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Antropologia e scienze cognitive

Devono scienza cognitiva e antropologia collaborare a stretto contatto nella realizzazione dell’obiettivo di comprendere la cognizione umana? A dare risposta affermativa a questa domanda, non priva di controversia, è un articolo scritto dai filosofi Stich e Laurence con l’antropologo Barrett, “Should the Study of Homo sapiens be Part of Cognitive Science?”, pubblicato su Topics in Cognitive Science.

Secondo gli autori è dovuto, auspicabile e possibile, al fine di perseguire l’obbiettivo della scienza cognitiva (ovvero la comprensione della natura umana), l’aiuto dell’antropologia. Se infatti quest’ultima si dedica a chiarire e comprendere le variazioni culturali, essa è nel contempo impegnata ad individuare gli aspetti universali della natura umana. Senza l’ausilio delle ricerche cross-culturali antropologiche, per gli autori, la scienza cognitiva non potrebbe stabilire in maniera definitiva l’universalità degli aspetti della cognizione umana indagati.

A questo punto, se siamo d’accordo che l’obbiettivo ultimo della scienza cognitiva è comprendere la capacità e specificità cognitiva della specie umana, e, non solo, ad esempio, dell’uomo occidentale, saremo anche facilmente d’accordo che tale obbiettivo non può essere correttamente perseguito senza il contributo della ricerca antropologica.

Detto in altre parole, l’antropologia sarebbe una condizione necessaria, all’interno della prospettiva delle scienze cognitive, per trarre delle corrette generalizzazioni sulla natura della cognizione umana. Lo strumento dello studio cross-culturale sarebbe fondamentale per portare la ricerca fuori dal laboratorio, dunque in contesti ecologici, e per verificarne la solidità delle conclusioni studiando diverse popolazioni.

Un illustre esempio di programma di ricerca che ha fatto uso sia delle metodiche della scienza sperimentale sia di quelle dello studio etnografico è quello di Levinson (2003), che ha studiato il ruolo del linguaggio nella formazione della cognizione spaziale, combinando perfettamente il rigore del laboratorio alla competenza dell’antropologo.

Possiamo esemplificare il discorso con due esempi di natura più generale. Di vasto interesse è la questione se esista o meno una distinzione tra norme e convenzioni morali. Per stabilire l’universalità di questa presunta distinzione la ricerca scientifica non può fare a meno di studiare anche popolazioni distanti da quella occidentale. Un altro campo di ricerca interessante è quello relativo alle norme epistemiche. L’apporto dello studio antropologico è fondamentale nello stabilire se le presunte norme epistemiche individuate in occidente sono diffuse ovunque, se in altre popolazioni ve ne siano di diverse e in cosa consista questa diversità.

È chiaro che per studiare popolazioni distanti dalla nostra non basta un approccio superficiale, o magari l’applicazione di studi standardizzati creati per un diverso campione di soggetti. Nello studiare la cognizione di un popolo a noi remoto, e nello strutturare lo studio stesso, è necessaria la competenza e la comprensione un antropologo che abbia confidenza con la lingua, la cultura e le norme di quel popolo. Sicché, risulta evidente, l’antropologia è essenziale sia per stabilire l’universalità di alcune caratteristiche della cognizione umana, sia per individuare le sua variazioni dipendenti dallo specifico ambiente.

Come giustamente suggeriscono gli autori, non c’è da illudersi sulla facilità del rapporto e dell’integrazione tra le discipline, soprattutto allo stato attuale delle cose. Sappiamo quanto lavoro in più richieda condurre uno studio cognitivo in altre culture diverse dalla nostra rispetto a condurre uno studio in casa nostra. La ricerca antropologica richiede soprattutto un considerevole impegno di tempo.

Sappiamo anche che, paradossalmente, i finanziamenti convergono verso gli esperimenti che fanno uso delle tecniche più in voga (fMRI), che i giornali prestano maggiore attenzione ai risultati di questi studi, e che, per converso, lo studio antropologico è, per chi intende perseguirlo, una doppia sfida.

Dalla considerazione di questi punti nasce l’augurio che si abbia maggiore considerazione, da entrambe le parti, dell’apporto che l’antropologia può dare allo studio della cognizione umana.

Reference:

  1. Barrett, H., Stich, S., Laurence S. (2012) Should the Study of Homo sapiens be Part of Cognitive Science? Topics in Cognitive Science. Vol. 4; pp. 379-386.
  2. Levinson, S. (2003). Space in language and cognition: Explorations in cognitive diversity. New York: Cambridge University Press.

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Articolo originale pubblicato su BRAINFACTOR Cervello e Neuroscienze – Testata registrata al Tribunale Milano N. 538 del 18/9/2008. Direttore Responsabile: Marco Mozzoni.

Questo articolo è stato inoltre pubblicato nel monografico dedicato alla morale di Brainfactor Journal Vol. 5 Issue 2 pg. 2.


Francesco Margoni

Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive dell’Università di Trento. Studia lo sviluppo del ragionamento morale nella prima infanzia e i meccanismi cognitivi che ci permettono di interpretare il complesso mondo sociale nel quale viviamo. Collabora con la rivista di scienze e storia Prometeo e con la testata on-line Brainfactor. Per Scuola Filosofica scrive di scienza e filosofia, e pubblica un lungo commento personale ai testi vedici. E' uno storico collaboratore di Scuola Filosofica.

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