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Vittime e giudizio morale

La presenza di una vittima sembra essere una condizione necessaria per la formulazione di un giudizio morale. A sostenerlo era già Turiel che, nel trarre la distinzione morale – convenzionale, affermava che solo i casi di violazione morale implicano l’esistenza di una vittima. Un recente studio apparso su Psychological Inquiry sviluppa ulteriormente questa tesi, rendendola ancora più interessante.

Gli autori (DeScioli, Gilbert e Kurzban) sostengono che la vittima è un elemento tanto centrale per la formulazione di un giudizio morale che di fatto esso è rappresentato e percepito dal soggetto anche nel caso in cui la sua esistenza sia poco chiara o del tutto assente. Questa ipotesi, verificata sperimentalmente, implica l’abbandono di un certo modello della presa di decisione morale in favore di un altro maggiormente conforme ai dati sperimentali.

Possiamo pensare che il giudizio morale sorga una volta che il soggetto abbia percepito tutti gli elementi rilevanti, tra cui la presenza di una vittima. L’ipotesi di DeScioli, Gilbert e Kurzban ci conduce però a considerare le cose in modo differente. Gli autori sostengono che la facoltà morale possa essere attivata da una serie di elementi o fattori centrali che solitamente compongono gli scenari morali. Questi elementi possono includere la presenza di una vittima, di un carnefice, di un punitore o di un’azione di violazione.

L’evidenza a favore di uno o più di questi elementi sarebbe sufficiente ad attivare la computazione morale, la quale, una volta attivata, completerebbe la struttura della situazione in senso morale con gli elementi migliori a disposizione, presenti o supposti. Ad esempio, il fatto di percepire una situazione che ritrae un’azione di violazione attiverebbe la computazione morale responsabile dell’individuazione anche pretestuosa, in un secondo momento, della parte lesa dall’azione.

In sostanza, la vittima può essere percepita anche quando, di fatto, essa non è individuabile con evidenza. Lo studio empirico degli autori ha analizzato le risposte date da un campione di soggetti a situazioni potenzialmente morali caratterizzate per l’assenza di un’evidente parte lesa. Ad esempio: suicidio, abuso di droga, profanazione di tomba, aborto, cannibalismo, prostituzione, incesto etc.

La maggior parte dei partecipanti che giudicavano l’azione come moralmente disapprovabile percepivano anche la presenza di una vittima, mentre la maggior parte dei partecipanti che non davano il giudizio di disapprovazione non percepivano la presenza della vittima. Il risultato è chiaro in favore della necessità della presenza di una vittima per la formulazione di un giudizio morale e della tesi per cui la vittima viene percepita anche in assenza di alcuna o poca evidenza per essa.

Lo studio dimostra che, da una parte, la presenza di una vittima è un elemento necessario per i modelli del giudizio morale, dall’altra, che la presenza di una vittima non è un elemento di input necessario per la computazione morale. Esempi di vittime individuate sono la società, il corpo morto e l’agente stesso che diventa in questo modo sia carnefice sia vittima. Questi sono esempi di parti lese di cui non è possibile verificare l’entità o la presenza stessa della lesione, il che suggerisce due cose.

In primo luogo, un sistema che processasse innanzitutto le informazioni rilevanti per produrre poi un giudizio morale avrebbe potuto difficilmente identificare questo tipo di vittima, proprio perché l’evidenza a favore dalla natura di vittima è remota allo spettatore. In secondo luogo, un sistema di processamento come quello proposto dagli autori potrebbe appoggiarsi, in situazioni poco chiare, proprio a questo tipo di vittima poiché, di fatto, di natura infalsificabile.

Il modello proposto da DeScioli, Gilbert e Kurzban è quello di un giudizio morale funzionale al vantaggio adattivo. Un sistema di computazione accurato che si basasse su elementi di cui è disponibile vasta prova empirica non sarebbe adattivo in quanto rallenterebbe eventi cruciali per il benessere del gruppo di appartenenza come l’esecuzione moralmente giustificata del colpevole.

Un processo che invece fosse in grado di far leva anche su un’evidenza parziale per attivare la cognizione morale, e che da questa integrasse per gli elementi mancanti, sarebbe un processo funzionale alla risoluzione degli eventi cruciali per la sicurezza e il benessere del gruppo di appartenenza. Identificare, anche in modo pretestuoso, la vittima, sarebbe funzionale a convincere tutti gli spettatori della necessità di condannare il colpevole.

Quanto detto implica chiaramente che la cognizione morale umana si sarebbe formata in modo da prevedere la precedenza temporale della condanna sulla riflessione dei motivi e dell’evidenza a disposizione in grado di giustificarla.

Reference:

  1. DeScioli, P., Gilbert, SS., Kurzban, R. (2012) Indelible Victims and Persistent Punishers in Moral Cognition. Psychological Inquiry, 23: 143-149.
  2. Turiel, E. (2006) The Development of Morality, in Eisember, N., Damon, W., Lerner, RM. (a cura di) Handbook of Child Psychology, Vol 3, New York, Wiley.

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Articolo originale pubblicato su BRAINFACTOR Cervello e Neuroscienze – Testata registrata al Tribunale Milano N. 538 del 18/9/2008. Direttore Responsabile: Marco Mozzoni.


Francesco Margoni

Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive dell’Università di Trento. Studia lo sviluppo del ragionamento morale nella prima infanzia e i meccanismi cognitivi che ci permettono di interpretare il complesso mondo sociale nel quale viviamo. Collabora con la rivista di scienze e storia Prometeo e con la testata on-line Brainfactor. Per Scuola Filosofica scrive di scienza e filosofia, e pubblica un lungo commento personale ai testi vedici. E' uno storico collaboratore di Scuola Filosofica.

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