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Platone e la coralità fra le Idee in pre-costruzione della terraferma

Nel Timeo di Platone, Socrate dichiara di non aver nulla da commentare, preferendo lo starsene in ascolto degli altri. Possiamo immaginare che egli voglia ironizzare… Platone introduce la figura del demiurgo, il quale plasma un “ricettacolo” di materia casuale (o chora) guardando al modello universale delle idee. C’è dunque la dialettica d’una trascrizione? Socrate ha ironizzato credendosi un “ricettacolo” in miniatura, prima di “plasmare” le proprie confutazioni. Per Derrida, esisterebbe un “ricettacolo” delle pre-comprensioni linguistiche. Qualcosa che avvii alle strategie di comunicazione[1]. E’ anche il “ricettacolo” della contestualità, caricandovi una spazialità decostruttivistica. Se il tempo funge da immagine mobile per l’eternità, quello “si plasma” nel vagheggiamento del presente. Ci sono le arti molto corali, come l’architettura e la musica. Filtrate sul Timeo di Platone, entrambe non dovrebbero apparire né intelligibili né sensibili, bensì contestuali nella “trascrizione” dalle idee al reale. Nietzsche propende decisamente per la musica, la quale ci libera in un coinvolgimento dell’invisibile[2].

Platone “condanna” la scrittura, ridotta ad oggettivare qualcosa che invero si dovrebbe idealizzare. Ma la preferenza dell’anima sul corpo diventa paradossale. Il cuore letteralmente in-scrive la virtù. Platone finisce per rivalutare la metaforicità del linguaggio. C’è il < tra > d’una sintassi organica rispetto ad un ideale semantico[3]. In via ontologica, anche la dialettica più razionale comunque “s’inscriverà” nell’anima mundi. A Derrida piace percepire la partecipazione delle idee sulla materialità al < tra > d’una “costrizione” a metaforizzare. Questo ci permette di rivalutare l’arte, contro la sua oggettivazione d’un reale imperfetto per caducità. Si tratterà di scegliere la miglior trascrizione, eticamente dall’anima.

Nel dialogo platonico del Sofista, il pensiero ed il discorso sono considerati coincidenti. Soltanto, il primo resta inscritto nell’anima. Più spontaneamente accade che noi ci formiamo delle opinioni, volendo quindi verificarle coi nostri interlocutori. Al pensiero comunque appartiene la “preminenza” fenomenologica della solitudine. Né abbiamo sempre un uditorio, innanzi a noi. Se il pensiero rimane “comunque” iscritto nell’anima, allora questa diviene la metafora d’un “libro” vivente. La scrittura è tale facendo perdere la voce, considerata non più necessaria alla comunicazione finale. Il pensiero porta all’introspezione quando manca un uditorio, con cui dialogare[4].

Per Platone, privilegiando la politica, accade che l’arte “si confina” nel campo dell’apparenza. C’è dunque una contrapposizione con la bellezza, avente una sua idealità. L’arte figurativa può unicamente fare la “brutta copia” del mondo. Le idee partecipano (dalla parusia) dei loro enti. Questo rende inutile la copia dell’artista. Ma l’anima mundi ha una sua bellezza, ispirandoci gli ideali dell’armonia, della proporzione, dell’adatto ecc… La metafisica sfrutterà ogni “potenziamento” dalla descrizione ontologica alla prescrizione etica. Prima ancora c’era stato il mito. La famosa nascita di Afrodite riguarderà un evento progettuale. La sua bellezza non solo descrive il cosmo, ma pure anticipa la maturità intellettuale dell’uomo. La filosofia nasce per ricercare la Verità, con le proprie armonizzazioni[5].

Ma nella praxis per Platone gli uomini non possono essere autosufficienti. Al massimo si diventa esperti in pochi ambiti. Questi saranno armonizzati all’interno d’una polis ideale. Le arti liberali possono affascinare le menti, cosicché bisogna selezionarle in pedagogia. Genericamente la bellezza porterà alla contemplazione delle idee. Anzi quella ci rappresenta il livello “meno materiale” che esista, per le forme in natura (sotto l’anima mundi). Platone ammette che l’uomo ha gli istinti passionali. La bellezza aiuta ad incanalarli verso la loro idealità. Sempre in via “esistenzialistica”, è anche giusto che l’intelletto ed il piacere si coordino fra di loro. L’infinito si misura nel finito (grazie alla partecipazione delle idee nel mondo, dalla parusia). Il primo sarà rapportabile alla sapienza intellettuale, il secondo al benessere corporeo. Nessun uomo può avere la perfezione degli dei. L’intelligenza è preferibile al piacere, in quanto la prima ricava l’essenza dell’altro, mentre il viceversa non avviene.

Platone introduce l’anima mundi, nel coordinamento fra le idee e le materialità. Ma egli la “filtra” sul realismo esclusivamente della politica. Se la repubblica ideale non sembra attuabile, sotto la finitezza umana, perdura il pragmatismo del destreggiarsi. Il politico ha un’arte, la quale educa alla temperanza ed alla valorosità. C’è la percezione d’un intreccio, che tuttavia “sacrificherebbe” quella del rigenerativo[6]. Modernamente, il mediare “scema” male nel compromesso. Platone conserva il primato etico del Bene. Egli accetta pure che la realtà abbia una mescolanza fra il più ed il meno. La loro gradazione è governata dalla politica. Parallelamente, il Bene appare generativo nel bello, ma senza il pericolo che “si fossilizzi” su qualcosa d’edonistico (come accade agli impulsi umani). Ciò significa che potenzialmente anche l’estetica avrebbe permesso un destreggiarsi fra gli “intrecci” del pragmatismo. Dunque Platone “accantona” l’anima mundi. Fra la generazione del bello e l’impulso ai piaceri, esisteva comunque una gradazione[7]. Anche questa avrebbe potuto legittimamente intrecciare le varie anime dei cittadini, nella polis più realistica che idealizzante. Ma quanto la politica fu “esaltata”? O forse, ad essa non s’accompagnò il “trattamento” più ri-generativo d’una “mania” estetica. Platone in fondo continua a parteggiare per la repubblica ideale. Il problema è che la politica rischia di “fossilizzarsi” nel mero compromesso di potere. Forse, la stessa partecipazione delle idee (dalla parusia) sulla materialità avrebbe “meritato” di svilupparsi eticamente oltre la “mania” estetica.

Vogliamo “aggiornare” il Destino della Metafisica Occidentale, già ventilato da Heidegger? Quello non varrà tanto nell’aver “ridotto” l’Essere ad un ente particolare (l’idea di Platone, il motore immobile di Aristotele, la res cogitans di Cartesio ecc…), quanto nell’aver “esagerato” l’Essere mediante il potere d’un ente particolare. La nuova interpretazione si concentrerà sullo strutturalismo in politica. Heidegger s’augura che dall’Essere liricamente andiamo “in cammino” verso il linguaggio. Per farlo, forse potremo rimpiazzare la politica, tramite una “sana” estetologia? Solo quest’ultima in via fenomenologica si percepisce mettendo la creatività prima della libertà. L’estetologia vale per la propria formatività. La creatività presuppone il potremmo, cosicché il singolo si limita da solo, verso un servizio agli Altri, senza la necessità dell’auto-giustificazione. Quest’ultima si farà “esasperare” alla “banalità” del potere. La necessità dell’auto-giustificazione più genericamente piace all’idealismo.

Da Heidegger, si citi la dialettica fra il Welt e la Erde. Il primo identifica il Mondo (per il concettualismo del potere); la seconda rinvia alla Terra (da un “lirismo” del potremmo)[8]. Forse, l’ontologismo di Heidegger deve funzionare al “filtro” del vitalismo, e da Deleuze? Se la filosofia consentirà di “creare” dei concetti “muscolari”, allora al “misterioso” lirismo della Erde s’allaccerà una de-territorializzazione dal “macchinismo” liberante. Con Heidegger, il “cammino” verso il linguaggio diventerà la perdita del presupposto plato-hobbesiano per cui gli uomini si governano solo tramite la politica. Qualcosa da percepire nella propria estet-ontologia. Se per Deleuze i concetti sono “agonistici”, poiché “allargati” gli uni sugli altri, allora si proverà a “svelare” in Occidente un Destino della Generazione Metafisica, e tramite dei “parti” concettualistici.

In via fenomenologica, una macchina appare sempre concatenante. Quella del vissuto tipicamente inconscio ha la “carica” originaria del desiderio. Deleuze distingueva il “macchinismo” dei flussi differenzianti dal più banale “meccanicismo” della finalità (attualità). Tutte le categorie concettuali (le essenze) si percepiscono nella fissità di se stesse[9]. Esse “monetizzerebbero” i singoli gradi del flusso differenziante, laddove ne astraggano i valori. L’ente particolare meccanicamente ricondotto all’idea universale si percepirebbe nel fermo d’una finalità. Per Deleuze, ciò vieterà il “flusso” della differenziazione. Non succede mai che tutti i singoli enti del mondo definiscono un numero, una casa, un sogno, un paesaggio, un’idea ecc… Secondo la fenomenologia, questo ci sembrerà ad esasperarsi. Piuttosto, s’ammetterà che ciascun ente si differenzi giacché “ad esistere pur sempre”. Ma come si potrà allacciarvi la fenomenologia “liberante” della creatività? Deleuze ha scelto di “caricare” il vitalismo sulla differenziazione, cosicché la delimitazione quasi “si stira” per l’Essere, mentre si percepirebbe una “muscolatura” dell’universalità.

Anche una comunità fra sconosciuti presupporrebbe il crearsela. Torna la dimensione del “parto” concettualistico. Questo oltre Deleuze si percepirà come una “contrazione” sul contrattualismo (classicamente del giusnaturalismo). Platone nel Simposio aveva scritto che L’amore è per la generazione < nel > parto e < nel > bello[10]. Qualcosa da rileggere col “filtro” di Heidegger. Così, si scriverà: L’amore è per la generazione < nel > parto concettuali(stico) e < nel > bello concettuali(stico). Immediatamente, si recupera il “filtro” di Deleuze. Uscirebbe che < non > abbiamo ancora “svelato” un Destino in post-metafisica dell’Estetologia Occidentale (o della Erde), pure da mettere davanti al “tradizionale” Destino del Potere (o del Welt), “ridotto” prettamente dalla politica.

Forse si deve ricostruire una fenomenologia vitalistica sul “cammino” del linguaggio, da Heidegger con Deleuze. Ma come si proverà a percepirla? Derrida adattò la fenomenologia del passo sul decostruzionismo del linguaggio[11]. Egli chiama col nome di < al – lontanamento > la situazione per cui più s’avvicina il vicino, più questo “a livello essenziale (in se stesso)” si distanzia, paradossalmente. Qualcosa da spiegare con la metafora del < passo – non passo >. Quando camminiamo, la prossimità del primo piede porterà con sé la lontananza dell’altro piede. Fondamentalmente, un passo “non va da nessuna parte”, restando confinato al mero passaggio di se stesso. L’acqua sgorgante si percepisce in una prossimità con la roccia, che però allontana la propria uscita. Le stesse “contraddizioni” del passo avverrebbero fra la scrittura e la lettura, con la seconda assai “presa” sul “suolo” vacuo del senso. Tale fenomenologia ci sembra anche più de-territorializzante. Il senso apre ad interi “mondi d’allontanamento interpretativo”. Virtualmente sul testo prima si passa con la lettura, e poi si partorisce con la comprensione. Ma il post-strutturalismo respingerà l’idealismo. Se la pre-comprensione (dovuta ai pregiudizi socioculturali dell’interprete) si dà in un linguaggio come “casa apollinea” dell’Essere, nessuno vieta che si provi a percepire il linguaggio come muscolare, agonistico, “stirato” verso il rappresentabile ecc… Il secondo caso funziona più “naturalmente” per la fenomenologia del parto. Quest’ultimo, se all’inverso “caricato” fino all’ontologismo, allora sarà derivato da una generazione esteticamente formativa, capace di “creare e ri-creare” se stessa, nelle proprie differenziazioni a mezzo concettualismo.

Per Carchia, alla filosofia pre-platonica “spiace” che l’uomo si faccia “lacerare” dalla caducità esistenziale. Forse torna la fenomenologia del parto, benché solo tragicamente. Grazie al fascino del mito, pure “erotico” al suo linguaggio, l’ideale della bellezza aspirerà a conquistare l’immortalità. Sono stati tramandati alcuni epigrammi tombali, con una dedica speciale. Emerge soprattutto che < Febo generò agli uomini Asclepio e Platone: il primo per la cura del corpo, l’altro per quella dell’anima >[12]. Derrida sarebbe stimolato dal mero epigramma… Platone certamente si serviva dell’anima per ri-conoscere la Verità. Da un lascito pitagorico, egli nel dialogo Fedone dice chela filosofia è la “musica” più alta, da coltivare anche per Apollo. Carchia conclude che l’arte classica desidera ordinare il caos sensibile, in questo senza allontanarsi troppo della razionalità.

Heidegger assegnava alla decostruzione il compito d’una ricerca, contro la tradizione occidentale. Qualcosa che criticasse le pre-comprensioni sottese ai principi supremi della metafisica. Poi, Derrida interpreta la decostruzione in modo probabilmente più “nichilistico”. Egli accetta la situazione esistenziale per cui ogni uomo rimane costretto a “dimenticare” l’Essere, mediante la riflessione concettuale. Ma basterà il continuare la decostruzione della storia metafisica? Oppure, si rischierà paradossalmente il ritorno alla razionalizzazione sul realismo? Meglio ci pare lo “spostare” lievemente la decostruzione di Derrida: non verso una ricostruzione della… decostruzione, bensì verso una pre-costruzione… costantemente in decostruzione. La classica pre-comprensione che “riduce” l’Essere (in via metafisica) abbisognerà d’una formatività estetica. Tale fenomenologia aiuterà la decostruzione a porsi dentro un Destino nel quale ogni concetto resta alla continua generazione di sé. L’arte e più in generale la creatività sono formative. Vale il campo “lievemente” interpretativo d’una pre-costruzione. Deleuze insegna, tramite la logica del senso, che i nostri concetti sempre “s’allargano” in se stessi[13]. Qualcosa da percepire dentro una verbalità che “si ri-generi”, nelle sue differenziazioni. Il “filtro” dell’estet-ontologia ci aiuta ad intendere la pre-costruzione per cui i singoli concetti sempre “s’allargano” al senso. Vi funzionerebbe una sorta di nichilismo positivamente formativo. Sarà evitato il paradosso di ricostruire (anche per idealismo) il “mero realismo” sul decostruito. Il prefisso del < pre >, insomma, si farà percepire al “parto concettuale” infinitamente generativo d’un ontologismo.

Secondo Heidegger, l’Essere accade sempre < di > qualcosa, e sino a ridurre la propria universalità. C’entra il travisamento della metafisica. Heidegger dice che l’uomo non è superiore in natura perché ha coscienza (con l’idealismo), bensì perché ha constatato (con l’esistenzialismo). Varrà la gettatezza del vivere. La situazione di tipo spazio-temporale letteralmente racchiude la nostra autocoscienza. E’ l’accadere < in > qualcosa. Questo per Deleuze decostruisce l’idealismo, giacché la nostra soggettività si proietta sul molteplice che ha le parti “a piegarsi”. La delimitazione allargherà il reale, senza sintetizzarne l’essenza. Nella “piega” del molteplice, noi immaginiamo una serie di vortici accentratori. Questi potranno conglobare il loro universo, all’esteriorità. Subito funziona un “trattenimento” dei rilievi, quasi “all’imbuto” di sé.

S’allaccerà all’ontologismo di Heidegger il post-strutturalismo di Deleuze, Derrida o Foucault. Come an-archeologia < del > (genitivo) Potere, fra il realismo e l’idealismo solo “tratteniamo” una pre-costruzione dell’archi-struttura, ergo una decostruzione infinitamente generativa < al > (dativo) Potremmo. Se vale la condanna concettuale in pre-comprensione dell’Essere, quantomeno la si renda creativa. Fra gli idealisti, Schelling pare sinceramente teso a preservare il “trattenimento costante” della soggettività sull’oggettività. Dato il principio del tipo < A = A >, va considerata la corrispondenza fra i due termini. Non si penderebbe tanto in favore del primo, ovvero dell’io soggettivo. Grazie alla corrispondenza, Schelling conclude che la natura è spirito “visibile” (percettivo), mentre lo spirito è natura “invisibile” (trascendentale). Nascerà l’idea della caratteristica Uni-totalità. Schelling mantiene costantemente un parallelismo teoretico fra lo spirito e la natura. L’estetica è molto utile. Essa ci dimostra che il realismo e l’idealismo “si danno l’uno per l’altro”, continuamente. In particolare, la bellezza porta la dimensione del finito a “trasfigurarsi” nella dimensione dell’infinito.

Per Platone, il poeta “invasato” dalla Musa sta letteralmente sotto una “catena” degli esseri. L’attrazione da un lato si subisce, ma dall’altro lato si riflette. E’ una catena, nell’identità fra lo spirito e la natura[14]. La tecnica si pone nel mero piano dell’accidente sensibile. Essa connette, ma senza l’universalismo. Forse ci conviene recuperare la creatività? La poesia non deve fermarsi all’irrazionale, bensì “allacciarsi” all’ultra-razionale (esattamente come avviene per le idee). Ovvio il soggettivismo è scartato. Ciascun poeta si farà invasare, quantunque solo scomparendo innanzi alla sua Musa. La tecnica sembra a Platone falsamente universale. Quella ha un valore pragmatico, dipendendo dal soggetto. La parola poetica invece è unica per partecipazione col divino. Un’ermeneutica vi funziona solo per annuncio. E’ la fenomenologia d’un < al > dativo, quando ad identificarsi con la spiritualità divina rimane il Potremmo d’una soggettività creatrice.

Heidegger ricorre alla cura[15], per “trattenere” la gettatezza anche nel nostro relazionarci dagli Altri. Con la nascita della società, l’esistenzialismo favorisce la “constatazione” d’una propria responsabilità. Sarà l’accadere < per > qualcuno. Nancy ha insistito sulla necessità dialettica per cui la singolarità s’accompagna alla pluralità. Ergo per l’Essere varrebbe un < con >, “socialmente” al “cuore” d’ogni differenziazione. Tale trattenimento riguardo la gettatezza esistenziale nel mondo situazionale ha un’utilità più comunitaria, rispetto alla spontaneità della cura. Ma Nancy scrive in aggiunta che il ventre è un “affare” del pensiero. Avremo una concessione al vitalismo? Il pensiero si darà in una forma per così dire d’auto-accoglienza[16]. Una coscienza che riflette va “all’interno” di se stessa. Ma tale auto-accoglienza alla fine s’espellerebbe. A pensiero espresso, la nostra coscienza avrà lasciato una “traccia” di sé, per la sua esteriorità. Nancy dice che la filosofia tradizionalmente espone concetti messisi in autocritica. Questi precisamente si faranno spiegare. Abbiamo così la fenomenologia del ripensamento, per la coscienza che vada “dentro” se stessa. Alla fine, però, ci sarà “l’espulsione” d’una giustificazione. A Nancy pare che la filosofia funzioni per concetti letteralmente “mescolati” fra di loro. Sarà una “digestione” linguistica! Lo stomaco consta di tessuti conduttori che si piegano verso se stessi, contorcendo il proprio spazio. Si citi anche il metabolismo cellulare. Tramite quello, un organismo vive all’auto-accoglimento del cibo, salvo poi espellerne l’inutile. Più astrattamente, la vera filosofia ha la riflessione intellettuale per “assorbire” l’interezza esistenziale d’una situazione esteriore. Ma alla fine conta il “rilascio” d’un comunitarismo.

Heidegger studia esteticamente un dipinto di Van Gogh. Là compaiono pure le scarpe d’una contadina. Per Heidegger, lei calza con la caratteristica fidatezza[17]. Modernamente, gli uomini sviluppano la capacità tecnica per il loro vantaggio, in accordo ad un funzionalismo. Ma la contadina nel quadro di Van Gogh si comporterà diversamente. Le sue scarpe mancano d’un parametro concettualistico. La contadina calzerebbe una sorta di “mera cosa”, anziché uno strumento. Naturalmente nessuno può negare che le scarpe servano a lavorare nei campi. Tuttavia, per Heidegger la contadina si fida spontaneamente delle proprie scarpe. E’ un atteggiamento che gli pare anche etico. Qualcosa che salvaguarderà l’alterità d’una “mera cosa”. La fidatezza è presente genericamente fruendo dell’opera artistica, né strumentale né insignificante.

L’esistenzialismo più nichilista accetta che gli Altri decidano sempre per noi. Rimarremo condannati all’illusione, spesso nella solitudine? Una nostra libertà nel farsi creativi potrà convincerci che la decisione altrui in fondo “non è questo granché”. Nel contempo, serve una rivalutazione a livello ontologico del senso estetico. Questo è l’accordo percettivo che s’instaura fra una capacità tecnica ed una concettualità simbolica (o fine a se stessa). La qualità materiale della prima ri-entrerà nella qualità astratta della seconda. Una percezione deve intensificare una più semplice (ed immediata) sensazione, conferendole il senso. Ogni concordanza accade sempre al “ri-entro” di se stessa. L’arte acquista un valore estetico se colpisce. Ciò accade tramite la percezione, che porta la sensazione a concettualizzarsi, ma solo ri-entrando continuamente in se stessa. Tornerebbe la fenomenologia della fidatezza? Il senso estetico non può mai servire, pena la sua stabilizzazione nel banale. Si considerino classicamente il colore e la forma. Entrambi assumono un senso perché a farsi vedere, non perché (più banalmente) noi li vediamo. Su questo, si fonda l’intero astrattismo di Kandinsky o Klee. In una pittura, il colore e la forma si faranno vedere (per noi), quantomeno avendo un simbolismo. Kandinsky ad esempio associa il blu al riposo, il giallo all’eccitazione, il rosso alla passionalità ecc[18]… Una sensazione è qualcosa che abbiamo, mentre una percezione è qualcosa che “si fa” avere. Il lavoro artistico deriva materialmente da una capacità tecnica, ed astrattamente da una concettualità simbolica. Il senso estetico ci permette di concordare la prima sulla seconda. Se il colore o la forma non sono (più semplicemente) da vedere, bensì nel proprio “farsi vedere”, allora noi li percepiremmo. Quelli giustificheranno un basilare accordo fra la capacità tecnica e la concettualità simbolica. Qualcosa che naturalmente può canalizzarsi in svariati stili. Secondo il classicismo, ad esempio, l’eleganza appare sempre sinestetica. Essa ha una “vena di pienezza”, facendosi vedere e ri-vedere.

Nel dialogo di Platone Ippia maggiore, la contestazione al concettualismo arbitrario della sofistica coinvolge la stessa estetica. La bellezza d’una fanciulla varrebbe tanto quanto quella d’una pentola, rispetto alla coeva dipendenza dalle idee universali. Né contano i materiali d’uso. Una statua di pietra, se adornata con l’oro, varrebbe tanto quanto un mestolo di legno, che avesse perso l’oro: si deve considerare il corretto adattamento ad una situazione esistenziale. Piuttosto, diventa contraddittoria la bellezza applicata alla condotta di vita. Chi si fa onorare varrebbe tanto quanto la sua statua, e ci si dimentica che esistono gli dei, perfetti alla loro immortalità. Platone contesta l’empirismo, pure se “filtrato” dall’eticità. Affermare che il bello convenga è problematico, se la situazione ha la parvenza della sensibilità. Si finirà a giustificare l’illusione del soggettivo. All’opposto, si può fondare una legislazione (che ci convenga) senza minimamente considerare il bello. A Platone interessa la politica, dove il pragmatismo rende inutile l’estetica. E’ curioso che in greco il conveniente si scriva prepon[19], se un filosofo novecentesco “si divertisse” a scomporlo, in un pre-pon: fra l’ermeneutica (da un incipit) e la fenomenologia (da un porre)! Certamente i sofisti avrebbero sfruttato lo strumentalismo senza ricorrere all’etica. A Platone interessa il Bene, il quale deve imporsi su tutto, ivi compreso il bello. Inoltre, l’estetica dipende dai sensi della vista e dell’udito. Tale “terzetto” è difficile da indagare, in via modernamente fenomenologica. Forse la spontaneità “innocua” della vista e dell’udito favorisce il disinteressato del bello, e scansando il rischio di ricondurlo al mero conveniente[20].

Aristotele sostiene che l’Essere si dica in tanti modi, togliendo il monismo platonico dell’idea. Ma possiamo concludere che la metafisica si ponga nella sua “fidatezza” verso una pre-costruzione del reale? Nell’Essere, la vena dell’universalità meramente accade. Recuperando Heidegger, chi ha constatato la sua finitezza (trovandosi “di getto” in un mondo di vita) prende “fiducia” mediante una soggettività in necessità costruttivistica. Noi non useremo subito una sensibilità estetica, ma almeno rifletteremo verso la libertà creativa. Se constato l’Essere, allora vi costruisco l’essenza. La superiorità dell’uomo non vale tanto all’immediatezza del pensiero intellettuale, quanto per l’immediatezza del pensiero creativo. La fiducia in se stessi per l’esistenzialismo si costruisce giorno dopo giorno. Ci sono tanti modi per farlo, fra cui quelli d’una metafisica! Nell’ottica ontologica, una generazione apparirà costruita per constatarsi in differenziazione. Accettando il vitalismo, percepiamo che le singole delimitazioni fra gli enti “abbiano fiducia”, sul proprio “allargamento” verso la realtà materiale o l’irrealtà astratta. Derrida sostiene che la Differenza Ontologica comporti una “costrizione” esistenzialistica a “costruire” la metafisica sulla metafora. Ma tutto questo parallelamente infonde una “mera fiducia” sul nostro accadere nel mondo (coi suoi contesti). Vale per l’uomo una libertà di creatività, a valle d’una ri-generazione estetica sull’Essere. Si passerà da una decostruzione metafisica ad una pre-costruzione post-metafisica. Secondo l’ontologia, la creatività sarà il “termine medio” fra l’universalità del linguaggio e la necessità del vivere. Ovviamente il < pre > estetico nel “parto” del concettualismo si materializza per il < cum > della società civile. L’eticità è universalmente da tramandare. Secondo l’ontologia, varrà un simile ordine:

  • L’etica come stato dell’universalità, e per theoria (che si può constatare)
  • L’estetica come stato della creatività, e per poiesis (che s’è constatato)
  • La politica come stato della necessità, e per praxis (che si deve constatare)

Però, la storia della filosofia occidentale ha sempre “obliato” la nostra libertà di ri-costruzione. Se l’etica è universale, da Platone in poi si scelse di “filtrarla” esclusivamente al < cum > della politica, anziché al < pre > dell’estetica. Forse Schmitt ebbe la possibilità di valorizzare la creatività, ma finì per pragmatizzarla nell’eccezione. Secondo la fenomenologia, solo la prima è davvero comunitaria, in quanto costantemente formativa. All’eccezione, il Potere rischia di fare quello che vuole. Alla creatività, il Potremmo spinge al si farebbe quello che si vorrebbe. In quest’ultimo caso, una “sfumatura” d’indeterminazione ci pare più comunitaria. Il termine medio vale al suo dativo, anziché al suo genitivo. Sempre il Potere è < di > qualcuno, giustificato per sopravvalutazione, e di contro al Potremmo, che è meramente fermo < al > ciascuno. Insomma il termine medio deriva da un condizionale, non da un imperativo. Chiaramente l’idealismo razionale di Hegel sarà respinto. Nella sua logica della sintesi, ogni eccezione “subirà” l’imperativo. Meglio sarà recuperare il post-strutturalismo di Deleuze. Nella sua logica del senso, ogni eccezione “creerà” il condizionale. Nietzsche “vagheggia” sull’eccedenza artistica[21]. Tramite questa, si riesce a “toccare” l’universale bypassandone il “freddo” concettualismo. In un Destino della Territorialità (Erde) Occidentale, dunque un’eccedenza estetica ammanterà. Qualcosa che ci sproni a “toccare” l’universale concettualizzando un “caldo” vitalismo. Il campo dell’immaginario non è scartato a priori. Ovvio si confermerà la critica all’idealismo. Un creativo ci pare assai più comunitario d’un liberale. Il primo non ha nulla, nemmeno se stesso (all’autocritica continua). Ergo egli automaticamente adopera le sue abilità in favore degli Altri. Contro Hegel, noi non avremmo dovuto ordinare il principio del tipo < Dalla mia libertà al reale come razionale >, bensì condizionare il principio del tipo < Dalla mia creatività al reale come immaginario >. Questo può invitarci ad “allacciare” Heidegger su Deleuze. Varrà la decostruzione d’un un genitivo oggettivo (sull’Essere che pone se stesso), a ri-generare un condizionale estetico (sull’Essere che crea se stesso). Heidegger ritiene che la Tecnica “porti a compimento” la Metafisica Occidentale. Grazie a quella, senza troppi fronzoli si può ridurre l’Essere in un concettualismo, il quale funziona per la volontà singolare. Ma, se “attaccassimo” il Mondo (o Welt) con le de-territorializzazioni (dalla Erde), allora il Destino della Metafisica Occidentale coinciderebbe col Potere, in una sopravvalutazione della politica. L’immaginario rimpiazzerà la “fortuna” della Tecnica, mentre la formatività rimpiazzerà il banale nichilismo. Spesso s’accusa il progresso di scordarsi l’etica. Più genericamente, bisognerebbe passare dal profondamente trasformativo al creativamente formativo. Manca un nuovo costituzionalismo della poiesis, fra l’universalità della theoria e la necessità della praxis. La creatività ci rende tipicamente umani. Essa pare assai oltre il trovarsi che meramente constata, citando Heidegger. Ma come potremo ricostruire un immaginario estet-ontologico? Agamben cita una dialettica, fra il Giardino piantato spontaneamente da Dio ed il Regno “stra-piantato” faticosamente dagli uomini. Attraverso la fenomenologia, il primo dà una contemplazione “che cresce”, mentre il secondo dà una sopravvalutazione “per scheletrizzazione”. Tornerà un’accusa alla politica. Il Regno è sopravvalutato, in quanto se “si scheletrizza” al mero suolo, in fondo “nemmeno serve”. Più eticamente, la creatività per formatività reclamerà il suo Giardino. Non ci serve giustificare la necessità del suolo; meglio “andare incontro” alla crescita.

Nel Simposio di Platone, la procreazione consente l’immortalità virtuale. Ma quella avviene anche sul “filtro” della bellezza[22]. Se le idee partecipano (con la parusia) della materialità, l’estetica ne diviene prettamente “la rampa di lancio”. Sempre il bello ci prende. Esso “brucia” sul tempo ogni visibilità di raffigurazione. La bellezza risplende, per conservarsi nella propria “ispirazione”. Quella dunque sa ridestare la reminiscenza, dall’iperuranio alla Verità[23]. L’amore è paradossale, avendo un’energia che si consuma per ascendere alle idee. La bellezza diventa il “fondale” della Verità. Dialetticamente, anche il dionisiaco troverà la proporzione, la misura, l’adattamento ecc… Gadamer ha insistito sul fatto che il bello dà una “sintesi” al Bene ideale che partecipa (in una parusia) del mondo materiale. Ora non “vince” più solo il regno dell’iperuranio. Il bello va percepito in terra come “l’atteggiamento” del totale che, se si mostra, lo fa sempre all’ineffabile. Su quello possiamo “caricare” addirittura il nostro piacere[24].

Ferraris sostiene che l’immaginazione sia la ritenzione dell’assente (e dunque per la conservazione che eviti lo scordare), mentre la fantasia servirebbe a rielaborare la prima. La fenomenologia cambia, esteticamente. La fantasia propende maggiormente per la dimensione dell’irrealtà. Ma per Platone essa si specifica nella sua ambiguità. La fantasia indicherebbe sia una rappresentazione veridica (avvicinandosi subito alla più conservativa immaginazione), sia la mera illusione d’apparenza (che naturalmente è irreale). Non accade solo un “inganno”. La fantasia starebbe a fondamento sia dell’immagine reale, sia dell’immagine inventata. Semplicemente, s’indicherà ciò che appare. Sarà una dimensione percepibile alla “neutralità” di se stessa, senza il “filtro” d’un adeguarsi all’idea (con la sua verità). Per Ferraris, la fantasia platonica fungerebbe da mera presentazione, non da rappresentazione “immaginabile” (presa dagli “schemi” mnemonici, o cercata dalla creatività intellettuale). Ma in fondo la si percepirebbe meno passivamente, se prima rinunciassimo a “filtrarla” con l’idea della Verità? Con la fantasia, non siamo noi a rappresentarci qualcosa, perché di contro è qualcosa che ci si presenta. Quella attiva ogni immaginazione, tanto nella “veglia” (innanzi al reale quotidiano) quanto nel “sonno” (al profondo del reinventabile). Bachelard usa la fantasia per “de-territorializzare” il mero materialismo. Quella è una ritenzione “nel flusso” della rammemorazione, e rispetto al vuoto. Nell’uomo, la dimensione dell’inconscio deriverebbe da un “pacchetto” di sogni aventi una virtualità paradossalmente (ambiguamente) materiale. Nello stesso tempo, l’immaginazione potrebbe “de-territorializzare” l’intenzionalità. Husserl chiarisce che noi abbiamo sempre coscienza < di > qualcosa. Ma l’immaginazione materiale di Bachelard vi aggiunge una “fiducia” verso la propria intimità. Quest’ultima sarà in grado di constatare creativamente la mera esteriorità.

Criticando ancora l’idealismo, la coscienza è certo più “umile” rispetto al pensiero. Heidegger sosteneva che la Verità Universale si donasse (per gli uomini più “motivati” a capirla!), parendo sempre sia rivelata sia un po’ celata (mai in completezza). Essa si percepiva liricamente, “nella Radura” d’un bosco. La “luce” conoscitiva si calava appena di riflesso, intorno “all’oscurità” di più alberi, sempre fitti. Sulla dialettica della Radura noi potremo tracciare uno “schema” decostruzionistico. Dapprima immaginiamo che esista “un’iperbole” del Mondo (o Welt), e quindi “un asse” dell’intenzionalità. Magari, il loro medium diventerebbe “un sufficiente riflesso”, il quale “frazioni” tutte le de-territorializzazioni “liricamente” metafisiche. Oggi contestiamo l’estetizzazione del simulacro, pure in via capitalistica. Ma il “riflesso” al frazionamento della metafisica ci sarebbe favorevole. Quello donerà un “carico” autenticamente ontologico al simulacro, causando una de-territorializzazione per l’estetizzazione, verso la creatività dell’impolitico (al Potremmo). Contro l’idealismo, toglieremo la dialettica del servo / padrone. Per Levinas, il singolo uomo non potrà mai farsi possedere, da tutti gli altri. Ciò varrà sia a livello pratico (senza l’incorporazione), sia a livello conoscitivo. Qualunque presupposto per cui il singolo uomo sia possedibile (o di contro non possedibile) comunque ne registrerà la presenza. Evidentemente, Levinas deve respingere l’accentrarsi idealistico. E’ la fenomenologia del caratteristico faccia a faccia, o “di riflesso” sul poter “frazionare” la conoscibilità intellettuale, favorita “l’iperbole” del Desiderio (se ci accontentiamo d’amare l’Altro). Un “accentramento” sintetico al servo / padrone non avviene più. Forse il faccia a faccia etico di Levinas diventa “un’archi-scrittura” per la “fidatezza” dell’immaginario, da Derrida a Bachelard. Sovente, riportiamo l’aforisma per cui gli occhi sono lo “specchio” dell’anima. Là, noi possiamo constatare le “mere tracce” del comunicabile, mentre “ci spiazza” l’iperbole d’un desiderio (per curiosità, charme, repulsione, simpatia, disapprovazione ecc…).

Per Deleuze, Platone riduce il mondo degli enti situazionali, stabilizzandoli nell’ideale. Soprattutto, c’è una forte accusa all’estet-ontologia. Platone aveva un genuino interesse a salvaguardare il divenire, contro Parmenide. Ma le idee universali comunque “bloccano” il molteplice della finitezza. Per Deleuze, Platone si limita a “colpire” il vero divenire: quello dei simulacri (a caratterizzare l’arte), che in se stesso s’allontana da ogni gerarchia (favorendo la continua autocritica)[25]. Inoltre le idee risulterebbero meno essenzialistiche di quanto a prima vista si dichiari. Del resto la metafisica ha più sistematicità; ma quella nasce con Aristotele. Platone per Deleuze non cerca tanto il cos’è, quanto il chi è. Se l’idea ha l’universalità già da se stessa, più che altro si deve evitare che noi ne sbagliamo la rappresentazione. Platone dunque “condanna” l’arte, pericolosamente in grado d’autogiustificarsi tramite il solo simbolismo.

Forse, in via estet-ontologica diventa interessante la configurazione del frattale. Facilmente, immaginiamo un mondo sempre più piccolo o maggiore del nostro. Una comunicazione informatica di fatto si percepisce nella continua espansione delle proprie immagini. S’annullerà la distinzione reale fra la piccolezza del fermo e la grandezza nella riproducibilità. Il frattale, visivamente, è sempre “razionalistico”. La sua configurazione di base si mantiene nell’espansione, tanto risalente quanto discendente. Se poi tutti i contatti intellettuali si “sfilacciassero”, ad ondeggiare sopra “l’abisso” dell’inconscio, quest’ultimo “romperebbe” i primi solo nel loro eternarsi (facendoli continuare, contro la divisione spaziotemporale). La fenomenologia del frattale potrà assumere una connotazione ontologica? Allacceremo il < di > per la metafisica (la quale “riduce” l’Essere a singolo ente di “supremazia”) al < pre > sul Destino dei “parti” concettualistici da “de-territorializzare” creativamente. In definitiva, otterremmo un “frattale” a decostruzione ontologica.

Derrida ci ricorda che la preposizione < tra > non è né puramente sintattica, né puramente semantica. In quella “vince” la spazialità vuota del senso articolante. Pare che si significhi la mera sintassi. Più genericamente, tutta la scrittura presa in se stessa è nel < tra > d’una comunicazione. Quella procede per intervalli di senso, anziché per sintesi di concettualismi. La scrittura esibisce sia la semantica sia la sintassi. E’ una tra-ccia, ed all’originario che “patisce” (mentre la voce “si copre”, a mezzo sintetizzazione totalizzante)[26].

Dufrenne menziona il pre-reale, in estetica[27]. L’opera d’arte fa in modo che la potenza del possibile letteralmente ci “venga incontro”. Quest’ultima è allo “stato nascente” del reale. Avremmo una sorta di “territorialità madre” per l’ontologia? Il pre-reale riguarda “il cuore” del possibile che “ci viene incontro” (dall’oggettività empirica alla soggettività fenomenologica). L’arte ri-genera simbolicamente l’esistente. Quella dunque sarebbe il “riflesso” d’un pre-pre-reale, dove “il cuore” dell’ontologia lascerà che ogni differenziazione “si venga incontro”. La de-territorializzazione “madre” si percepisce in una “fidatezza” sulla “mera metafisica”. Di nuovo il possibile è sempre “potente”, quantunque con più comunitarismo mediante il “filtro” della creatività. Il nostro mondo “vira” da alcuni decenni verso l’immaginario, con la tecnica. In Dufrenne, il pre-reale d’una percezione esteticamente ri-generativa per “battiti” di possibilità deriverebbe da un pre-pre-reale, allacciandovi il nichilismo d’una differenziazione decostruzionistica. Già Heidegger diceva che l’opera d’arte è di “scuotimento” sulle nostre pre-comprensioni. Per Dufrenne, il pre-reale accade sempre al guardare di… guardare, e per l’universalità comunitaria dell’oggettivo in “gestazione naturale” del soggettivo. E’ importante percepire il “riflesso” del fenomenologico, al “diradamento” dell’idealismo. Per Bachelard, l’immaginazione materiale accade sempre di dileguamento, e per l’accrescimento del reale in accentramento del virtuale. C’è la fidatezza per l’intimizzazione, prima della libertà in reinterpretazione[28]. Per Sartre, la coscienza nullifica la sua esteriorità, “caricandovi” sopra un concettualismo[29]. Qualcosa che di fatto “s’esaspera” col potere del < per sé >, mentre la soggettività tenta continuamente ma inutilmente di giungere all’auto-giustificazione. Sarà il nulla del primato per l’esistenza sull’essenza a “vincere”. Forse, la fidatezza per l’intimizzazione (quando noi constatiamo di trovarci “gettati” nel mondo per costruire creativamente la nostra libertà) diventerà un < pre-sé >. Qualcosa che impedisca il caratteristico “scacco” dell’esistenzialismo, prima di razionalizzarlo con l’idealismo. Il < pre-sé > ci sembrerà un < sé > la cui intenzionalità sarà generativa (e non creativa!) della sua Alterità. Si sa che Sartre ha rivalutato l’immaginario, perché questo ci permette una “nullificazione” finalmente liberante. Si può “superare” la creatività soggettiva, tramite un < pre-sé > ri-generativo sin dall’ontologia, ad incrementare di “riflesso” il comunitarismo, anche contro la sua politicizzazione.

Platone si convince che il non essere contiene le “istanze” della differenza. Quello si farà riportare via confronto. Nel contempo, si pone il problema nuovo della somiglianza. Fra l’essere ed il non essere, noi intendiamo che comunque qualcosa ci appaia. L’arte figurativa s’accontenta di copiare la natura, e fino a somigliare male rispetto alle idee universali. Ma forse la sofistica è peggiore, pretendendo un’originalità soggettivistica. Essenzialmente, “s’apprezzerà” che il nulla abbia la possibilità d’una differenziazione. Questo si rifletterà nell’apparenza, e quindi nell’arte. La sofistica invece assolutizza il simulacro, ad esempio professando il relativismo. Quella avrà interesse a contraffare ogni ingenuità dell’arte[30].

Derrida cita il verbo psicanalitico binden, traducibile dal tedesco in legare, stringere, imbavagliare, bendare ecc… Sarà la deviazione di qualcosa, nel proprio rimpiazzarsi. I giri d’un allacciamento, d’una stretta, d’un bavaglio, d’una benda ecc… comportano una certa pressione, così da “sfogarsi”[31]. Per Derrida, il deviare è anche dis-taccare. Qualcosa che permetterà il “rimpiazzo” d’un allacciamento. Ogni fonte è tale solo nella deviazione (nel corso) di sé, conducendo così al torrente, e poi al fiume. Freud cita il principio di piacere. Tramite quello, noi istintivamente desideriamo soddisfare ogni esigenza biologica o psicologica. Secondo Derrida, il principio di piacere ha il background fenomenologico del binden. Le esigenze biologiche o psicologiche saranno sempre di “rimpiazzo” sul realismo, quantomeno tramite l’inconscio. Vale una dialettica, la cui sintesi terminerebbe in una rassicurazione sul vissuto. Se uno padroneggia, evidentemente è perché deve “destreggiarsi”. Il binden pare al servizio del piacere. Il primo è funzionale al rilevamento del secondo. Strettamente considerato in se stesso, il binden avrebbe l’indifferenza fra il piacere ed il dispiacere, “deviati” al proprio “bavaglio”. Tuttavia, a Derrida non sfugge che ciascuno di noi cerca l’appagamento. L’indifferenza del binden ci pre-figurerebbe l’indifferenza figurata del piacere.

Dialetticamente, viviamo desiderando quello che abbiamo già provato[32]. Se il binden ci funziona al “rimpiazzo” dall’inconscio al reale, allora il piacere ci tende a confermare il “rimpiazzo” dall’inconscio al reale. Dipendesse da noi, cercheremmo un appagamento costante, così da “smorzarne” paradossalmente l’impulso, e “via deviazioni” di riproposizione. Per Derrida, il binden ci dimostrerebbe un < pre-sé > in psicanalisi? Ogni desiderio di conservare il piacere sarà “condannato” a distanziarsene. La scarica dell’appagamento confermerà la strettura del binden. Coerentemente, proveremo più piacere nel suo desiderio.

Platone nel Filebo dice che l’intelligenza è una forma di misurazione. Diversamente, il piacere (od il dispiacere) si dà prendendo il “sopravvento”. L’appagamento si renderà ideale. Coinvolgendo l’etica, noi avremo un “piacere” per l’intelligenza? Valuteremo che dialetticamente l’idea “ci prenderà le misure”, dalla sua infinitezza[33]. Dunque in Platone il piacere sia vince in ogni caso (in quanto intellettuale), sia perde in ogni caso (in quanto inappagabile)? E’ la lettura di Derrida, al filtro della Differenza Ontologica, dove la caducità umana appare “costretta” a “misurare appena male” la Verità, e sino a “deviarla” con la metafisica. Certo l’idealismo di Platone accetta l’anima mundi. Anche l’eros può essere rivalutato, se permette di tendere alla Verità. Per Derrida, l’uomo è comunque “in intersecazione” con la Differenza Ontologica, che la metafisica “padroneggia” all’appagamento del “mero senso” (da decostruire, per nichilismo ermeneutico).

Hegel scrive che l’uomo, attrezzandosi con la nave, va opponendo “un semplice pezzo di legno” alle “illusioni” ed alla “violenza” dei mari. Quelli hanno la linea d’orizzonte che non fermerà il nostro sguardo, nella sua lontananza dalla terra. La “violenza” dei mari si spiega con l’alta probabilità che vi accadano i temporali. Per Hegel, è importante percepire che la nave lasci una scia. L’uomo non potrà mai “accasarsi” (o meglio stabilizzarsi) nel mare. La scia si percepirebbe come un tentativo costante di “misurazione”. L’onda del mare si dà producendosi. Misurando qualcosa, sempre si tende ad aggiungerla. Quella accade solo in quanto riportata a noi. Visivamente, la scia simboleggia la misurazione che (al contrario) ci “aggiungerà” al mare. La superficie ondosa è già “di riporto”: ovviamente, verso se stessa. Platone nel Fedone introduce alla seconda navigazione[34]. Nel codice dei marinai, i venti possono cadere e quindi bisognerà contare solo sulla propria forza di braccio. E’ la metafora per il razionalismo della filosofia. L’idealismo di Hegel insiste molto sulla padronanza. Ma in chiave strettamente fenomenologica, quanto il prendere le misure avviene al sicuro d’una “costa”? Valery scrive il dialogo Eupalinos. In questo, Socrate racconta a Fedro d’aver recuperato per caso qualcosa di puramente bianco, e d’una leggerezza dolce, in riva al mare. Intorno, tutta la sabbia può risplendere al Sole (fra la schiuma e le conchiglie). Socrate prese in mano quell’oggetto: prima per soffiarci sopra, poi sfregandolo sul mantello. Gli interessava chiedersi come potesse nascere l’informe[35]. La riva determina un confine confuso, fra le onde e la terraferma. E’ la metafora delle domande che cercano l’universalità d’una risposta. Nell’informe, le linee nascono per rimodellarsi di continuo. La filosofia si dà quando sospendiamo le “stabilità” della vita quotidiana. La misurazione “confusa” della riva visivamente “scialacqua” il suo accumulo di schiumosità. Se “vi approdassimo” mediante la creatività, forse conserveremmo un po’ di spaesamento, tale da non dimenticare più la fortuna per essersi salvati dal naufragio. In una terraferma ancora da scoprire, ci sentiremmo “padroni” solo per accumulo di solidarietà.


BIBLIOGRAFIA CONSULTATA

  • G. BACHELARD, La poetica dello spazio, Dedalo, Bari 1999
  • G. CARCHIA, L’estetica antica, Laterza, Bari 2000
  • G. DELEUZE, Differenza e ripetizione, Cortina, Milano 1997
  • G. DELEUZE, Logica del senso, Feltrinelli, Milano 2017
  • G. DELEUZE, Macchine desideranti, Ombre Corte, Verona 2004
  • J. DERRIDA, La cartolina, Mimesis, Sesto San Giovanni 2017
  • J. DERRIDA, La disseminazione, Jaca Book, Milano 1989
  • J. DERRIDA, Le arti dello spazio, Mimesis, Sesto San Giovanni 2018
  • J. DERRIDA, Paraggi, Jaca Book, Milano 2000
  • M. DUFRENNE, Estetica e filosofia, Marietti, Genova 1989
  • M. HEIDEGGER, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976
  • M. HEIDEGGER, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1997
  • W. KANDINSKY, Lo spirituale nell’arte, SE, Milano 2005
  • D.J. MELLING, Platone, Il Mulino, Bologna 1994
  • J.L. NANCY, Il peso di un pensiero: l’approssimarsi, Mimesis, Milano-Udine 2009
  • PLATONE, Tutte le opere I, Newton & Compton, Roma 1997
  • PLATONE, Tutte le opere II, Newton & Compton, Roma 1997
  • J.P. SARTRE, L’essere e il nulla, NET, Milano 2002
  • G. VATTIMO, Le avventure della differenza, Garzanti, Milano 2001
  • P. VALERY, Tre dialoghi, Einaudi, Torino 1990
  • F. VERCELLONE, Oltre la bellezza, Il Mulino, Bologna 2008

[1] J. DERRIDA, Le arti dello spazio, Mimesis, Sesto San Giovanni 2018, p. 359

[2] J. DERRIDA, Le arti dello spazio, Mimesis, Sesto San Giovanni 2018, p. 364

[3] J. DERRIDA, La disseminazione, Jaca Book, Milano 1989, p. 176

[4] J. DERRIDA, La disseminazione, Jaca Book, Milano 1989, p. 209

[5] F. VERCELLONE, Oltre la bellezza, Il Mulino, Bologna 2008, p. 11

[6] PLATONE, Tutte le opere II: Filebo, Newton & Compton, Roma 1997, passo 54/C

[7] PLATONE, Tutte le opere II, Newton & Compton, Roma 1997, passo 206/E

[8] M. HEIDEGGER, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1997, p. 34

[9] G. DELEUZE, Macchine desideranti, Ombre Corte, Verona 2004, p. 97

[10] PLATONE, Tutte le opere II: Simposio, Newton & Compton, Roma 1997, passo 206/E

[11] J. DERRIDA, Paraggi, Jaca Book, Milano 2000, p. 101

[12] G. CARCHIA, L’estetica antica, Laterza, Bari 2000, p. 60

[13] G. DELEUZE, Logica del senso, Feltrinelli, Milano 2017, p. 16

[14] G. CARCHIA, L’estetica antica, Laterza, Bari 2000, p. 66

[15] M. HEIDEGGER, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976, p. 344

[16] J. L. NANCY, Il peso di un pensiero: l’approssimarsi, Mimesis, Milano-Udine 2009, p. 77

[17] M. HEIDEGGER, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1997, p. 20

[18] W. KANDINSKY, Lo spirituale nell’arte, SE, Milano 2005, p. 49

[19] G. CARCHIA, L’estetica antica, Laterza, Bari 2000, p. 70

[20] G. CARCHIA, L’estetica antica, Laterza, Bari 2000, p. 72

[21] G. VATTIMO, Le avventure della differenza, Garzanti, Milano 2001, p. 111

[22] G. CARCHIA, L’estetica antica, Laterza, Bari 2000, p. 78

[23] G. CARCHIA, L’estetica antica, Laterza, Bari 2000, p. 81

[24] G. CARCHIA, L’estetica antica, Laterza, Bari 2000, p. 84

[25] G. DELEUZE, Differenza e ripetizione, Cortina, Milano 1997, p. 91

[26] J. DERRIDA, La disseminazione, Jaca Book, Milano 1989, p. 243

[27] M. DUFRENNE, Estetica e filosofia, Marietti, Genova 1989, p. 144

[28] G. BACHELARD, La poetica dello spazio, Dedalo, Bari 1999, p. 13

[29] J. P. SARTRE, L’essere e il nulla, NET, Milano 2002, p. 31

[30] G. CARCHIA, L’estetica antica, Laterza, Bari 2000, p. 101

[31] J. DERRIDA, La cartolina, Mimesis, Sesto San Giovanni 2017, p. 355

[32] J. DERRIDA, La cartolina, Mimesis, Sesto San Giovanni 2017, p. 357

[33] D. J. MELLING, Platone, Il Mulino, Bologna 1994, p. 183

[34] PLATONE, Tutte le opere I: Fedone, Newton & Compton, Roma 1997, passo 99/D

[35] P. VALERY, Tre dialoghi, Einaudi, Torino 1990, p. 80


Paolo Meneghetti

Paolo Meneghetti, critico d’estetica contemporanea, nasce nel 1979 a Bassano del Grappa (VI), città dove vive da sempre. Laureato in filosofia all’Università di Padova (nel 2004), egli ha scritto una tesi sull’ estetica contemporanea, in specie allacciando l’ ermeneutica di Vattimo alla fenomenologia francese (da Bachelard, Bataille, Deleuze, Derrida). Oggi Paolo Meneghetti scrive recensioni per artisti, registi, modelle, fotografi e scrittori, curando eventi (mostre o conferenze) per loro, presso musei pubblici, fondazioni culturali, galleristi privati ecc... Egli in aggiunta lavora come docente di Storia e Filosofia, presso i licei del vicentino.

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