentata con tale efficacia prima d’ora, si distingue non solo per il suo carattere innovativo, ma per la sua radicale aderenza al contesto italiano.
Villaggio, a differenza dei filosofi accademici che spesso ambiscono a parlare per “l’Occidente” o per l’umanità intera, ha scelto consapevolmente di rivolgersi solo e soltanto all’Italia. È in questa scelta che risiede la chiave del suo impatto: una filosofia implicita, radicata in una conoscenza concreta, emotiva e viscerale dello spirito nazionale. Secondo questa prospettiva, non può esistere una riflessione morale autentica che prescinda dalla specificità storica e culturale di un popolo. L’analisi villaggiana della società dei consumi, dell’“ultimo uomo”, della cultura di massa, dei nuovi media e del capitalismo si sviluppa in un momento storico in cui le differenze tra le nazioni europee – in particolare tra l’Italia, la Francia e la Germania – cominciavano ad assottigliarsi sotto il peso della globalizzazione. In questo scenario, la filosofia contemporanea è forse la vittima più evidente: la sua insistenza sulla decostruzione e sulla critica sistematica ha trascurato il fatto che ogni società ha reagito in modo diverso ai cambiamenti epocali degli ultimi decenni. Villaggio ci ricorda, implicitamente ma con forza, che la filosofia – soprattutto quella morale – non può essere universalizzata senza perdere aderenza alla realtà. Serve un pensiero capace di restare radicato nella storia concreta di un popolo, se vuole davvero incidere sul presente.
Paolo Villaggio è stato un uomo di vasta cultura, capace di realizzare nella sua opera ciò che molti filosofi hanno soltanto teorizzato. A partire dalla creazione di personaggi come Fantozzi, Villaggio ha costruito una forma di pensiero comico e popolare che mette in crisi le fondamenta simboliche della società italiana del secondo Novecento. La sua forza non risiede in una sistematicità concettuale, ma nella capacità di incarnare – attraverso la satira, il linguaggio e la narrazione – istanze profonde della filosofia contemporanea. In particolare, la sua opera può essere letta in chiave rortyana, come una forma implicita ma coerente di ironia, contingenza e solidarietà.
La scelta di Richard Rorty come possibile chiave interpretativa dell’opera di Paolo Villaggio nasce dalla consapevolezza che, pur essendo spesso criticato per una certa contraddittorietà interna al suo pensiero — riconducibile in parte alla sua formazione analitica, mai del tutto rinnegata — Rorty rappresenta una delle rare figure filosofiche ad aver maturato una conoscenza profonda e articolata della letteratura mondiale: dalla narrativa russa a quella europea e americana. Una passione che Villaggio condivideva pienamente, e rispetto alla quale poteva egli stesso essere considerato un lettore colto e competente.
La filosofia di Rorty è profondamente attraversata dall’idea che la letteratura, con i suoi strumenti ironici, comici e drammatici, sia spesso un veicolo più efficace della filosofia accademica per l’analisi della realtà. Essa ha inoltre il pregio di facilitare la comprensione tra individui e culture, aprendo spazi concreti alla possibilità di risolvere conflitti sociali, lenire sofferenze, costruire orizzonti comuni.
È in questa visione che si coglie una profonda consonanza tra Rorty e Villaggio: entrambi sembrano muoversi nell’idea che l’ironia e la narrazione, anche nella forma della comicità più aspra, possano essere strumenti autenticamente filosofici. Tuttavia, data l’assenza di scritti esplicitamente teorici da parte di Villaggio, un confronto sistematico tra i due autori richiederà un approfondimento ulteriore, che sarà oggetto di un successivo contributo.
Per Richard Rorty, l’ironista è colui che vive nella consapevolezza della contingenza del proprio vocabolario, è disposto a mettere in discussione sé stesso e rifiuta ogni fondamento assoluto. In questo senso, Villaggio incarna una forma di ironia radicale, tanto più efficace quanto più travestita da comicità. Attraverso Fantozzi, Villaggio ridicolizza le istituzioni cardine della società italiana – il lavoro, la famiglia, la religione, la cultura aziendale – smontando dall’interno il linguaggio del potere, dell’efficienza e del decoro. Il suo sguardo è sempre esterno, marginale, straniante. Come l’ironia rortyana, non propone un nuovo sistema, ma destabilizza quelli esistenti, rivelandone l’arbitrarietà.
La filosofia di Rorty ruota attorno all’idea che nessuna descrizione del mondo sia definitiva: le identità sono costruzioni storiche, non essenze da svelare. Anche in questo, Villaggio si dimostra un pensatore della contingenza. Il “ragionier Fantozzi” non è un individuo autentico, ma una maschera, un prodotto tragicomico della modernità burocratica. La sua soggettività è plasmata dall’ufficio, dalla pubblicità, dalla televisione. Non c’è un “vero sé” da recuperare: c’è solo una serie di ruoli imposti, in cui l’individuo si muove con goffaggine e disperazione. Come Rorty, Villaggio rifiuta ogni nostalgia per l’autenticità: la filosofia, in questa chiave, non salva, ma smaschera. Infine, Villaggio mette in scena una forma particolare di solidarietà, simile a quella proposta da Rorty: non un’adesione a valori universali, ma una capacità di raccontare la sofferenza in modo tale da renderla condivisibile. Fantozzi, pur nella sua mediocrità grottesca, genera empatia. È l’antieroe che soffre per tutti, l’uomo qualunque travolto da una vita assurda, e proprio per questo riconoscibile. Villaggio non lo celebra, ma ne umanizza il fallimento: ci fa ridere, ma ci fa anche provare compassione. La sua comicità è uno strumento per creare una “solidarietà narrativa”, che unisce nella consapevolezza della fragilità umana.
Villaggio ha intuito, con straordinaria lucidità, che nell’Italia del dopoguerra non c’erano più eroi: l’“ultimo uomo”, come lo avrebbe definito Nietzsche, aveva vinto. Fantozzi non è migliore dei suoi superiori nobiliari e sadici: è anch’egli un perdente, represso, assuefatto al consumo, complice del sistema che lo opprime. Eppure, nel cuore di questo quadro desolante, Villaggio lascia spazio a brevi, struggenti momenti di giustizia. Quando Fantozzi torna a casa dalla moglie che ama, quando capisce che l’erba del vicino sarà sempre più verde, ma che la sua vita resta comunque degna: è lì che affiora una moralità minima, quotidiana, silenziosa. Non c’è ribellione eroica, ma una fragile dignità. È in quei gesti semplici che si intravede una possibile etica della sopravvivenza.
Villaggio, in diverse interviste, ha chiarito che il successo di Fantozzi dipese dalla coincidenza perfetta tra il personaggio e il momento storico in cui fu proposto. Questa osservazione rivela una consapevolezza tutt’altro che ingenua: Villaggio comprendeva pienamente che il mezzo comico possiede una potenza espressiva spesso superiore a quella della prosa filosofica. Laddove quest’ultima tende ad astrarre dal contesto, dal singolo e dalla contingenza storica, in favore di una visione universale o di un osservatore ideale, razionale e privo di pregiudizi, la comicità – come nel caso di Fantozzi – resta ancorata al concreto, al quotidiano, al locale. In un’altra affermazione cruciale, Villaggio definisce Fantozzi “la risposta italiana alla catastrofe hollywoodiana”.
In questa frase si condensa l’essenza del discorso che qui si vuole articolare: esiste una tradizione culturale, soprattutto filosofica e cinematografica, che trasforma l’analisi dei processi storici globali in narrazioni apocalittiche e universali. Dal marxismo alla teoria della fine della storia di Fukuyama, dalla critica della cultura della Scuola di Francoforte alle riflessioni di Jean Baudrillard, la tendenza è quella di rappresentare la crisi come collasso planetario, spesso con sensazioni quasi bibliche di distruzione e di salvezza. Fantozzi, invece, è tutt’altro. Non è un’astrazione, né un simbolo dell’umanità in generale. È un uomo, e soprattutto un italiano. Non affronta catastrofi globali, ma micro-disastri quotidiani: l’autobus perso, la riunione aziendale umiliante, la vacanza fallita, il desiderio frustrato. In questo senso, Fantozzi rappresenta una forma di “filosofia incarnata.
È una figura che non cerca salvezze universali, ma momenti minimi di sopravvivenza, resistenza o semplice umanità. Villaggio, scegliendo il linguaggio del comico e rifiutando il tono apocalittico, ci restituisce una forma di critica sociale più profonda proprio perché più umile. Non indica una via d’uscita teorica, non formula un’ideologia alternativa. Si limita a mostrare, con spietata precisione e tenerezza inattesa, la condizione dell’uomo comune. In questo senso, Fantozzi non è solo un’eccezione nel panorama culturale italiano: è la risposta più onesta e pertinente all’assurdità della modernità. Non la sfida, la abita. E ci invita a fare altrettanto.
Nel cinema hollywoodiano, che spesso riflette le strutture simboliche e filosofiche della cultura di massa, la catastrofe è quasi sempre esterna: alieni, mostri, disastri naturali, demoni o guerre globali minacciano l’umanità intera. Il pericolo viene da fuori, e la narrazione si costruisce attorno a un evento spettacolare che mette in discussione il destino collettivo del mondo. In Fantozzi, invece, la catastrofe è tutta interiore. Il cataclisma non si abbatte sull’umanità astratta, ma su un singolo individuo mediamente insignificante, e prende la forma del vissuto quotidiano: una riunione umiliante, una vacanza obbligata, una riunione di condominio che sfiora la tortura. Il vero disastro, in Villaggio, è quello esistenziale, intimo, psicologico. E proprio per questo più universale.
Il linguaggio iperbolico che caratterizza tutta la narrazione di Fantozzi – sia nei film che nei libri – non è gratuito. È lo strumento attraverso cui il dolore ordinario si esprime e si amplifica, diventando leggibile. È un codice espressivo che traduce la sofferenza individuale in gesto corale, in esperienza condivisa. Qui il comico non è evasione, ma denuncia. Non è leggerezza, ma deformazione necessaria per rendere visibile l’assurdo del reale. Nel teatro greco classico, la catarsi era la purificazione emotiva che avveniva nello spettatore attraverso la pietà (éleos) e il terrore (phóbos). Lo spettatore si riconosceva nelle sofferenze del protagonista tragico e, tramite l’identificazione, sperimentava una forma di liberazione simbolica. Fantozzi, pur rivestendo i tratti della figura comica, genera una forma di catarsi non dissimile: lo spettatore ride delle sue disgrazie, ma non lo disprezza. Al contrario, si identifica con la sua impotenza, con la sua sottomissione, con la sua sconfitta.
Come l’eroe tragico, Fantozzi è sempre perdente, ma non cede mai del tutto. Sopravvive, resiste, si rialza. E proprio in questa sopravvivenza minima si genera una forma di dignità. La risata che il pubblico condivide è, in fondo, un atto di liberazione dalle piccole frustrazioni della vita quotidiana, un’espressione ambivalente di derisione e compassione. In questo senso, Villaggio recupera il senso originario della catarsi, ma lo fa attraverso un linguaggio postmoderno: non si tratta di elevazione attraverso il sublime, ma di purificazione attraverso il riso. Non si raggiunge una verità superiore, ma si sopravvive alla verità del presente. Il legame con il teatro delle origini è più profondo di quanto possa sembrare. Il teatro arcaico greco non era solo rappresentazione, ma rito collettivo, momento comunitario in cui la polis si confrontava simbolicamente con il proprio destino. I drammi, spesso ambivalenti, univano tragedia e comicità. Allo stesso modo, il cinema di Villaggio possiede un carattere rituale e corale. Le scene ambientate nell’azienda, il cui nome richiama ad un agglomerato capitalistico totalizzate e mostruoso, con i colleghi che osservano, giudicano e commentano, ricordano il coro della tragedia greca.
L’universo fantozziano è governato da poteri impersonali e incomprensibili – come il Mega Direttore Galattico o le regole grottesche dell’ufficio – che evocano il senso di fatalità delle tragedie antiche. La comicità si alterna continuamente alla tragedia esistenziale, e la risata si fa grido muto, atto di resistenza a un destino assurdo. Come nel teatro greco, Fantozzi rappresenta l’uomo travolto da forze più grandi di lui, che non comprende ma che subisce, cercando di attribuire loro un senso tramite il racconto condiviso, il gesto comico, il rito collettivo della narrazione. In questo quadro, il cinema hollywoodiano appare come il perfetto antagonista. Lì domina la catastrofe spettacolare, il trionfo della tecnica, la glorificazione dell’eroe. La distruzione è grandiosa, l’individuo è o dannato o salvifico, ma mai mediocre. L’estetica punta all’eccesso visivo e narrativo, costruendo mitologie contemporanee in cui l’umano viene sublimato nella potenza. Fantozzi è esattamente il contrario: non ci sono esplosioni, effetti speciali, vendette epiche. Il suo universo è minimo, ciclico, grigio.
Ma proprio per questo è autentico. Villaggio non racconta l’eccezione, ma la regola. Mostra la miseria quotidiana, la solitudine domestica, la frustrazione silenziosa che accomuna milioni di individui. Dove Hollywood promette la catarsi spettacolare della salvezza o della distruzione, Fantozzi offre la catarsi del quotidiano. Ci dice che non siamo soli nella nostra mediocrità, e che ridere del nostro destino, per quanto misero e ripetitivo, è forse l’unica forma possibile di redenzione. Uno degli aspetti più rilevanti – e forse meno riconosciuti – della grandezza intellettuale di Paolo Villaggio è la sua costante riaffermazione della contingenza della propria opera. Villaggio ha sempre rifiutato l’etichetta di moralista o di autore “satirico” in senso tradizionale. In più occasioni ha dichiarato che il suo intento non era quello di formulare giudizi o condanne, ma semplicemente di descrivere un momento storico preciso, una condizione umana specifica. “Non è un giudizio,” affermava, “io non voglio fare satira negativa o distruttiva; dico solo che il momento è questo. Il momento è la nevrosi pura.” E ancora: “Forse la nostra cultura, la nostra filosofia occidentale ha mancato l’obiettivo. È il momento di tirare i remi in barca e fare il punto. Serenamente, senza fare prediche.” In questa dichiarazione, apparentemente disillusa, c’è il cuore di una riflessione filosofica radicale: Villaggio rifiuta l’universalismo pretenzioso di molta filosofia contemporanea, per affermare invece il primato dell’esperienza concreta, della vita, del “qui e ora”. Fantozzi non è un’allegoria dell’uomo in generale, ma l’immagine precisa dell’uomo italiano, in un dato tempo e in un dato spazio.
Villaggio parla all’italiano, e solo all’italiano. Non per calcolo commerciale, ma perché quella è la sua lingua, la sua realtà, il suo orizzonte. Solo da questa immersione totale in una condizione particolare può nascere un’opera filosofica capace, paradossalmente, di toccare l’universale. Perché è proprio nel radicamento nel reale che un messaggio può diventare davvero condivisibile. Nella filosofia implicita che attraversa la figura di Fantozzi, la vita ha il primato assoluto. Fantozzi non crede in nulla, non spera in nulla, eppure non rinuncia mai a vivere. Villaggio lo descrive così: “Fantozzi rinuncia a tutto, non a una cosa sola, ma a vivere… non è tonto. Lucidamente sa che ogni suo tentativo finirà in una catastrofe. Però comunque continuerà a correre di catastrofe in catastrofe, perché non ha altra scelta. Vivere in una società invisibile.” È un ritratto potente della condizione contemporanea: l’individuo che, pur consapevole dell’assurdità del suo destino, continua a muoversi, a ripetere, a sopravvivere.
Villaggio ha anche osservato con lucidità che l’italiano medio non ha, culturalmente, un autentico senso dell’umorismo, e soprattutto non tollera facilmente la satira. L’italiano non accetta volentieri di essere messo di fronte al proprio fallimento, alla propria infelicità, alla bruttezza della propria vita ordinaria. A nessuno piace sentirsi dire che è infelice, fallito, che la moglie è brutta; a nessuno piacciono le riunioni di condominio. Eppure, è proprio parlando a quel “popolo”, rinunciando alla pretesa di universalità filosofica, che Villaggio riesce a trasmettere un messaggio profondamente universale: la sofferenza non è eroica, è banale. E la satira non è un lusso di chi sta fuori, ma riguarda tutti. È per questo che Villaggio sceglie l’iperbole come linguaggio espressivo privilegiato. L’iperbole non è solo uno strumento comico: è una forma di verità alternativa. Permette all’individuo di evadere dal reale, di renderlo più teatrale, quindi più tollerabile; consente di drammatizzare il quotidiano, dando senso a esperienze altrimenti insignificanti; offre un’espressione più intensa del sé, anche deformata, ma autentica nella sua urgenza. I “3000 gradi Fahrenheit” dei pomodorini alla cena aziendale, il cane da guardia, “discendente diretto di Ivan il Terribile”, i “90 gradi all’ombra” sono immagini che esasperano la realtà fino a renderla condivisibile. In questo eccesso, Villaggio trova la misura giusta per raccontare l’uomo contemporaneo. E tuttavia, come ha notato lui stesso, nessuno si è mai identificato fino in fondo con Fantozzi. “Tutti mi dicono che Fantozzi è il mio amico di sinistra, il vicino di pianerottolo, mio cognato, mio zio. Ma nessuno mi ha mai detto: Fantozzi sono io.” È forse questa la rivelazione più amara: il rifiuto collettivo dell’identificazione con il fallimento, con la mediocrità, con l’infelicità quotidiana. Eppure, conclude Villaggio, “in questo momento, tutti siamo coinvolti in questa orrenda avventura.” In Fantozzi, dunque, non c’è solo comicità, né solo satira. C’è una filosofia della contingenza, una fenomenologia della mediocrità, una politica del quotidiano. È il ritratto di un’Italia che non vuole guardarsi allo specchio, ma che proprio attraverso la deformazione iperbolica trova un modo per riconoscersi.
Come accennato sopra, Paolo Villaggio non era soltanto un comico, uno scrittore o un attore: era un intellettuale capace di riconoscere nel racconto la forma più autentica di riflessione sul reale. Amava Kafka, Bulgakov, Hemingway — autori che, ciascuno a modo proprio, hanno saputo raccontare il mondo non fuggendo dalla realtà, ma rendendola più reale, più visibile, più inquietante. A differenza di molta filosofia accademica, questi scrittori non si rifugiavano nell’astrazione, ma concentravano il loro sguardo sul vissuto individuale, sulle piccole storture della quotidianità, su ciò che normalmente si tende a rimuovere nella smania di sopravvivere all’infelicità, alla noia o a un regime. Non è un caso che Villaggio abbia indicato in Robert Musil la chiave per comprendere l’uomo della sua epoca.
Secondo lui, solo Musil — e non i filosofi “ufficiali” — aveva saputo cogliere fino in fondo la natura frammentaria, incerta e tragicomica dell’esistenza moderna. Il grande contributo di Musil alla filosofia sta infatti proprio nella capacità di articolare, attraverso il romanzo, una riflessione originale sulla crisi della razionalità, sulla disgregazione dei saperi, sull’impossibilità di fondare un’etica stabile in un mondo privo di certezze ultime. L’uomo senza qualità, capolavoro incompiuto, è molto più di un romanzo: è un vero “romanzo-saggio”, un laboratorio speculativo che unisce analisi sociale, diagnosi psicologica, tensione etica e disincanto epistemologico. In ambito etico, Musil affronta con lucidità la crisi dei valori oggettivi. L’etica non può più fondarsi su Dio, sulla ragione o sulla natura: ciò che rimane è un’etica del provvisorio, del tentativo, dell’ironia. È un’etica che non offre risposte definitive, ma che mantiene aperta la domanda, la tensione tra ciò che è e ciò che potrebbe essere. Questo atteggiamento — profondamente sperimentale — lo avvicina a Nietzsche, ma anche a Wittgenstein, per il quale il compito del pensiero non è affermare verità assolute, ma chiarire, mostrare, rendere il mondo meno oscuro.
Villaggio riconosce tutto questo. Lo riconosce istintivamente, senza sentirsi parte della tradizione filosofica, ma contribuendo ad essa con un gesto comico e narrativo che è profondamente speculativo. In Fantozzi, come in Musil, l’uomo moderno è un essere “senza qualità”: non perché privo di identità, ma perché l’identità stessa è diventata fluida, instabile, indefinibile. L’individuo non è più centro dell’universo, né portatore di un destino chiaro. È un essere reversibile, ironico, continuamente ricostruito dal contesto. È la vittima consapevole di una società invisibile, governata da logiche impersonali, dove il fallimento è la norma e l’eroismo un’illusione pubblicitaria. Villaggio, come Musil, non cerca soluzioni: descrive. Non teorizza astrattamente: mostra. E in questo gesto di rappresentazione spietata ma umana, raggiunge una forma di verità che la filosofia, da sola, spesso non riesce più a toccare. La grandezza di entrambi sta nell’aver saputo fare della letteratura — comica, tragica, grottesca o filosofica che sia — un luogo di pensiero vivo, capace di restituirci, senza filtri, l’enigma dell’uomo moderno.
Dopo diversi anni dal successo dei film di Fantozzi, guardando le interviste di Villaggio nella sua vecchiaia, ci colpisce il suo sguardo. È lo sguardo di un uomo che ha toccato il fondo della condizione umana, che ha saputo far ridere milioni di persone, ma che ha pagato un prezzo personale altissimo per aver restituito, con spietata precisione, la verità di un’epoca. In quegli occhi si legge la malinconia di chi non è fuggito nell’astrazione, come talvolta fanno i filosofi “universali” o le “anime belle”, ma ha scelto di sporcarsi le mani con il fango del reale. Come i grandi della letteratura e i pensatori che non si sono accontentati di pensare il mondo da lontano, Villaggio ha abitato quella realtà fino in fondo, e ne ha subito le conseguenze interiori. Dopo il successo di Fantozzi, quella che era stata una caricatura grottesca è diventata, per certi versi, profezia avverata. Villaggio si è trovato costretto a convivere con la lucidità del suo stesso sguardo, con l’evidenza di un mondo che lui aveva contribuito a rendere manifesto. La comicità si è fatta peso, e il suo pensiero si è tinto di una tristezza che non è solo biografica, ma anche esistenziale e filosofica. Emblematico, in questo senso, è il modo in cui affronta in un’intervista il tema della tossicodipendenza del figlio. Quando chiede all’intervistatore di non usare il termine “droga” o “drogato”, ma “problemi di tossicodipendenza” e “tossicodipendente”, Villaggio non sta facendo una semplice correzione linguistica. Sta affermando una visione del linguaggio come responsabilità, come luogo in cui si gioca la nostra capacità di vedere l’altro non come un’etichetta, ma come una persona. E quando racconta la risposta di un direttore di giornale – “non possiamo scrivere tossicodipendente, è troppo lungo” – Villaggio risponde con una lucidità tagliente: “Omosessuale lo scrivete? Perché allora non usare ‘frocio’, che è più corto?”. In questa frase, brutale e verissima, Villaggio mette a nudo l’ipocrisia della lingua, le giustificazioni dietro cui si nascondono pregiudizi, semplificazioni, cinismo.
È proprio in questi momenti, profondamente umani e fragili, che Villaggio mostra la sua statura filosofica. Senza mai cedere al moralismo, senza assumere pose da intellettuale, continua a fare ciò che i grandi filosofi del Novecento hanno cercato di fare: interrogare il linguaggio, smascherare le sue finzioni, osservare come le parole plasmino la realtà e il nostro modo di abitare il mondo. Villaggio non è un filosofo nel senso accademico del termine, ma lo è nell’unico modo che oggi conta davvero: è un pensatore incarnato. È colui che, attraversando il dolore personale, la comicità popolare, la satira sociale e l’ipocrisia linguistica, ha saputo restituirci uno specchio in cui riconoscerci. Anche quando non vogliamo. Anche quando fa male. Negli anni Settanta, Fantozzi non era un eroe. Non lo era nel pieno del boom economico, né durante la crisi petrolifera. Non lo era nell’Italia che cambiava a suon di Olivetti e primi computer, tra uffici silenziosi e famiglie chiuse in salotti di plastica. Fantozzi era l’uomo comune, lo sfigato, il mediocre. Faceva ridere, faceva pena, ma nessuno lo guardava come si guarda un eroe. Eppure, oggi, cinquant’anni dopo, forse è arrivato il momento di cambiare sguardo.
Fantozzi è stato il primo in Italia, prima di tanti filosofi, prima di tante battaglie sociali, a mostrare realmente la miseria delle istituzioni ereditate dalla nostra società: lo Stato, la Chiesa, la Famiglia, l’Azienda. Non con trattati, ma con scene grottesche, paradossali, esilaranti. Le sue critiche – oggi date per scontate – arrivavano in un’epoca in cui serviva coraggio per dire che il lavoro non nobilita l’uomo, che il matrimonio può essere una gabbia, che i capi sono spesso ridicoli, che non esiste il merito e che la vita adulta è fatta più di umiliazioni che di conquiste. Oggi tutti criticano, spesso a memoria, per moda. Ma Fantozzi lo faceva da dentro. Ci era dentro fino al collo. E ci ha mostrato quel mondo senza uscirne mai, senza superiorità, senza moralismi. Era la vittima perfetta del sistema, ma era anche l’unico che, ogni tanto, trovava la forza per un atto di verità. Ed è lì che Fantozzi diventa, forse, davvero un eroe.
Quando difende la figlia Mariangela dalle battute crudeli dei dirigenti che la chiamano scimmia. Quando, pur tremando, si mette tra la moglie Pina e il panettiere sboccato interpretato da Abatantuono, ricordando che uomo fortunato sia ad averla al suo fianco. C’è il momento in cui Fantozzi, pur di sopravvivere in azienda, si lascia umiliare in una partita di biliardo. Sta per cedere, come sempre. Ma poi incrocia lo sguardo di Pina. Lei lo guarda in silenzio, con dolore. Non lo giudica, ma soffre per lui. E allora Fantozzi si alza, trova un coraggio che non ha mai avuto per sé, e dice al capo: “Lei è una merdaccia.” Non lo fa per orgoglio. Lo fa per amore. Perché a volte non riusciamo a reagire per noi stessi, ma possiamo farlo per chi ci ama davvero. E quello sguardo – lo sguardo di Pina, che ha amato Ugo in silenzio per tutta la vita – basta per farlo diventare, per un attimo, un uomo libero. Fantozzi cerca – goffamente, disperatamente – di far valere qualcosa, anche solo per un attimo. Sono momenti brevi, quasi invisibili, ma pieni di dignità. E in un mondo come il nostro, dove tutto sembra sfaldarsi, quei gesti minimi risuonano con una forza che oggi è commovente. Fantozzi è un uomo innocentemente debole. Ridiamo di lui mentre fallisce un suicidio, mentre cade da un dirupo, mentre subisce l’ennesima umiliazione. Ma dietro quella risata si nasconde qualcosa di più profondo: il dolore di riconoscerci in lui. Perché Fantozzi siamo noi, quando sbagliamo tutto. Quando ci pieghiamo per paura. Quando ingoiamo, sorridiamo, e torniamo a casa. E in quella casa, tra le mura anonime e i mobili tristi, Fantozzi ama.
Ama Pina, ama Mariangela, ama quel poco che ha. È questo che, alla fine, lo tiene in piedi. Fantozzi non vive per la carriera, non vive per l’ambizione. Vive per chi ama. E in un’epoca come la nostra, che ha disimparato a credere in qualcosa, questo è un atto rivoluzionario. Forse oggi, più di ieri, Fantozzi è un eroe. Non perché vince, ma perché resta umano. Anche quando il mondo lo disprezza. Anche quando tutti ridono. Anche quando vorrebbe sparire. Villaggio ci ha lasciato un personaggio che non invecchia perché porta in sé la verità di ogni epoca: che vivere, a volte, è resistere. E che amare, in silenzio, senza clamore, è il gesto più eroico che ci sia.
Oggi, a decenni dalla pubblicazione dei testi di Lyotard, Marcuse, Foucault, torniamo a leggerli con uno sguardo nuovo. Le loro analisi, un tempo considerate troppo radicali, trovano oggi ascolto solo in cerchie ristrette, eppure la loro forza sta proprio lì: ci permettono di tornare alle origini di un malessere globale per capire meglio il presente.
Allo stesso modo, non possiamo più leggere o guardare Fantozzi con gli occhi di ieri. L’Italia — e il mondo intero — si confronta oggi con sfide diverse, forse più ambigue, ma non per questo meno profonde. Eppure, poter contare su Paolo Villaggio come riferimento intellettuale significa poter interpretare un’epoca che, nel bene e soprattutto nel male, ha segnato il nostro paese.
Fantozzi, il tragico, irripetibile Fantozzi, è l’eroe che ci ha mostrato l’inesorabilità del vivere quotidiano. Ci ha insegnato che nessuno può sfuggire al proprio tempo. Ma come decidiamo di abitarlo — con rassegnazione o ironia — resta una scelta nostra.
Bibliografia e riferimenti
- Bulgakov, Michail, Il Maestro e Margherita, Milano, Mondadori, 2022 (Oscar Classici).
- Foucault, Michel, Opere, a cura di P. Pasquino e G. Procacci, Milano, Feltrinelli, 1994-2001 (in 4 voll.).
- Fukuyama, Francis, La fine della storia e l’ultimo uomo, trad. it. di G. Carosotti, Milano, Rizzoli, 1992.
- Hemingway, Ernest, Opere, a cura di Fernanda Pivano, Milano, Mondadori, 2020 (I Meridiani).
- Kafka, Franz, Opere complete, a cura di Ervino Pocar, Milano, Mondadori, 2021 (I Meridiani).
- Lyotard, Jean-François, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, trad. it. di G. De Michele, Milano, Feltrinelli, 1981.
- Marcuse, Herbert, Eros e civiltà. Una reinterpretazione filosofica di Freud, trad. it. di D. Jervolino, Torino, Einaudi, 1964.
- Marcuse, Herbert, L’uomo a una dimensione. Ideologia della società industriale avanzata, trad. it. di G. Pancaldi, Torino, Einaudi, 1967.
- Musil, Robert, L’uomo senza qualità, trad. it. di A. Pellini e A. Acerbi, Milano, Einaudi, 2012 (nuova edizione integrale).
- Nietzsche, Friedrich, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, trad. it. di S. Giametta, Milano, Adelphi, 1977 (Biblioteca Adelphi).
- Rorty, Richard, Ironia, contingenza e solidarietà, trad. it. di G. Boni, Milano, Garzanti, 1994.
- Rorty, Richard, Scritti filosofici, a cura di M. Ferrari, Milano, Feltrinelli, 2010.
- Wittgenstein, Ludwig, Ricerche filosofiche, trad. it. di M. Trinchero, introduzione di E. Morscher, Torino, Einaudi, 2009 (Nuova Universale Einaudi, n. 138).
Riferimenti video e cinematografici
- Villaggio, Paolo, Fantozzi, Milano, Rizzoli, 1971.
- Villaggio, Paolo, Il secondo tragico Fantozzi, Milano, Rizzoli, 1974.
- Fantozzi, regia di Luciano Salce, produzione Ital-Noleggio Cinematografica, Italia, 1975.
- Fantozzi contro tutti, regia di Neri Parenti e Paolo Villaggio, produzione Cecchi Gori Group, Italia, 1980.
- Fantozzi subisce ancora, regia di Neri Parenti, produzione Cecchi Gori Group, Italia, 1985.
- Il secondo tragico Fantozzi, regia di Luciano Salce, produzione Ital-Noleggio Cinematografica, Italia, 1976.
- Intervista a Paolo Villaggio, a cura della Televisione della Svizzera Italiana (TSI), Svizzera, 1975.
- Intervista di Paolo Villaggio a Giovanni Minoli, trasmissione Mixer, Rai Uno, Italia, 1985.
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