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Jean Piaget – Il giudizio morale nel fanciullo

Le jugement moral chez l’enfant è il titolo del libro, uscito nel 1932, in cui Jean Piaget, noto psicologo dello sviluppo vissuto nel secolo scorso, presenta le ricerche sul ragionamento morale dei bambini, condotte da lui e dai suoi collaboratori. Si tratta di un autentico classico della psicologia sperimentale. Le riflessioni, le ricerche, e le prospettive teoriche in esso presentate sono ancora oggi, per la psicologia del pensiero, oggetto di piena considerazione. Lo studio sul ragionamento morale condotto da Piaget ha aperto alla psicologia sperimentale un campo di indagine che prima era poco o per nulla frequentato, e proprio per questo, e per la qualità del lavoro stesso, si è imposto come riferimento essenziale per le successive generazioni di psicologi sperimentali impegnati nella comprensione della cognizione morale del bambino.

La novità di Piaget è in parte contenutistica, e così riguarda la descrizione dello sviluppo del ragionamento, e in parte metodologica, poiché lo psicologo svizzero elabora un nuovo metodo utile all’indagine sperimentale del giudizio. A grandi linee, il metodo consiste nell’intervistare il bambino utilizzando delle storielle a contenuto morale, generalmente simili ma variabili rispetto ad uno o più punti cruciali. L’idea è quella di registrare il giudizio morale del bambino impegnato a confrontare tra loro le storie, e di ascoltare le ragioni addotte a spiegazione del giudizio. In una situazione tipica, al bambino vengono raccontate due storie. Un esempio può aiutare. Prendiamo la storia di Carlo e quella di Luca. Carlo accorre ubbidiente al richiamo della madre, e accidentalmente urta contro un vassoio rompendo quindici tazzine. Luca, invece, mentre la mamma è uscita, tenta di rubare della marmellata dalla credenza, nonostante la proibizione, e nel tentativo rompe una tazzina. Ora, al bambino intervistato è chiesto di valutare chi tra i due personaggi è il più cattivo e chi merita di essere punito dalla mamma. Scegliendo di punire Carlo, il bambino intervistato valuta più le conseguenze negative che l’intenzione, mentre scegliendo di punire Luca attribuisce maggiore peso all’intenzione negativa piuttosto che alla gravità della conseguenza. Studiando bambini di diverse età è possibile stabilire se le preferenze e il ragionamento che le guida cambiano durante lo sviluppo, e in che senso. La descrizione dello sviluppo del ragionamento morale fornitaci da Piaget nelle pagine di questo libro, seppur rivista e criticata (alle volte con zelo eccessivo), come, giustamente, è stato criticato e rivisto il metodo di indagine stesso, continua ad esercitare un ruolo centrale e imprescindibile per molti psicologi dello sviluppo morale impegnati nella teoria e nella pratica sperimentale. Questo perché le idee centrali su come si sviluppi il ragionamento morale esposte in questo libro sono state perlopiù validate empiricamente da parte della ricerca successiva.

L’immagine dello sviluppo fornita da Piaget va, tuttavia, presa per quella che è, né più né meno. Innanzitutto si tratta di capire che la descrizione proposta riguarda lo sviluppo del ragionamento esplicito. Ciò esclude dal campo di indagine il comportamento morale, l’emozione o il sentimento morale, nonché lo studio del ragionamento implicito, oggi in grande espansione soprattutto nella descrizione della cognizione sociale infantile. Sicché, nell’immagine complessiva che possiamo farci della psicologia morale del bimbo, le evidenze e la prospettiva di Piaget vanno considerate, proprio come l’insieme della ricerca che ha mosso dall’originale di queste ricerche, come parte, centrale o laterale, a seconda delle posizioni teoriche personali, ma, in ogni caso, come semplice parte del fenomeno complessivo.

Con queste note introduttive ci proponiamo ora di fornire al lettore un percorso sintetico ma sufficientemente dettagliato tramite il quale scoprire il contenuto della pubblicazione di Piaget. Chi non fosse soddisfatto del grado di dettaglio, è senz’altro invitato ad approfondire sul testo originale, e così facendo a godere di un’ottima esperienza di lettura.

Prima di procedere, tuttavia, non sarà inutile spendere due parole sulla figura di Piaget. Nato nel 1896 e morto nel 1980, egli è vissuto in Svizzera, dedicando gran parte della sua esistenza allo studio dello sviluppo delle capacità di ragionamento. In psicologia si parla di processi cognitivi, e noi intendiamo le operazioni attraverso le quali la mente forma una certa conoscenza. In altre parole, intendiamo indicare l’unità di analisi o descrizione e spiegazione strutturale di base della funzione cognitiva (quale può essere il ragionamento), per mezzo della quale lo psicologo (sperimentale) arriva appunto a proporre una spiegazione di quali sono le modalità del funzionamento della funzione. L’interesse di Piaget, che ne ha definito la carriera come psicologo, è stato lo sforzo di individuazione delle strutture e dei processi cognitivi responsabili della formazione della conoscenza, e come questi vengano acquisiti o sviluppati durante la crescita. Dopo un primo periodo di formazione universitaria in Francia, Piaget ritornerà in Svizzera, dove rimarrà per il resto della sua vita, dividendo il suo tempo tra l’insegnamento universitario come professore di psicologia dello sviluppo a Ginevra, l’attività di ricerca, e così la direzione dell’Istituto J. J. Rousseau, prima, e il Centro Internazionale di Epistemologia Genetica, poi. Piaget, inoltre, è noto per aver osservato con particolare rigore lo sviluppo dei propri figli, ed aver tratto da queste osservazioni idee e riflessioni poi centrali nella sua teoria. Va comunque notato, e può essere scontato farlo, che accanto all’osservazione dei propri figli, Piaget, insieme ai suoi collaboratori, ha studiato sperimentalmente migliaia di bambini nello sforzo di comprenderne lo sviluppo dell’intelligenza.

Il cuore della sua proposta teorica consiste nella descrizione e spiegazione del processo conoscitivo come un processo mosso dalla naturale ricerca di un equilibrio per mezzo della quale l’uomo si adatta all’ambiente. Nel caso del bambino e della sua crescita, i momenti di disequilibrio, e dunque di ricerca di equilibrio, saranno molti, poiché l’ambiente pone continue sfide, in termini di novità, ad esempio parole il cui significato è oscuro, ma, ancora prima, avvenimenti fisici la cui spiegazione non è immediata od oggetti la cui manipolazione rappresenta un compito difficile. L’adattamento viene perseguito, a livello individuale, attraverso due processi: l’assimilazione e l’accomodamento. Attraverso l’assimilazione, la novità viene compresa all’interno di uno schema cognitivo o comportamentale posseduto. Se il bambino si limitasse ad assimilare oggetti (movimenti, parole etc.) sconosciuti per mezzo di schemi conosciuti, tuttavia, non avrebbe possibilità di maturare di fronte alle novità radicali del contesto. Ecco perché un secondo processo di accomodamento si occupa precisamente di modificare la struttura cognitiva o lo schema comportamentale in funzione della comprensione delle novità, le quali, se non accomodate, minerebbero l’equilibrio raggiunto nella comprensione del mondo. È questo gioco tra assimilazione e accomodamento che, secondo Piaget, spiega l’evoluzione dell’intelligenza, del ragionamento, della cognizione. Gran parte del lavoro di ricerca di Piaget sarà dedicato all’individuazione degli stadi che scandiscono questo percorso di ricerca continua dell’equilibrio. Da una parte il passaggio da uno stadio a quello successivo ha bisogno della stimolazione del contesto, dall’altra, però, la sequenza e il tempo dello sviluppo è scandito dalla natura dell’uomo. Allora, descrivere la successione degli stadi è descrivere il percorso che l’uomo è determinato a seguire, in situazioni tipiche, nella graduale comprensione del mondo, fisico, segnico e simbolico, che lo circonda.

Dopo questa doverosa parentesi, possiamo iniziare con l’esposizione del contenuto del lavoro di Piaget ‘Il ragionamento morale nel fanciullo’. Il libro è composto da quattro capitoli. Il lettore è subito avvertito che le ricerche condotte vertono esclusivamente sul giudizio morale esplicito del bambino, come già abbiamo ricordato. Il metodo di indagine consiste nel colloquiare su alcuni problemi morali con bambini in età scolastica. Con i bambini più piccoli, in età prescolare, non è, secondo Piaget, ancora possibile condurre un colloquio che produca dati validi. In ogni caso è possibile comprendere se e come i bambini, a questa tenera età, concepiscono il rispetto per la regola. Il primo capitolo è dedicato a questa domanda centrale: cos’è il rispetto per la regola secondo il bambino? La domanda è centrale e rilevante poiché, secondo l’autore, la morale nella sua essenza è il rispetto per le regole. Per rispondere alla domanda posta è stato analizzato il rispetto e la comprensione delle regole di un noto gioco sociale (le biglie). Più precisamente, la domanda ne nasconde due: quale sia la pratica della regola da parte dei bambini; quale sia la loro coscienza o comprensione della regola. Il secondo capitolo è invece dedicato all’esposizione delle ricerche volte a indagare la comprensione delle regole morali imposte dagli adulti, come ad esempio la regola di non mentire, che i bambini, inizialmente, faticano a far loro. Il secondo capitolo presenta l’idea che lo sviluppo del ragionamento del bambino inizi con una fase in cui la morale è vissuta come qualcosa di esterno, dipendente dall’autorità e dalla sanzione dell’adulto o del bambino più grande. Il terzo capitolo presenta alcune ricerche sul tema della giustizia le quali mostrano che, crescendo, il bambino acquisisce una nozione della morale maggiormente autonoma, dove il rispetto per le regole è in stretta relazione con il rispetto reciproco e la cooperazione tra individui con pari diritti. Questa comprensione è certamente stimolata dalla maggiore frequenza con cui il bambino intrattiene rapporti con i propri pari. Un quarto e ultimo capitolo è dedicato alla chiarificazione teorica dell’idea di uno sviluppo da una morale eteronoma ad una morale autonoma per mezzo di un confronto con alcune posizioni filosofiche e sociologiche a cui Piaget dava particolare valore. Quest’ultimo capitolo ci interessa meno, poiché le idee essenziali sono tutte espresse chiaramente nei primi tre capitoli. Di conseguenza sarà considerato brevemente.

Capitolo 1 – Le regole del gioco

La riflessione teorica che guida le scelte metodologiche di Piaget è questa: che «ogni morale consiste in un sistema di regole, e l’essenza di ogni moralità va ricercata nel rispetto che l’individuo nutre per queste regole». Nei giochi infantili Piaget scorge delle istituzioni sociali, e nel gioco delle biglie, che tra i tanti seleziona per la sua diffusione tra i bambini studiati, per l’alta complessità e ricchezza delle regole, e per il fatto che le regole sono in parte elaborate dai bambini stessi, scorge, nella sostanza, un sistema complesso di regole. Così il gioco del bambino può essere paragonato alla morale dell’adulto. Entrambe le istituzioni sono, nella sostanza, dei sistemi complessi di regole. L’interesse principale di Piaget, in questo primo capitolo, è spiegare in che modo la coscienza dei bambini arriva a rispettare le regole. Ora, non importa veramente che le regole non siano morali perché l’analisi possa informare in maniera significativa lo studio dello sviluppo della psicologia morale. Infatti, l’obiettivo non deve essere quello di trovare la morale dell’adulto nel bambino, ma piuttosto quello di indagare lo sviluppo delle componenti credute centrali ad individuare la capacità adulta di giudizio morale. Queste componenti, prese in sé, non necessariamente devono avere qualcosa di morale. Una di queste, la più centrale e il vero e proprio incominciamento della morale, è senz’altro il rispetto per la tradizione, il rispetto per le regole della tradizione.

Nello studio delle regole del gioco possono essere distinti due fenomeni di interesse per lo psicologo. Il primo è la pratica delle regole, ovvero come queste vengono di fatto applicate nella pratica quotidiana del gioco da parte dei bambini. Il secondo è la coscienza della regola, ovvero il modo con cui il bambino rappresenta e vive il carattere obbligatorio della regola, i diversi modi con cui il bambino concepisce la regola, come qualcosa che obbliga dall’esterno in maniera poco comprensibile oppure come qualcosa che obbliga in funzione di una convenzione stabilita dal gruppo, come un assoluto inviolabile o come un pratica degna di rispetto ma relativa all’accordo comune.

Il metodo favorito da Piaget per illuminare la psicologia di questi due fenomeni consiste nel giocare con il bambino alle biglie e nel colloquiare con lui riguardo al gioco, alle regole e al rispetto per esse. Il colloquio serve precisamente a chiarire a) in che modo i bambini si adattano poco per volta alle regole del gioco, e b) quale coscienza hanno delle regole, in che grado e in che senso queste rappresentano per loro un obbligo. Per rispondere ad (a), Piaget pensa bene di chiedere ai bambini come si gioca alle biglie, e di giocare con loro. Per rispondere a (b), è necessaria una seconda parte del colloquio, più articolata rispetto alla prima, in cui al bambino viene chiesto di inventare una nuova regola, di ragionare su cosa potrebbe verosimilmente succedere se decidesse, per ipotesi, di introdurla nel suo gruppo di amichetti, ed infine di giudicare se la regola così introdotta è giusta, vera, reale. Sostanzialmente si tratta di indagare se il bambino ritiene legittimo cambiare le regole del gioco. In altre parole, lo psicologo vuole rispondere alla domanda perché una regola è considerata giusta dal bambino. Lo è perché è accettata da tutti oppure perché è ‘sacra’, perché è dotata di un valore intrinseco ed eterno? Stabiliti questi punti, è opportuno approfondire il colloquio domandando al bambino se si è sempre giocato come adesso e quale sia l’origine delle regole. Queste sono originate dalla fantasia degli adulti, i quali poi le hanno imposte ai bambini, oppure sono inventate dai bambini stessi? Il senso complessivo del colloquio è stabilire secondo quale carattere vengono rappresentate le regole durante le diverse fasi della crescita. Possiamo pensare che un carattere più primitivo con cui il bambino pensa la regola sia quello della regola come inviolabile ed eterna, stabilita dall’autorità insindacabile ed oscura dell’adulto o del bambino più grande. La regola ha carattere mistico ed eteronomo. Al contrario, un carattere più evoluto della regola può essere rappresentato dall’autonomia e dalla convenzionalità.

Può essere utile considerare brevemente i risultati ottenuti dal colloquio, prima di considerarli in maggiore dettaglio. La prima parte del colloquio ed il gioco con i bambini ha permesso a Piaget di individuare quattro stadi nella pratica delle regole. In un primo stadio, motorio ed individuale, le regole non sono propriamente tali, poiché non sono rappresentate come collettive e sono piuttosto degli schemi motori che si ritualizzano e acquistano, nel gioco, valore simbolico per l’individuo. In un secondo stadio, egocentrico, che compare tra i due e i cinque anni, il bambino imita l’esempio esterno dell’aderenza alla regola, e tuttavia gioca ancora da solo. Un terzo stadio, di cooperazione incipiente, il quale compare tra i sette e gli otto anni, è caratterizzato da un gioco collettivo dove tuttavia nessuno sembra sorprendersi del fatto che ognuno gioca con regole diverse. Un quarto stadio, infine, che compare verso gli undici anni, è caratterizzato da una codificazione delle regole comune all’intero gruppo dei pari. Per quanto concerne la coscienza delle regole, è invece possibile distinguere tre livelli. Durante l’età prescolare la regola non ha carattere coercitivo. Dai sei ai nove anni la regola è invece sacra e intangibile, la sua origine è esterna rispetto al gruppo dei pari. Dopo i dieci anni il bambino concepisce la regola come una legge consensuale, come il prodotto di una convenzione e della coscienza autonoma degli individui che si impegnano a rispettarla. La chiave dello sviluppo, ciò che permette di fare il salto qualitativo da una coscienza eteronoma ad una autonoma, è la collaborazione o cooperazione, in particolare quella dei bambini tra loro, ovvero l’esperienza della democrazia.

La pratica della regola

Abbiamo detto che un primo livello è caratterizzato dall’assenza di regole vere e proprie. Durante i primi anni dello sviluppo il bambino indugia in rituali motori e pratiche simboliche ludiche ma pur sempre individuali. Ora, poiché la regola non può essere che collettiva – se fosse individuale sarebbe semplice regolarità, e il rispetto della regola non è altro che piacere per la regolarità – segue che in assenza di società non ci sono regole e coscienza dell’obbligo. Durante la prima fase, il bimbo non vive propriamente una vita sociale, per quanto non manchino gli scambi con gli altri. Il bimbo si separa gradualmente dalla realtà che lo circonda per acquistare consapevolezza di sé come parte separata dal tutto. Ciò che importa notare, tuttavia, a proposito di questo livello, è che rituale e simbolismo rappresentano comunque una condizione necessaria, anche se non sufficiente, come abbiamo visto, allo sviluppo di regole e segni collettivi. Poiché non esiste regola senza l’obbligo di rispettarla, e non esiste questo senza società, è necessario aspettare che il bambino interagisca con gli altri come parte di una società. Inoltre, il rapporto del soggetto con la regola implica sempre un certo elemento di sottomissione, elemento assente nel rapporto dell’infante con la realtà, poiché egli non è chiaramente separato dalla realtà. Il rituale è assoluto, in questo senso, ma non è esterno all’individuo. Occorre, poi, sottolineare un’ulteriore aspetto dello sviluppo della pratica della regola. Se esistono elementi di continuità tra i rituali e i simboli individuali del gioco motorio dell’infante, da una parte, e la regola e l’insieme dei segni, dall’altra, bisogna chiarire che tra di essi vi sono differenze qualitative rilevanti. Si tratta della differenza tra un comportamento che viene attuato fuori dalla società, poiché il bambino non è separato dalla realtà come individualità, e un comportamento che acquista la propria ragione in funzione delle aspettative della società. Anche perché il segno, preso a sé stante, è astratto, arbitrario e incomprensibile, proprio perché necessità di una comunità che lo legittimi.

Il secondo livello, caratterizzato dall’egocentrismo nell’applicazione delle regole, segna un momento di passaggio tra una condotta chiusa alla società e una condotta socializzata. Il bambino, nella sostanza, gioca individualmente, per sé stesso, ma con una materia dai contorni sociali. Il bambino imita senza molta consapevolezza l’aderenza alla regola dell’adulto o del bambino più grande. Egli non entra veramente in rapporto con l’altro giocatore, e tuttavia è mosso dalla volontà di sentirsi parte della comunità dei giocatori grandi, che rimane in lui un ideale astratto dai contorni confusi. Proprio perché le regole provengono dall’alto, o da lontano, comunque dall’esterno, esse sono comprese come qualcosa di assoluto. Ma, in sostanza, non sono comprese nella loro ragione, e questo determina che il bambino scambi facilmente la propria fantasia per l’aderenza ad una regola.

Con il terzo livello, relativo alla pratica della regola, il bambino incomincia a mostrare un autentico bisogno di trovare un’intesa reciproca con il prossimo, di incontrare l’altro nel gioco per mezzo dell’osservazione delle regole comuni. Tra questo livello e quello successivo c’è una differenza di grado, non qualitativa. Semplicemente, nella terza fase i bambini non dominano ancora perfettamente la conoscenza delle regole, le quali, dunque, variano ampiamente da bambino a bambino. Solo giocando tra loro, e per la durata di una partita, i bambini riescono a capirsi. Dunque, questa fase è caratterizzata da una forte volontà da parte del bimbo di cooperare e giocare con regole stabili e comuni, e tuttavia vi è un’ampia variabilità intersoggettiva nella comprensione di queste regole. Al quarto livello, il bambino invece conosce bene le regole comuni e non è raro che si impegnino in discussioni dal carattere giuridico. L’interesse non è più o soltanto nel gioco, ma è volto anche o piuttosto principalmente alla regola in quanto tale. Il bambino prova piacere nel discutere questioni che definiremmo giuridiche o di principio, poiché riguardano l’applicazione e la legittimità delle regole, quelle tradizionali e quelle nuove. Abbiamo visto, dunque, che l’individuo, crescendo, parte da uno stadio iniziale caratterizzato da semplici regolarità individuali, per poi passare all’imitazione dei grandi comunque coniugata con l’egocentrismo nel gioco, ed infine arrivare alla cooperazione genuina e all’interesse per la regola stessa.

La coscienza della regola

Abbiamo già detto che rispondere alla domanda se e a quale età la regola del gioco acquista carattere obbligante per il bambino è senz’altro rilevante per l’analisi più generale dello sviluppo della psicologia morale. Proprio perché la morale è un insieme di regole e la moralità è, nella sua essenza, il rispetto per esse. Rispettare le regole del gioco è dunque la base su cui l’individuo costruirà la sua moralità adulta. Possiamo distinguere tre livelli nella comprensione del carattere obbligante della regola da parte del bambino.

In un primo livello, caratterizzato da abitudini o rituali puramente individuali, il bambino non ha alcuna vera coscienza dell’esistenza della regola e, di conseguenza, del suo carattere obbligante. In bambino, semmai, indugia in regolarità motorie, da cui trae piacere, ma queste regolarità non possono essere accostate alle regole poiché non c’è un ambiente sociale strutturato da cui provengono queste regole, non vi sono autorità che sanciscono queste regolarità. La seconda fase inizia nel momento in cui il bambino incomincia a voler giocare secondo delle regole ricevute dall’esterno. Il lettore a questo punto deve sapere che Piaget ha utilizzato tre domande per indagare la coscienza della regola: possono le regole essere cambiate? Esse sono sempre state quelle di oggi? Come sono incominciate? A partire dai sei anni, ovvero dall’inizio di questa seconda fase, il bambino considera le regole sacre e intangibili, esse non possono essere cambiate. Paradossalmente, ma solo in apparenza, i bambini in età prescolare sembrano rispondere in maniera più liberale. Tuttavia, ciò è un’illusione determinata dal fatto che a questa tenera età essi ancora non comprendono l’innovazione. Il bambino piccolo confonde sistematicamente ciò che inventa e ciò che ricorda, sicché la nuova conoscenza viene percepita come proveniente dall’esterno. Non c’è differenza tra la sua fantasia e una regola imposta dall’esterno. Ciò che è interno e ciò che è esterno si confondono, e nel momento in cui un’invenzione personale deve essere valutata comparativamente ad una legge tradizionale esterna, il bambino non scorge la reale differenza tra le due, ed accetta il cambiamento nella misura in cui non lo comprende.

Ora, come il bambino cresce ed entra nella seconda fase della coscienza della regola, egli incomincia a considerare sacre ed immutabili le regole, e a rifiutare ogni istanza di cambiamento rispetto alla tradizione. Eppure, a questa stessa età, il bambino è egocentrico nella pratica delle regole. Per capire questo particolare connubio tra egocentrismo, dunque libertà di giocare con qualsiasi regola del momento, e rifiuto di ogni eventuale cambiamento della regola considerata sacra, dobbiamo specificare che l’egocentrismo è presociale in rapporto alla cooperazione ma non in rapporto alla costrizione. Quest’ultima forma di relazione è propria della seconda fase e determina il fatto che la regola sia concepita come sacra ma esteriore alla coscienza del bambino. Poiché esteriore, la regola non riesce veramente a trasformare il comportamento, e non viene praticata. In questo senso, il giudizio del bambino sulle regole riflette contenuti esterni e non valutazioni introiettate. Piano piano la cooperazione tra pari trasformerà questo stato di cose, prima influenzando la pratica e poi il pensiero del bambino. Lo sviluppo di questo, infatti, è, come regola generale, sempre in ritardo rispetto allo sviluppo di quella.

Con il terzo livello, dai dieci anni in poi, assistiamo ad una trasformazione qualitativa della coscienza della regola. Il passaggio può essere sintetizzato con l’espressione ‘all’eteronomia succede l’autonomia’. Per tanto, la regola ora diventa il risultato di una libera e comune decisione. Il bambino accetta il cambiamento della regola purché tutti siano d’accordo; egli smette di credere che le regole siano eterne e trasmesse senza mutazioni; infine, sull’origine del gioco, il bambino inizia a formarsi un’opinione simile a quella dell’adulto, ovvero i primi giocatori devono aver provato piacere a lanciare dei sassi arrotondati e, man mano, su iniziativa dei bambini o dei giocatori stessi, sono state codificate le regole. A questo livello si assiste all’unione tra cooperazione ed autonomia, che sostituisce il binomio del livello precedente: egocentrismo e costrizione. Ed è proprio nel momento in cui la regola che nasce dalla cooperazione sostituisce la regola come prodotto di una costrizione, che, secondo Piaget, la regola assomiglia veramente alla legge morale. Il passaggio è fondamentale: dalla schiavitù del costume e della tradizione alla cooperazione, discussione e reciprocità assunti ad ideali procedurali per mezzo dei quali stabilire le regole. A questo punto le regole sono giuste perché sono accettate dalla maggioranza e conformi allo spirito di reciprocità del gioco. È la nozione morale del giusto e dell’ingiusto che regola il costume, e non più viceversa. Se le regole sono il frutto della cooperazione tra i pari, cade, di conseguenza, la credenza nell’origine adulta ed esterna della regola, e la libertà di legiferare del bambino, o meglio, del gruppo dei pari, viene accettata.

Arrivati a questo punto della discussione dobbiamo notare che i bambini finora studiati da Piaget sono tutti di genere maschile. Le biglie sono un gioco per maschietti, e non è un caso, secondo lo psicologo svizzero. Le biglie, infatti, sono un gioco ricco di regole e un ottimo stimolo alla discussione giuridica tra i bambini. Le femmine, avendo uno spirito giuridico meno sviluppato rispetto a quello dei maschi, non hanno giochi ricchi di regole e stimoli giuridici, e dunque si prestano meno ad essere studiate con il metodo utilizzato per l’indagine della pratica e della coscienza della regola nei maschi. Per tentare, comunque, di generalizzare i risultati anche alla popolazione femminile, Piaget intervista delle bambine con un gioco diverso, il gioco del nascondino in una delle sue varianti (ilet cachant). I risultati mostrano che, nel complesso, lo sviluppo coincide con quello trovato studiando le risposte dei maschietti. Eppure, bisogna sottolineare una differenza rilevante. Seppure le bambine, come i bambini, arrivano a concepire le regole come strumenti utili a realizzare un accordo cooperativo, di questo accordo parlano raramente in maniera esplicita. Rispetto ai maschietti, dunque, le femminucce mostrano molto meno interesse per la discussione e l’elaborazione giuridica. Certo, questa conclusione potrebbe essere criticata notando che la loro elaborazione è stata studiata usando un gioco relativamente semplice e povero di regole, il nascondino. Tuttavia, Piaget ragiona che proprio il fatto che le bambine giochino solamente a questo tipo di giochi, giuridicamente poveri, è un indizio fin troppo evidente della loro coscienza.

Conclusioni al primo capitolo – la regola motoria e i due tipi di rispetto

 Una domanda centrale e così trasversale a tutto il lavoro di Piaget è se lo sviluppo (es. nella pratica e nella coscienza della regola) sottenda un cambiamento di natura o piuttosto di grado, e cosa si debba intendere con queste due espressioni. La questione è complicata dal fatto che, in psicologia, secondo Piaget e apparentemente, ogni differenza di grado è anche una differenza di qualità, e non può darsi una differenza di natura o qualitativa senza una continuità, almeno a livello funzionale. Di conseguenza, è necessario attribuire significati chiari a queste espressioni: ‘natura’, ‘qualità’, ‘discontinuità’, ‘cambiamento concettuale’, da una parte, e ‘grado’, ‘continuità’, ‘cambiamenti generali’, dall’altra. Per Piaget, la differenza è di natura, qualitativa o discontinua se «vi sono nel bambino degli atteggiamenti e delle credenze che lo sviluppo intellettuale eliminerà nella misura del possibile; se ve ne sono altri che acquisteranno sempre di più importanza; e, fra i primi e i secondi, non vi è semplice filiazione, ma antagonismo parziale.» Ora, il fatto che ci sia antagonismo tra gli stadi dello sviluppo non significa eliminare ogni continuità tra gli stadi, poiché la continuità funzionale rimane, ovvero gli atteggiamenti e le credenze nuove svolgono la stessa funzione in relazione all’adattamento all’ambiente che svolgevano le vecchie credenze e i vecchi atteggiamenti. Inoltre, «poiché lo spirito è uno», atteggiamenti e credenze infantili si ritroveranno ancora nell’adulto, solamente in misura ridotta. Ciò che separa l’adulto dall’infante, allora, è una grossa differenza qualitativa, eppure questa differenza è allo stesso tempo una differenza di dosaggio, la quale, inoltre, sottende una continuità funzionale. La differenza qualitativa o di natura va riferita alla struttura. Sono queste, le strutture, che cambiano con lo sviluppo e danno vita a cambiamenti discontinui o qualitativi. In ogni caso, per quello che abbiamo detto, è chiaro che le divisioni dei fenomeni psicologici in livelli è, in una certa misura, arbitraria, e Piaget ne era perfettamente consapevole. Al netto di tutte le approssimazioni necessarie, lo psicologo svizzero pensa che le ricerche sperimentali finora esposte abbiamo almeno messo in evidenza l’esistenza di tre tipi di regole: la regola motoria, la regola coercitiva, e quella razionale.

La regola motoria è formata dalla cosiddetta intelligenza motoria preverbale ed è del tutto indipendente rispetto alla logica dei rapporti sociali. Quando il bambino riesce a trovare un equilibrio funzionale tra l’assimilazione della novità a schemi motori anteriori e l’accomodamento degli schemi alle condizioni ambientali presenti, egli ritualizza gli schemi di adattamento così sviluppati. In questo senso, la prima regola, se di regola possiamo parlare, nasce come abitudine. Evidentemente, a questo stadio dello sviluppo c’è solo ancora coscienza della regolarità, e non della regola. Quest’ultima ha bisogno di una figura autoritaria separata rispetto all’individualità del bambino. Ma, nondimeno, è da queste prime regole motorie che nasce la trasformazione che porterà allo sviluppo delle regole razionali.

Trasformazione che deve passare per lo sviluppo della regola coercitiva, sorta di unione tra il rispetto unilaterale per l’autorità esterna e distante e l’egocentrismo della pratica. L’individuo è sino dalla tenera infanzia immerso in una realtà sociale, eppure ancora a questo livello egli rimane egocentrico, poiché non si rapporta all’altro come se fosse parte di una società. O meglio, in rapporto alla cooperazione, rapporto che definirà il livello successivo, il bambino vive in uno stato presociale ed egocentrico, dove l’unico rapporto parasociale con l’altro è il rapporto di costrizione e dominanza dell’adulto sul bambino. La propria fantasia è allo stesso tempo mescolata e confusa con le opinioni altrui, dei più grandi o della tradizione; così, gli esempi che adotta nel comportamento sono interpretati del tutto a suo modo, secondo logiche estranee a quelle dell’adulto. Questa confusione è originata dalla mancata separazione dell’io dal mondo, che, per altro e fondamentalmente, determina l’impossibilità di ogni autentica collaborazione con gli altri. L’individuo è chiuso nel suo mondo poiché egli è il mondo. È nel momento in cui il bimbo si libera del rapporto di dipendenza dall’altro, che egli diventa cosciente del proprio io. Si vede così che egocentrismo e coercizione esercitata dal bambino più grande e dall’adulto non sono aspetti separabili ed anzi si rafforzano a vicenda.

Il punto di approdo dello sviluppo è senz’altro la formazione di regole razionali, attraverso il rapporto di rispetto reciproco e di collaborazione con i pari. L’io si separa dal mondo e dalla sudditanza rispetto al pensiero altrui. Acquistando individualità e personalità, l’io si apre al rapporto reciproco con l’altro e alla cooperazione. La cooperazione, in questo senso, è la chiave dello sviluppo per una moralità matura. Possiamo affermare che questo è senz’altro il messaggio centrale del libro di Piaget. È grazie alla collaborazione e al rispetto reciproco che il bambino compie un salto qualitativo nello sviluppo della sua moralità. È interessante notare come, tuttavia, il rispetto reciproco non sia poi altro che la forma di equilibrio a cui tende il rispetto unilaterale, una volta che il contesto in cui vive il bambino sia formato da pari, dal momento che il bambino cresce e smette di essere un bambinetto, e che la cooperazione sia, per le stesse ragioni, la forma di equilibrio a cui tende la costrizione. Va chiarito, in ogni caso, che la razionalità delle regole non riguarda propriamente le regole stesse nel loro contenuto particolare, ma piuttosto la procedura per mezzo della quale si arriva a formarle ed accettarle. Vanno tenute separate, in questo senso, la ‘ragione costituente’ e la ‘ragione costituita’. Se nei bambini più piccoli il rispetto è dovuto alla ragione costituita, nei bambini più grandi il rispetto è dovuto alla ragione costituente, la sola che rende possibile la cooperazione e la reciprocità nel gioco e nella vita morale degli individui.

Ora, è possibile domandarsi, in vista del passaggio dallo studio delle regole del gioco alla morale vera e propria inizialmente imposta dall’adulto al bambino, come l’iniziale morale del dovere permetta la comparsa della morale del bene. Dove per morale del bene si intende la virtù, ovvero non semplicemente ciò che è vietato o obbligatorio, ma ciò che attira un carattere virtuoso. Come si passa da una morale eteronoma e coatta ad una morale autonoma, la quale stabilisce razionalmente una gerarchia di valori? L’abbiamo già visto. Per Piaget è il rispetto reciproco, da cui la formazione della regola razionale, che spiega il passaggio fondamentale tra eteronomia ed autonomia della moralità. Ed è questa fondamentale differenza tra eteronomia ed autonomia, moralità vissuta come costrizione ed esterna o piuttosto moralità vissuta come prodotto razionale della vita in comune, compresa ed accettata internamente dal singolo individuo, a dover rappresentare l’oggetto di studio di ogni ricerca che promette di descrivere e spiegare lo sviluppo del ragionamento morale.

Capitolo 2 – l’eteronomia e il realismo morale

Il presente capitolo e quello successivo sono dedicati all’analisi dello sviluppo del giudizio morale stesso. È perlopiù dovuto a difficoltà di ordine tecnico e metodologico che Piaget limita lo studio al fenomeno della coscienza della regola e al giudizio morale teorico e non esaurisce le nostre curiosità sulla pratica della morale. Ragioni teoriche più generali, invece, lo tengono lontano dall’indagine del sentimento e dell’emozione morale. In questo secondo capitolo verranno chiariti gli effetti della costrizione morale, dunque il giudizio morale dei bimbi più piccoli, mentre nel capitolo successivo verranno analizzati i giudizi morali nati dalla cooperazione e dalla pratica del rispetto reciproco. Si sarà probabilmente compreso che l’indagine del giudizio morale porterà Piaget a rinvenire uno decorso evolutivo del tutto simile, nelle sue linee generali, a quello illuminato dallo studio della coscienza delle regole del gioco, visto nel capitolo precedente.

Introduciamo subito i concetti centrali che definiscono il giudizio morale dei bambini più piccoli. Innanzitutto il concetto di ‘realismo morale’. Con esso Piaget intende «la tendenza del bambino a considerare i doveri e i valori che vi si riferiscono come sussistenti in sé, indipendentemente dalla coscienza e come realtà che si impongono obbligatoriamente, qualunque siano le circostanze in cui l’individuo si viene a trovare.» In questo senso, il realismo morale implica tre caratteri. Innanzitutto, il dovere è eteronomo. Dunque, il bene è identificato con l’obbedienza ad un’autorità esterna rispetto alla propria coscienza. Il dovere, così concepito, deve essere rispettato od obbedito più alla lettera e meno nello spirito. Coerentemente con quest’ultimo carattere, la responsabilità è attribuita in maniera oggettiva, ovvero gli atti non acquistano valore morale in funzione dell’intenzione che li ha originati, ma piuttosto in funzione della loro conformità materiale con la lettera delle regole vigenti.

Introdotti i concetti di realismo morale e responsabilità oggettiva possiamo ora considerare quale è il metodo usato da Piaget per lo studio del giudizio morale del fanciullo. Idealmente, secondo lo psicologo svizzero, sarebbe dovuto essere l’osservazione pura, nel contesto familiare. Tuttavia, l’osservazione, oltre ad essere impegnativa e dunque a non permettere la raccolta di dati sufficienti, non permette la raccolta di fatti completi. Il metodo scelto da Piaget è, invece, il colloquio. Come abbiamo già avuto modo di chiarire, il colloquio permette di studiare selettivamente il giudizio morale, e non già il comportamento. L’oggetto di studio, per tanto, non consiste nell’atto morale o nel giudizio pratico formulato prima o dopo l’atto, ma consiste nel giudizio morale su situazioni astratte descritte al bambino per mezzo di storielle. Solitamente al bambino vengono raccontate non più di due storielle, ed il bambino è invitato a classificarle secondo un criterio morale (es. chi è il bambino più cattivo? Chi merita di essere punito? Chi ha fatto la cosa più giusta?). Alla risposta del bambino segue un colloquio libero con il quale lo psicologo intende comprendere le ragioni che hanno portato il bambino alla sua valutazione. Si tratta di un metodo indiretto per lo studio del giudizio pratico del bimbo, ma uno che permette un’indagine strutturata, che porta alla raccolta di dati generalizzabili e sufficientemente esaurienti.

Una questione critica può essere sollevata rispetto all’oggetto di indagine scelto, e la risposta di Piaget merita di essere riportata in funzione di un chiarimento generale sugli scopi e i perché della sua indagine. Può essere sollevato il problema che ciò che il bambino pensa riguardo alla morale possa essere del tutto separato rispetto a come egli si comporta. Questo, evidentemente, è un problema di natura molto generale, che chiama in causa la relazione di aderenza tra il pensiero verbale o astratto o teorico e il pensiero concreto o pratico, ovvero il pensiero che realmente guida, nelle specifiche situazioni, il comportamento. Questo problema, nella sua generalità, è chiaramente lasciato aperto da Piaget, il quale prende la decisione di studiare solamente il pensiero verbale, anche per le ragioni di ordine pratico e metodologico riportate. Inoltre, va chiarito che l’interesse dello psicologo svizzero non è nella relazione tra pensiero verbale e azione, ma tra pensiero verbale o teorico e pensiero concreto o pratico. È possibile che, come avviene in altri campi dello sviluppo psicologico, vi sia un ritardo sistematico tra pensiero concreto e verbale, con il primo che precede nel decorso evolutivo il secondo. Questo ha senso se concepiamo il pensiero teorico come una riflessione su e a partire dal giudizio pratico. Ha senso, in sostanza, se pensiamo che vi sia una relazione tra i due tipi di pensiero. Tuttavia, può anche non darsi alcuna relazione. In questo caso, la teoria morale del bambino si ridurrebbe ad un semplice chiacchiericcio, oppure sarebbe spiegata esclusivamente dalla volontà del bambino di incontrare le aspettative dell’adulto. Possedere una risposta certa su questo punto non è scontato, e tuttavia Piaget pensa di poter avere almeno un indizio di soluzione. Ragionando per analogia con quanto emerso dall’analisi della pratica e della coscienza della regola del gioco, possiamo forse ipotizzare che anche nel campo della morale vi sia una relazione di corrispondenza tra giudizio verbale e pratico, dove il primo si sviluppa in ritardo sistematico rispetto al secondo.

La responsabilità oggettiva

Nell’esposizione dei risultati riguardanti l’indagine sul realismo morale caratterizzante la moralità del bambino più piccolo, e lo studio sull’attribuzione della responsabilità in maniera oggettiva, ovvero se l’attribuzione del valore morale è in funzione della conformità della conseguenza causata alla regola posta dall’adulto piuttosto che in funzione dell’intenzione con cui l’azione è stata perseguita, Piaget inizia illustrando la ricerca sui giudizi di casi di sbadataggine. Questi casi sono senz’altro i più noti agli studiosi e agli studenti di psicologia, e solitamente vengono utilizzati proprio per esemplificare gli stimoli sperimentali usati da Piaget nello studio del giudizio morale del bambino.

L’idea è di proporre al bambino due storie da paragonare. La prima storia racconta di un atto sbadato fortuito, conseguenza di un’azione ben intenzionata, che nondimeno, però, causa un danno materiale grave. Perlomeno il danno è grave rispetto al danno minore provocato dall’azione di cui invece si racconta nella seconda storia, azione però scaturita da un’intenzione malevole. Tra le diverse coppie usate da Piaget, ne riportiamo una ad esempio:

  1. Un bambino piccolo, di nome Giovanni, era nella sua camera. È stato chiamato per il pranzo, sicché è entrato nella stanza da pranzo. Tuttavia, dietro la porta vi era una sedia, e sulla sedia vi era un vassoio con quindici tazze. Giovanni non poteva sapere che vi era tutto questo dietro la porta. È entrato, la porta ha urtato il vassoio, e, patatrac, le quindici tazze si sono rotte.
  2. C’era una volta un bambino di nome Enrico. Un giorno che la mamma non c’era, egli ha voluto disobbedire e prendere della marmellata nella credenza. È salito su una sedia e ha steso il braccio. Tuttavia, la marmellata era troppo in alto, e non ha potuto prenderla. Tentando di prenderla, ha però urtato una tazza, la quale è caduta e si è rotta.

Oltre alle storie sulla sbadataggine, Piaget propone ai bambini di paragonare tra loro delle storie sul furto. Anche in questo caso, abbiamo una storia di un furto minore dettato da un’intenzione egoistica e una storia di un furto maggiore dettato però da una buona intenzione o da un’intenzione altruistica. Un esempio: rubare un panino per sfamare l’amico povero e affamato oppure rubare un nastro per sé stessi; liberare l’uccellino dell’amica perché soffre nella sua gabbia oppure rubare per sé stessi alcuni confetti della mamma. Una volta ascoltate le due storielle, ai bambini venivano poste due domande. La prima chiedeva di stabilire se i due bambini protagonisti delle storie sono egualmente cattivi, oppure uno lo è più dell’altro. La seconda domanda invitava il bambino a stabilire chi tra i due è il più cattivo o merita di essere punito, e perché. Prima di interrogare il bambino con queste domande, a cui segue un colloquio per capire le ragioni del giudizio, il bambino è invitato a ripetere le storie, in modo da assicurarsi una piena comprensione da parte dell’intervistato. È importante notare che le interviste condotte da Piaget non sono perfettamente rigide o strutturate, dal momento che l’intervistatore varia la modalità di presentazione della domanda da bambino a bambino, tenendo costante solamente la volontà di comprendere il ragionamento dell’intervistato. Sicché, ad alcuni bambini è chiesto di valutare chi è il bambino più cattivo, mentre ad altri è chiesto di valutare chi merita di essere punito, ad altri ancora è chiesto chi la mamma o il papà o l’insegnante sgriderebbe e perché, e così via. L’obiettivo, però, è unico: cercare di stabilire se il bambino giudica più grave l’intenzione oppure il danno materiale, e per quale ordine di ragioni.

Poiché il compito di paragonare due storie secondo criteri morali non è semplice, richiede sviluppate capacità attentive, di memoria, e in generale intellettive, Piaget esclude dall’interrogazione i bambini in età prescolare. I bambini di sei anni, dunque, sono i più piccoli tra quelli intervistati. Ora, in breve, possiamo dire che le risposte ottenute hanno permesso a Piaget di concludere che fino ai dieci anni, coesistono nel bambino due tipi di risposte. Da una parte, la responsabilità morale è attribuita in maniera oggettiva, ovvero le azioni sono valutate per le conseguenze materiali che provocano, dall’altra, la responsabilità morale è attribuita in maniera soggettiva, dunque le azioni sono pesate secondo le intenzioni da cui scaturiscono. Se questo è vero, in generale assistiamo comunque ad uno sviluppo graduale dall’attribuire la responsabilità in maniera oggettiva al farlo in maniera soggettiva. La responsabilità oggettiva diminuisce con l’età, ed è molto forte nei bambini più piccoli con un’età media di sette anni, e comunque non è presente dopo i dieci anni. I bambini più piccoli, pertanto, giudicano essere Giovanni il bambino più cattivo, poiché egli ha rotto quindici tazze. La responsabilità soggettiva aumenta con l’età ed è molto forte nei bambini più grandi con un’età media di nove anni, per poi essere l’unica modalità di attribuzione della responsabilità dei bambini che hanno superato il decimo anno di vita. A quest’età i bambini giudicano essere Enrico il bambino più cattivo, poiché era malintenzionato. In sostanza, le due modalità con cui attribuire la responsabilità morale sono due processi distinti, di cui, a grandi linee, uno precede evolutivamente l’altro. Sebbene interferiscano l’uno con l’altro durante lo sviluppo, l’attribuzione soggettiva di responsabilità finisce per predominare in maniera assoluta. Una nota importante è questa: quando i bambini vengono interrogati a proposito di storie personali a connotazione morale, ad esempio è possibile chiedere al bambino di ricordare degli episodi personali simili a quelli raccontati con le due storielle, il bambino è favorito nell’attribuzione della responsabilità in maniera soggettiva, ovvero l’intenzione è valutata con maggiore peso rispetto alle conseguenze.

Ora, una questione non secondaria è stabilire se i bambini più piccoli, nel giudicare la cattiveria morale, non stiano invece stabilendo il grado di sanzionabilità giuridica, rappresentato dalla punibilità del personaggio, ovvero non stiano giudicando secondo dei criteri extra-morali. Piaget, riguardo a questo punto, argomenta che l’attribuzione di responsabilità in maniera oggettiva, ovvero secondo la valutazione delle conseguenze (materiali) causate dall’azione, è perfettamente morale, poiché i bambini intervistati non hanno mai fatto menzione della distinzione o questione di cui sopra. Potremmo ipotizzare che i giudizi guidati dalla disapprovazione per le conseguenze materiali non siano spontanei nel bambino, e che invece riflettano il rispetto che il bambino porta all’adulto, in funzione delle sanzioni ricevute dall’adulto per i danni materiali provocati. In parte, secondo Piaget, ciò è vero, poiché la responsabilità oggettiva è anche un prodotto della costrizione morale adulta. Tuttavia, va rilevato che il bambino piccolo è naturalmente più oggettivista (nel senso in cui stiamo usando questo termine) dell’adulto e, naturalmente, non distingue affatto tra aspetti giuridici e morali. La valutazione basata sulle conseguenze, dunque, non deriva dall’apprendimento di un contenuto specifico trasmesso dal genitore. Piuttosto, le regole imposte dall’adulto, nella loro forma e non nel loro spirito o contenuto, rappresentano, inizialmente, degli obblighi categorici per il bambino. Il realismo morale, ovvero la valutazione delle regole come sacre e inviolabili, e la severa valutazione delle conseguenze come prova diretta dell’empietà, sono i prodotti della costrizione (pur necessaria, dell’adulto sul bambino nei primi anni di vita) e del rispetto unilaterale del bambino per l’adulto. Sarà poi la cooperazione, e il desiderio di rispettare reciprocamente l’altro e di piacere al gruppo piuttosto che di obbedire alla forma della regola che porterà il bambino verso una nozione soggettiva di responsabilità.

 Oltre alle storielle sugli atti di sbadataggine e furto, ai bambini sono state raccontate anche delle storielle che coinvolgono la menzogna. Dire le bugie, per il bambino piccolo, è naturale, considerando il suo egocentrismo che lo porta a mentire come fabula o gioca, e non è ancora sentito come qualcosa di moralmente sbagliato. Al contempo il genitore sanziona la bugia. Cosicché il bambino sente particolarmente estranea e incomprensibile la costrizione dell’adulto su questo punto. Egli ubbidisce semmai alla lettera della regola, ma non ne capisce il senso o lo spirito. Inoltre, poiché si ha una certa conoscenza della pratica della bugia da parte del bambino, è possibile, una volta chiarita la coscienza del bimbo sulla menzogna, illuminare quale sia la relazione tra pratica e coscienza morale. Su questo punto, il colloquio, in una sua prima parte, si svolge chiedendo al bambino di definire la ‘bugia’. In una seconda e terza parte, invece, il colloquio vuole indagare se il bambino attribuisce la responsabilità morale in funzione del contenuto della bugia piuttosto che in funzione del danno provocato dalla menzogna, e, infine, un’ultima parte mira a chiarire se si può mentire agli altri bambini, e, se no, perché.

La prima parte del colloquio ha permesso a Piaget di scoprire che per i bambini più piccoli la bugia è una parolaccia. L’assimilazione tra bugia e parolaccia è sicuramente da mettere in relazione all’esperienza della sanzione del genitore dell’atto di mentire e di dire le parolacce. Quest’assimilazione è un indizio fin troppo evidente di quanto, per il bambino più piccolo, la proibizione resti esteriore alla coscienza, e del suo realismo morale. Con lo sviluppo, i bambini arrivano ad una seconda definizione: la bugia è qualcosa di non vero. Tuttavia, non è ancora chiaro, per loro, che la bugia per essere tale deve essere intenzionale. Dunque, il bambino impara solo gradualmente, dopo i sette anni, a separare una bugia da un errore epistemico involontario. Inoltre, c’è uno stadio intermedio durante questo sviluppo, nel senso che i bambini di sei-sette anni, seppur distinguono, nella media, tra errore volontario e bugia, ancora non lo fanno sul piano morale. Ciò è, evidentemente, un ulteriore indizio del realismo morale che caratterizza il ragionamento morale dei bambini più piccoli. Con gli otto anni, ed in maniera del tutto esplicita verso i dieci anni, scompare l’assimilazione e compare la definizione adulta della bugia come un’affermazione intenzionalmente falsa.

Nella seconda e terza parte del colloquio ai bambini sono state proposte le solite storie da paragonare. Essenzialmente, per stabilire se la valutazione morale è in funzione del contenuto della bugia, ogni coppia oppone un errore epistemico involontario che nondimeno comporta una severa distorsione della realtà e una bugia verosimile scaturita, appunto, dall’intenzione di ingannare. Per stabilire, invece, se la valutazione è formulata in funzione del risultato materiale della bugia, ogni coppia oppone un errore intenzionale che nondimeno provoca un serio danno materiale, e una bugia che però non provoca un serio danno materiale. Il risultati delle interviste su queste storie sono perlopiù conformi all’immagine dello sviluppo ricavata dall’analisi delle risposte sui casi di sbadataggine e furto. Il risultato più interessante è che anche in assenza di conseguenze materiali, il bambino più piccolo conserva l’attribuzione oggettiva di responsabilità, valutando in funzione della verosimiglianza dell’affermazione. Per il bambino piccolo è cattivo e punibile il personaggio che distorce seriamente la realtà, non quello che distorce la realtà intenzionalmente. L’intenzione non conta nulla, anche quando non è opposta ad un danno materiale sensibile ma semplicemente ad una distorsione della realtà. Verso i dieci anni, invece, il criterio morale principale diventa l’intenzione. Inoltre, la grande inverosimiglianza dell’affermazione diventa un criterio di non-gravita, che separa un’esagerazione o una fantasia da un vero e proprio inganno, il quale deve essere verosimile per essere funzionale all’intenzione da cui ha origine. Lo stesso sviluppo, ovviamente, lo si registra in relazione all’attribuzione di responsabilità in funzione del risultato materiale della falsità dell’affermazione.

Stabilita la direzione dello sviluppo, ora si tratta di comprendere come il bambino riesce a superare il realismo morale e ad iniziare ad attribuire la responsabilità in funzione delle intenzioni che muovono l’azione. Un’analisi più approfondita dell’interrogazione sulla menzogna e le risposte a due ulteriori domande poste al bambino, è ciò che serve a Piaget per comprendere i meccanismi che muovono il decorso evolutivo. Innanzitutto, possiamo notare che anche per i casi di menzogna il realismo morale sembra originare dal binomio costrizione dell’adulto sul bambino ed egocentrismo naturale del bambino. Sappiamo che il bambino mente naturalmente e a causa del suo egocentrismo intellettuale non comprende affatto il divieto impostogli di non mentire. È chiaro che, allora, il divieto verrà interpretato in maniera ‘oggettiva’, ovvero in maniera esteriore e formale, senza la comprensione dello spirito della regola. La regola è sacra e al contempo incomprensibile. Il bambino non capisce perché è male alterare la realtà con la menzogna, e tenderebbe a farlo se non fosse frenato dal dovere di rispettare l’adulto che impone di non mentire. Sarà la pratica della cooperazione ad aprire la possibilità di fornire una ragione e un senso per cui è preferibile evitare la menzogna. È dunque la cooperazione e il rispetto per la posizione dei pari che permetterà lo sviluppo della comprensione dello spirito della regola e lo sviluppo della valutazione basata sulle intenzioni. Proprio nella misura in cui il bambino comprende che per mantenere il rapporto di cooperazione e rispetto reciproco con gli altri è necessario valutare la verità, esso comprende lo spirito del divieto di mentire e valorizza la buona intenzione di non ingannare nessuno, mentre scusa l’eventuale errore epistemologico. Quindi, al realismo morale relativo alla menzogna concorrono due cause. Una più generale, ch’è il naturale realismo del bambino piccolo; una particolare, ch’è il fatto che il bambino piccolo non comprende perché non si debba mentire.

Approfonditi questi aspetti, veniamo ora alle due ulteriori domande che Piaget pone ai bambini al fine di chiarire come il realismo morale venga superato. La prima domanda chiede quale sia l’utilità morale derivante dal non mentire, mentre la seconda chiede se ci sia colpa morale nel mentire ai propri pari, e in quali circostanze. Come sospettato, le risposte a queste due domande portano Piaget a ribadire la conclusione che sia il rispetto reciproco e la cooperazione a rendere progressivamente comprensibile il divieto di mentire. Perché, dunque, non bisogna mentire? Per il bambino più piccolo, la bugia è cattiva e bisogna evitare la menzogna poiché altrimenti si viene puniti. Più si viene puniti, più si è stati cattivi. Solamente più tardi nello sviluppo la bugia diventa una colpa in sé e si slega, così, dalla presenza della punizione. Verso gli undici anni i bambini comprendono che mentire viola il reciproco rispetto e la fiducia che gli altri hanno posto in noi, sicché l’ordine di non mentire ha perfettamente senso in relazione all’attribuzione di valore al rapporto di reciprocità e collaborazione instaurato con il prossimo. Solamente la pratica quotidiana della collaborazione permette di comprendere questo punto e, dunque, guida lo sviluppo del ragionamento. Coerentemente, se prima mentire ai propri pari è ritenuto legittimo, poi è ritenuto proibito, con consapevolezza e comprensione sempre maggiore della realtà morale.

Conclusioni al secondo capitolo – il realismo morale

Le grandi tappe dello sviluppo del pensiero teorico sarebbero caratterizzate, secondo Piaget, da due processi. Il pensiero morale teorico può obbedire a principi la cui origine è da rintracciare nel rispetto unilaterale, da cui la morale eteronoma e l’attribuzione oggettiva della responsabilità, oppure può obbedire a principi nati dal rispetto reciproco, da cui una morale autonoma, che interiorizza il rispetto delle regole e attribuisce la responsabilità in funzione dell’intenzione che motiva l’azione. Ma quale rapporto intercorre tra i risultati ottenuti dalle interviste e la vita morale del bambino? Secondo Piaget, è ipotizzabile che la teoria morale del bambino, svelata attraverso il colloquio, non sia altro che una progressiva presa di coscienza dell’attività morale pratica quotidiana. Lo sviluppo del pensiero teorico è in ritardo di qualche anno rispetto allo sviluppo del comportamento morale, e i fondamenti che guidano l’azione sono poi gli ultimi ad essere compresi sul piano della coscienza. La nozione del bene, la quale compare nella presa di coscienza dopo la nozione del dovere, è, sul piano della pratica, la nozione guida fondamentale essendo, nella sostanza, il bisogno di scambiarsi reciprocamente l’affetto. Questo, chiaramente, non esclude la possibilità di trovare un autentico realismo morale nella pratica morale durante i primi anni dello sviluppo. D’altra parte, il realismo morale si sviluppa inevitabilmente proprio quando il genitore ordina al bambino di seguire una consegna il cui spirito o senso il bambino ancora non può comprendere, e occasioni tali occorrono svariate durante il decorso evolutivo. A testimonianza di ciò, Piaget riporta alcune osservazioni condotte sui propri figli. Il realismo morale nella pratica è osservato nei figli dall’acquisizione del linguaggio sino al terzo anno di vita. Anche la responsabilità oggettiva è causata dall’inevitabile educazione parentale. Ad esempio, l’educazione all’igiene è un’occasione particolarmente chiara in cui il genitore può attribuire al bambino la responsabilità del tutto in funzione del risultato materiale, e non in funzione dell’intenzione, che evidentemente manca. Ma in generale, ogni regola che comporti un’applicazione materiale (ad esempio, le norme alimentari) può essere interpretata dal bambino in senso oggettivo piuttosto che soggettivo. In sostanza, durante i primi anni dello sviluppo il realismo morale è senz’altro causato dall’inevitabile costrizione esercitata dall’adulto. Questo primo realismo pratico causato dall’educazione si riflette successivamente anche in un realismo morale teorico sul piano verbale, almeno a partire dai sei anni.

In ogni caso, dobbiamo puntualizzare che per Piaget le regole morali non compaiono nel bambino come delle realtà innate, ma sono sempre trasmesse, sono una realtà a cui il bambino deve adattarsi. Sostanzialmente, le regole sono la società, a cui, appunto, il bambino si sforza gradualmente di adattare. Passando da uno stadio primitivo egocentrico, e subendo al contempo l’influenza della coercizione la quale tenta di far bruciare al bambino le tappe dello sviluppo naturale, il bambino riesce ad entrare gradualmente in uno stato di cooperazione con il prossimo, il quale stato è la sola vera forza in grado di liberarlo dai prodotti della costrizione e dell’egocentrismo, ovvero il realismo morale e la responsabilità oggettiva. Ma, più chiaramente, quali sono le condizioni e la provenienza del realismo morale spontaneo ed iniziale che abbiamo descritto? Secondo Piaget, da una parte vi sarebbero le cause proprie del pensiero spontaneo realista dell’infante, e dall’altra le cause proprie della costrizione dell’adulto. Sulle prime è da ricordare che il bimbo piccolo non è realista solamente rispetto alla moralità, ma lo è relativamente a diversi altri campi. Un esempio sono i sogni. Il bimbo piccolo pensa e vive i sogni come se avessero realtà. Così i nomi delle cose, i quali non sono attribuiti in maniera arbitraria, ma in qualche modo sono parte integrante della realtà della cosa nominata. Non c’è da stupirsi, per tanto, che il bambino piccolo interpreti le leggi morali in senso realistico e le reifichi, ovvero le sleghi dall’essere un prodotto della coscienza individuale o collettiva, e le interpreti come esistenti in sé. Solamente la cooperazione, ovvero il rapporto di reciproco rispetto che si intrattiene con i propri pari, porta l’individuo ad occuparsi del punto di vista altrui, ad uscire dal suo egocentrismo e a valutare con maggiore peso le intenzioni rispetto alle conseguenze, proprio perché ciò che conta non è più il rispetto della lettera della regole dalla realtà sacra ma il rispetto di una realtà psicologica e morale costituita, ora, da persone con intenzioni più o meno in linea con l’ideale del rispetto reciproco. Se ciò è vero, se cioè il bambino tende spontaneamente ad abbandonare l’egocentrismo per abbracciare la cooperazione e il rispetto reciproco, l’adulto, educando in modo coercitivo, in parte inevitabilmente, opera nella realtà per rinforzare l’egocentrismo. Infatti, le consegne che arrivano al bambino dall’adulto, inizialmente, non possono che apparire esteriori. A ciò si aggiunga la nota di costume che la maggior parte dei genitori non conosce la giusta pedagogia morale e, con il proprio comportamento autoritario, produce nel bambino l’impressione che le norme morali siano sacre e inviolabili e che non abbiano altra giustificazione che la loro provenienza, ovvero che il rispetto per la figura autoritaria sia tutto ciò che è sufficiente all’individuo per seguire una condotta moralmente virtuosa. Nella misura in cui è possibile, bisognerebbe aiutare il bambino a comprendere che le regole morali non vanno rispettate esteriormente ma vanno comprese secondo la funzione che ricoprono nel mantenere aperta la possibilità di una società in cui gli individui si rispettano a vicenda. Ovviamente, non è possibile causare nel bambino, attraverso la pedagogia, lo sviluppo del ragionamento morale sperato e l’acquisizione dell’autonomia del giudizio. Queste sono prodotte solamente dall’esperienza della collaborazione con i pari. È comunque possibile, attraverso la giusta pedagogia, evitare di ostacolare o rallentare questo sviluppo altrimenti naturale.

Capitolo terzo – la cooperazione e lo sviluppo della nozione di giustizia

Il fenomeno della morale autonoma, prodotto della cooperazione con i pari, è più difficile da studiare attraverso il metodo del colloquio, proprio perché, diversamente dalla morale eteronoma che si esprime tramite l’aderenza incondizionata alle regole, la morale autonoma riguarda l’aderenza interiore allo spirito della regola e la sua complessità è meno facile da catturare attraverso un colloquio che invita il bambino ad esplicitare una teoria morale che forse rimane spesso implicita nel suo comportamento e nel suo sentire. In ogni caso, a Piaget pare che almeno una nozione derivante dalla cooperazione sia studiabile attraverso il colloquio. Questa è la nozione di giustizia. In quanto parte integrante della cognizione morale autonoma, il sentimento di giustizia non è un prodotto dell’insegnamento o della coercizione adulta, ma deriva interamente dall’esercizio della cooperazione e del rispetto reciproco tra pari.

La sanzione e la giustizia retributiva

La giustizia retributiva va distinta dalla giustizia distributiva. Il secondo tipo di giustizia è relativo alle distribuzioni di risorse tra diversi individui, mentre il primo tipo di giustizia è relativo alle punizioni e alle ricompense, e alla loro proporzione rispetto alla colpa e al merito. Un modo per studiare lo sviluppo della nozione di giustizia retributiva, allora, è colloquiare con il bambino riguardo alle sanzioni. Piaget studia il ragionamento sulla giustizia retributiva ponendo diversi quesiti al bambino. Innanzitutto, per capire l’evoluzione della nozione di retribuzione, al bambino viene raccontata una storia dove il protagonista disubbidisce all’adulto, e viene successivamente trattato con una sanzione espiatoria oppure con una sanzione fondata sulla reciprocità. Le sanzioni espiatorie, essenzialmente, servono ad espiare il peccato commesso, ovvero servono a togliere la colpa e a ristabilire l’autorità e la costrizione dell’adulto. Devono essere proporzionali alla colpa commessa, ma possono essere del tutto arbitrarie, ovvero non avere nessuna relazione con la colpa commessa. Al contrario, le sanzioni per reciprocità sono generalmente ben motivate nel loro contenuto, e partono da considerazioni legate alla reciprocità e all’eguaglianza. Servono a far comprendere al colpevole dove e perché ha sbagliato, nel tentativo di reintegrarlo all’interno del gruppo. Una volta presentate queste due possibili soluzioni punitive, al bambino è chiesto di scegliere quale sia la più giusta. Una seconda parte del colloquio prevede di raccontare al bambino due storie, una con punizione e una senza. Dopodiché si chiede al bambino di prevedere chi, tra i due protagonisti, ricomincerà a disubbidire. Quest’intervista serve a comprendere se il bambino considera la sanzione giusta o perlomeno efficace. Una terza ed ultima parte estende la conversazione al fine di indagare insieme al bambino temi più generali, come quali siano o debbano essere le ragioni per punire o su cosa sia fondata la retribuzione.

 La prima parte dei colloqui ha permesso a Piaget di concludere che i bambini più piccoli concepiscono la punizione come un’occasione espiatoria, mentre con lo sviluppo i bambini più grandi arrivano a concepire la punizione come il risultato di un’interazione fondata sulla reciprocità, anche se, chiaramente, in una certa misura, la prima concezione non smette di informare del tutto la comprensione sociale e morale dell’individuo. Infatti, se i bambini a sei-sette anni ritengono per lo più giusta la sanzione espiatoria, verso gli undici anni iniziano a scegliere per lo più la sanzione per reciprocità.

Nella seconda parte del colloquio al bambino vengono raccontate due storie variandone il finale, punizione o semplice rimprovero. Dopodiché si racconta al bambino di un’occasione per compiere un’azione scorretta moralmente, ad esempio rubare, e gli si chiede chi ha compiuto quest’azione. L’ha compiuta il bambino che è stato semplicemente rimproverato oppure quello che è stato punito? Se la maggior parte dei bambini con un’età inferiore ai sette anni trova più utile la punizione rispetto al rimprovero, e dunque stima più alta la probabilità di rubare per l’individuo semplicemente rimproverato, la maggior parte dei bambini più grandi è divisa tra l’utilità del rimprovero e l’utilità della punizione. Per quanto riguarda i colloqui sulle questioni generali e più astratte, Piaget non è riuscito a trovare delle risposte chiare e comunque nessuno sviluppo evolutivo degno di nota.

Ora, come forse si sarà notato, è quantomeno possibile collegare i due atteggiamenti relativi alla giustizia retributiva con le due teorie morali individuate da Piaget. Se si traccia questo collegamento, è però necessario tentare una spiegazione dell’origine e dei meccanismi, interni ed esterni all’individuo, che guidano o causano lo sviluppo del concetto di sanzione e giustizia retributiva, e così vederne la vicinanza o lontananza rispetto ai meccanismi che muovono lo sviluppo dalla morale eteronoma alla morale autonoma. È facile vedere nella costrizione dell’adulto l’origine della giustizia come espiazione, anche se, non dobbiamo dimenticare, essa è in parte dovuta alle reazioni istintive del bambino più piccolo. Tra queste reazioni possiamo individuare come centrali le naturali tendenze vendicative ma anche la compassione. Inizialmente è la naturale propensione a restituire i colpi, a vendicarsi, che getta le basi per quella che poi si chiamerà giustizia. Accanto a ciò dobbiamo considerare la compassione, per mezzo della quale il bambino incomincia ad occuparsi del male fatto agli altri, e a sentire, così, il bisogno di vendicarlo.

Questi due movimenti iniziali devono essere considerati alla stregua di una base del senso maturo di giustizia. In ogni caso, essi sono la condizione necessaria ma ancora non sufficiente. È chiaro che questo moto vendicativo iniziale non può cadere sotto la categoria della sanzione fino al momento in cui introduciamo nel contesto le regole (morali), e queste vengono introdotte nel contesto dall’adulto. A questo punto, possiamo notare che senza l’intervento educativo dell’adulto, il bambino riuscirebbe comunque a sviluppare un senso di giustizia maturo come lo conosciamo, e tuttavia passerebbe senza soluzione di continuità da una pratica vendicativa a-morale iniziale ad una giustizia retributiva basata sul rispetto reciproco. Infatti, la vera forza di traino, necessaria e sufficiente allo sviluppo di una moralità matura, è la cooperazione tra pari. Il passaggio dalla sanzione come espiazione alla sanzione regolata dalle leggi della reciprocità è causato propriamente dallo sviluppo della cooperazione.

La responsabilità collettiva e comunicabile

Dedichiamoci ora a chiarire la questione se e quando per i bambini è giusto punire l’intero gruppo a cui dovesse appartenere il colpevole, sia che si sappia individuare con certezza il colpevole sia che non si sia a conoscenza del vero colpevole. Fare chiarezza su questo punto potrebbe informare due discipline. Innanzitutto la pedagogia. Almeno ai tempi di Piaget, la pratica delle sanzioni collettive, ovvero la pratica di punire l’intero gruppo o la classe per rimediare ad una colpa singolare, era ancora relativamente diffusa. Anche la psicologia e la sociologia, e oggi forse diremmo la psicologia evoluzionista, verrebbero informate da quest’indagine. È di dominio comune la nozione che per molto tempo, durante la storia dell’uomo, la responsabilità è stata considerata collettiva e comunicabile, ovvero inerente al gruppo e trasmissibile da un individuo all’altro, purché anch’esso appartenente al gruppo.

Per chiarire la questione, Piaget individua tre tipi di storie da raccontare ai bambini. La prima storia narra di un adulto il quale non conosce l’identità del colpevole ma non si interessa nemmeno della responsabilità individuale e punisce un intero gruppo di bimbi per la colpa di uno o due. La seconda storia narra di un adulto il quale è intenzionato a punire il singolo individuo colpevole, ma sia l’individuo sia l’intero gruppo rifiutano di rivelare l’identità del colpevole, che rimane sconosciuta all’adulto. La terza storia narra di un adulto che ancora una volta vuole punire il singolo pur non conoscendone l’identità, ma sia il colpevole sia il gruppo non lo aiutano nell’identificazione del colpevole, anche perché il gruppo stesso non ne conosce l’identità. Ad ogni storia segue la domanda se sia giusto o meno punire il gruppo e perché.

Nel giudicare la punizione descritta nella prima storia, tutti i bambini, senza distinzione d’età, si trovano d’accordo nel ritenere ingiusto punire il gruppo. Non v’è, dunque, nessuna traccia di responsabilità collettiva. Così come non v’è traccia di sviluppo nel ragionamento coinvolto nella risposta alla domanda relativa alla seconda storia. Quello che si nota, invece, è la possibilità di tre diversi tipi di ragionamento in risposta alla seconda narrazione. Da una parte, vi sono alcuni bambini i quali pensano sia giusto punire l’intero gruppo poiché sono tutti individualmente colpevoli di non voler confessare. Se la giustificazione è questa, la responsabilità non è collettiva, semmai è generale, ovvero è comune a tutti nella misura in cui tutti sono individualmente responsabili. Questi stessi bambini, in ogni caso, pensano anche che, in un modo o in un altro, una colpa debba essere punita. Altrimenti, il bambino può aggiungere che la classe si considera solidale nella colpa, e questa è una sorta di responsabilità collettiva, ma non una forma chiara. Se, infine, alcuni bambini ritengono giusto punire il gruppo, indipendentemente dall’età, altri ritengono giusto che non si punisca alcuno. A giustificazione il bambino può aggiungere che è bene non riferire all’adulto, non fare la spia. Questi bambini ritengono che la responsabilità sia solamente individuale. In risposta alla terza storia, Piaget trova che mentre i bambini più piccoli ritengono giusto punire l’intero gruppo perché una sanzione è pur dovuta, i bambini più grandi ritengono giusto evitare la punizione poiché punire un’innocente è più grave e ingiusto di lasciare impunito un colpevole. Per i bambini grandi punire in questo caso è più ingiusto che punire nel caso narrato nella seconda storia, dove il gruppo era a conoscenza dell’identità del colpevole. Per i bambini più piccoli, invece, punire nel caso in cui il gruppo sappia è più grave rispetto a punire quando il gruppo non sa. Per i piccoli, la sanzione è qualcosa di aspettato e dovuto, ma questo non è in relazione ad un’attribuzione di responsabilità all’intero gruppo. Se il colpevole è conosciuto, il gruppo farà bene a non denunciarlo. Se il colpevole non è sconosciuto, allora, secondo i bambini più piccoli, non resta che punire il gruppo. In base alle risposte fornite dal bambino, possiamo dunque concludere che non vi sia in lui un chiaro sentimento spontaneo che lo porta ad attribuire la responsabilità all’intera collettività.

La concezione della sanzione come espiazione e il sentimento di solidarietà con i membri del gruppo di appartenenza sono probabilmente le due condizioni fondamentali della nascita della responsabilità collettiva e comunicabile. Ora, la diversità riscontrata tra il bambino ed il primitivo, dove il primo non estende la responsabilità al gruppo mentre il secondo si suppone l’abbia fatto, è spiegabile con l’osservazione che il bambino è diverso dal primitivo nella misura in cui il secondo possedeva contemporaneamente la concezione della sanzione espiatoria e la solidarietà di gruppo. Quando il bimbo è piccolo egli è egocentrico e non sviluppa ancora alcun sentimento di solidarietà. Eppure è proprio durante i primi anni della crescita che la costrizione dell’adulto sviluppa in lui l’idea della sanzione espiatoria, l’idea che una punizione sia comunque necessaria. Nel bambino piccolo è dunque presente la condizione relativa alla sanzione ma è assente la condizione relativa alla solidarietà. Come il bambino cresce le cose si invertono. Ora, la cooperazione tra i pari ha sviluppato nel bambino la solidarietà di gruppo, ma ha al contempo lasciato alle spalle il vecchio modo di ragionare sulla sanzione.

La giustizia immanente

Il concetto di giustizia immanente si riferisce all’idea che una sanzione di tipo espiatorio segua necessariamente ed automaticamente il misfatto, e che, dunque, siano le cose stesse, il mondo stesso, a farsi carico di punire l’individuo. Quest’idea è primitiva ed è coerente con il modo di ragionare del bambino piccolo, oltreché con l’immagine che del suo pensiero morale ci siamo fatti finora. Sicché è ragionevole aspettarsi che il bambino piccolo ragioni in termini di giustizia immanente. Per verificare quest’ipotesi, Piaget e collaboratori hanno raccontato ai bambini alcune storie in cui il protagonista disubbidisce e poi è colto da un improvvisa sfortuna (ad esempio, cammina su un ponte di legno che cede e lo fa cadere nell’acqua). Ai bambini è stato chiesto se la sfortuna sarebbe comunque capitata al personaggio nel caso in cui egli avesse invece obbedito. I bambini piccoli credono nella possibilità di una giustizia immanente, mentre i grandi no. I piccolini infatti pensano che la sfortuna non sarebbe capitata se il personaggio avesse obbedito.

Ora, ciò che va compreso è se il bambino piccolo concepisce un legame diretto tra colpa e sanzione immanente, oppure, come è il caso delle credenze sui miracoli, il bambino pensa che vi sia un intermediario che si occupa di giudicare l’individuo e causare la punizione. Poiché il bambino piccolo ragiona come se la natura fosse animata, e non ha generalmente bisogno di immaginare degli intermediari per dare senso alle sue riflessioni, diventa improbabile che egli si ponga il problema di quali siano le forze decisive che determinano la punizione. Fatta quest’osservazione, nasce subito un’ulteriore interrogativo: da dove viene la credenza nella giustizia immanente? La credenza può essere innata, oppure può essere appresa in modo diretto dai genitori che si impegnano ad insegnarla, oppure può essere un prodotto indiretto della posizione costrittiva dell’adulto. Ovviamente per Piaget la risposta corretta è quest’ultima. La natura, in questo senso, è l’estensione dell’adulto, entrambe le cose, in ogni caso, appaiono estranee e superiori. Rintracciare l’origine di questa credenza non è sufficiente, e bisogna ora dire due parole per spiegare come avvenga che durante lo sviluppo la credenza scompaia o comunque diminuisca. Piaget pensa che sia la delusione provocata da certe inevitabili esperienze morali la causa dello sviluppo su questo punto. Il bambino scopre a più riprese l’imperfezione della giustizia degli adulti. In generale, responsabile dell’abbandono della credenza in una giustizia immanente è lo stesso movimento che permette l’acquisizione di una morale autonoma a partire da una morale eteronoma, dal carattere oscuro, mistico e sacro, il movimento che vede la cooperazione prevalere sul carattere costrittivo dell’adulto ma del mondo.

Giustizia retributiva e giustizia distributiva

 Trattati questi aspetti, è ora possibile passare all’analisi dell’influenza della cooperazione sul ragionamento del bambino riguardo la giustizia. Per Piaget, a questo punto, si tratta di analizzare il ragionamento dei bambini sui casi di conflitto tra giustizia distributiva e giustizia retributiva. Egli pensa, infatti, che la prima si opponga alle forme primitive della seconda, e che la prima sia evolutivamente superiore alle forme primitive della seconda. Ecco un esempio di conflitto: il maestro favorisce il bimbo obbediente a spese degli altri bambini. Ciò può essere giusto retributivamente, ma è chiaramente ingiusto dal punto di vista distributivo o egualitario. Ai bimbi sono state dunque raccontate alcune storie secondo questa logica, ed è stato chiesto loro di giudicare se fosse giusto favorire l’individuo bravo. I bambini più piccoli hanno risposto ritenendo che l’individuo andasse favorito. Essi hanno dunque preferito considerazioni di tipo retributivo a considerazioni di tipo egualitario. I bambini più grandi, al contrario, hanno reagito nella maniera opposta, preferendo un ragionamento di tipo distributivo.

Ma come si sviluppa l’egalitarismo? È forse da considerare un’ulteriore prodotto della costrizione dell’adulto oppure è da considerare un prodotto della cooperazione tra pari? Al fine di decidere con maggiore sicurezza su questo punto, sono necessarie alcune ulteriori analisi, che seguono.

Eguaglianza e autorità

 Quando le storie raccontate oppongono l’eguaglianza al rispetto per l’autorità (come, ad esempio, quando l’autorità non distribuisce in modo equo le mansioni o la quantità di lavoro da svolgere tra i subordinati), i bambini più piccoli ritengono che l’autorità abbia ragione, e questo in relazione al rispetto dovuto per essa, mentre i bambini grandi difendono preferibilmente l’eguaglianza, per rispetto delle idee morali dei subordinati in contraddizione momentanea con la volontà dell’autorità. Secondo i bimbi piccoli l’azione comandata è giusta nella misura in cui è conforme all’ordine, e poi, eventualmente, è accettata anche se ritenuta ingiusta, mentre per i bambini più grandi l’azione comandata è ingiusta e inaccettabile. Come abbiamo visto a più riprese, durante le prime fasi dello sviluppo è l’adulto a rappresentare la legge per il bambino. Il rispetto unilaterale che caratterizza la cognizione morale del bambino piccolo, per sua stessa natura, porta nella direzione contraria rispetto al sentimento dell’eguaglianza. Infatti, risulta naturale che non vi possa essere vera eguaglianza tra adulto e bambino e che, soprattutto, l’eguaglianza ed il rispetto per essa non possa essere imposto dall’esterno.

Così, il bambino inizialmente preferisce l’obbedienza poiché questa gli appare giusta, per poi preferirla nonostante gli appaia ingiusta. In ogni caso, la ragione che motiva il bambino ad obbedire è il rispetto per l’autorità adulta. Più tardi, crescendo, inizia a preferire l’eguaglianza, ed infine preferisce l’obbedienza per una sorta di adesione volontaria guidata da considerazioni prudenziali o relative alla situazione specifica. Il bambino potrebbe ad esempio ragionare che obbedire alla mamma che chiede un lavoro oneroso, pur in maniera non egualitaria e dunque ingiusta, può comunque rappresentare un atto di gentilezza. È verso gli undici anni che si sviluppano le prime valutazioni dell’equità. Il concetto di eguaglianza è più rigido rispetto al concetto di equità, ed ha a che fare con la distribuzione materiale e finale dei beni. Il concetto di equità invece riguarda la parità nel diritto ad accedere teoricamente ai beni. L’equità ha a che fare, per tanto, con l’eguaglianza delle situazioni di partenza e con la correttezza delle procedure, che devono essere in grado di garantire pari diritti ad ognuno.

La giustizia tra bambini

Le evidenze raccolte convergono nel creare l’aspettativa che la forza motore dello sviluppo della nozione di giustizia distributiva e delle forme più evolute di giustizia retributiva sia il rapporto sociale che il bambino intrattiene con i pari. Diversamente, il rapporto unilaterale con l’adulto non potrebbe che favorire lo sviluppo della nozione di sanzione espiatoria e delle forme meno evolute di giustizia retributiva. Un’ulteriore verifica di questo modo di vedere passa per l’indagine di come il bambino concepisca la giustizia tra compagni, in particolare di come concepisca l’egualitarismo e le sanzioni tra bambini. Così, ai bambini, sono state raccontate delle storie in cui un bambino restituisce della violenza alla violenza subita (ad esempio, egli ruba il pranzo al compagno che gli ha precedentemente dato un pugno). Dopodiché i bambini sono stati interrogati se fosse giusto rispondere come raccontato nella storia, e cosa farebbero se fossero loro a ricevere un pugno. I risultati di queste interviste indicano che con lo sviluppo aumenta la propensione per la reciprocità. Il bambino piccolo ritiene che sia assolutamente sbagliato e proibito rubare, e che sia compito dell’adulto punire. Anche vendicarsi è male, ma solamente perché è proibito dall’adulto. Dunque, se l’adulto vendica il bambino ne ha l’autorità. Per il bambino più grande, invece, rubare per rispondere ad un pugno ricevuto non è giusto nella misura in cui non è appropriato, dal momento che si tratta di una risposta arbitraria, che non ha una relazione di contenuto chiara con l’offesa iniziale. L’opinione di questi bambini è che si sarebbe dovuto restituire un pugno. In ogni caso la vendetta diretta, e non mediata dall’adulto, è considerata perfettamente legittima. È necessario rispettare la reciprocità, e dunque restituire né più né meno ciò che si ha ricevuto. Le risposte alla seconda domanda, infine, chiariscono che sebbene i bambini affermino che vendicarsi a freddo sia di per sé un male, crescendo si rafforza sempre più l’opinione che restituire i colpi ricevuti sia giusto, buono e legittimo. Non si tratta di una vendetta, ma più propriamente del sentimento di eguaglianza e reciprocità.

Avvicinandosi sempre più alla sfera dei problemi legati alla giustizia distributiva tra bambini, Piaget ora si chiede come i bambini rispondano alla domanda perché non si debba imbrogliare al gioco. Il bambino è invitato ad individuare qual è il suo gioco preferito, dopodiché gli si racconta la storia di un bimbo che ha imbrogliato a tale gioco. Infine, all’intervistato viene chiesto cosa ne pensa e perché non bisogna imbrogliare. Dai colloqui sono emersi quattro tipi di risposte. Le prime due risposte sono più frequenti nei bimbi piccoli (sei-nove anni) e diminuiscono con l’età. Esse sono: non si imbroglia perché è proibito e cattivo; non si imbroglia perché è contrario alle regole del gioco. Si capisce facilmente come la preoccupazione principale sottesa a queste risposte sia non violare l’autorità delle regole. Le ulteriori risposte sono invece maggiormente diffuse tra i bambini più grandi, di dieci-dodici anni, e mettono in luce come la preoccupazione per la cooperazione prevalga su quella per l’autorità. Esse sono: non si imbroglia perché farlo rende impossibile il gioco, ovvero la cooperazione; non si imbroglia perché farlo è contrario al rispetto dell’eguaglianza tra i partecipanti.

Ma come risponde il bimbo ai tipici problemi di giustizia distributiva tra bambini? Piaget ne seleziona due: è dovuta l’eguaglianza tra coetanei? Bisogna forse favorire i bambini più grandi nella distribuzione delle risorse? La prima questione è risolta raccontando ai bambini delle storie in cui i doveri, il lavoro o le risorse sono distribuite in maniera iniqua tra alcuni individui coetanei. A queste storie, tutti i bambini, indipendentemente dall’età, hanno reagito auspicando una soluzione che favorisca l’eguaglianza. Se non è presente l’autorità, dunque, anche i bambini più piccoli non hanno problemi a riconoscere la necessità morale della distribuzione eguale. Anche rispondendo alla seconda domanda, se sia giusto favorire i bambini più grandi, la maggior parte degli intervistati si è mostrata favorevole all’eguaglianza. Semmai, i più piccoli hanno affermato che fosse giusto favorire i grandi, ma per semplice rispetto nei confronti dell’età. Così i bambini più grandi, ogni tanto, hanno affermato che fosse preferibile favorire i più piccoli, ancora una volta per rispetto nei confronti della loro tenera età, dunque secondo considerazioni dettate dal principio di equità.

Conclusioni al terzo capitolo – la nozione di giustizia

In conclusione Piaget riporta le risposte dei bambini a cui è stato chiesto di fornire degli esempi di ingiustizia. Sono emerse quattro risposte principali. È ingiusto fare qualcosa di proibito, violare le regole dei giochi, la disuguaglianza, l’ingiustizia sociale. Crescendo, il bambino lascia cadere il primo tipo di risposta e tiene maggiormente presenti i problemi legati alla disuguaglianza. Possiamo pertanto vedere in ciò un’ulteriore conferma del decorso evolutivo dell’idea di giustizia: verso i sei-sette anni la giustizia è subordinata al rispetto per l’autorità; dagli otto agli undici anni l’egualitarismo si rafforza progressivamente; dagli undici-dodici anni le considerazioni di giustizia egualitaria vengono sistematicamente temperate da preoccupazioni più sofisticate relative all’equità.

Se abbiamo visto qual è il percorso evolutivo della nozione di giustizia, mancano alcune considerazioni conclusive sulle condizioni psicologiche di partenza di tale percorso. Riguardo la nozione di giustizia distributiva, vanno individuate nella naturale gelosia dell’infante e nell’altruismo per imitazione e simpatia le due principali radici individuali e biologiche necessarie ma ancora non sufficienti per lo sviluppo di una nozione matura di giustizia. Il bambino deve crescere all’interno di un ambiente che favorisca la cooperazione e il rispetto autonomo della regola collettiva per giungere a maturare rispetto al ragionamento sui temi della giustizia. Per quanto riguarda, invece, la nozione di giustizia retributiva, l’atteggiamento del bambino evolve da un’accettazione per rispetto dell’autorità della sanzione espiatoria ad una preferenza per le forme punitive che evidenzino la reciprocità della relazione tra punito e punitore. Come abbiamo già visto, il naturale bisogno di vendicarsi è una radice biologica e individuale per lo sviluppo della nozione di sanzione ma, in ogni caso, non rappresenta una condizione sufficiente. Al naturale istinto vendicativo dell’individuo sappiamo che poi, durante i primi anni della crescita, si aggiunge l’educazione necessariamente autoritaria e punitiva del genitore. Quest’educazione, e più in generale il rapporto unilaterale con l’adulto, è da ritenersi responsabile dello sviluppo dell’idea di sanzione espiatoria. Sarà poi il progresso svoltosi all’interno delle relazioni di cooperazione tra pari e nel rispetto reciproco tra coetanei che permette l’abbandono della nozione di espiazione e l’affinamento di un ragionamento autonomo che vede nella sanzione nient’altro che un sistema volto alla riparazione del torto e al ristabilimento della giusta reciprocità tra individui. L’ultimo tassello evolutivo è la generosità e il pensiero contestualizzato, che guidano il bambino verso forme di ragionamento sulla giustizia più raffinate. Nascono le preoccupazioni per l’equità e per l’integrazione di più valori morali all’interno del giudizio.

Capitolo 4 – le due morali del bambino

Nel quarto capitolo Piaget affronta le intersezioni che ritiene maggiormente significative tra i risultati esposti, le conclusioni raggiunte e alcune tesi sociologiche, pedagogiche, psicologiche e filosofiche ritenute rilevanti per il tema in discussione. Queste tesi, nel dibattito contemporaneo, hanno perso centralità e allora non ci pare interessante riportare la discussione che Piaget sviluppa a partire dalla loro critica. Sul tema dello sviluppo delle nozioni di giustizia, oggi, più che Durkheim, Fauconnet, Bovet, Baldwin o altri, autori con cui Piaget entra in dialogo, sarebbe interessante un confronto con il filosofo politico John Rawls, per dare un esempio. Per tanto, rimandiamo il lettore interessato direttamente al testo di Piaget, e concludiamo la nostra sintesi con alcune note, tratte da quest’ultimo capitolo, che ci sembrano utili a perfezionare la comprensione della descrizione psicologica dello sviluppo del ragionamento morale offerta dallo psicologo svizzero.

La prima nota riguarda i possibili rischi che si incontrano nel tentativo di trarre un parallelismo fra sviluppo individuale e sviluppo storico delle nozioni morali. La visione che va evitata è quella che assume come costante nella qualità o nella struttura il valore morale. Ad esempio, possiamo concepire il passaggio da una morale eteronoma ad una morale autonoma, dall’attribuzione oggettiva all’attribuzione soggettiva della responsabilità, all’interno del quadro storico della vicenda umana, come un passaggio che vede il deteriorarsi o il trasformarsi della teoria morale originaria. Questa concezione si basa sull’idea che vi sia continuità sostanziale o di struttura. L’avvertimento di Piaget, sostenuto dalle osservazioni esposte nei capitoli precedenti, è che se v’è continuità, essa riguarda la funzione e non già la struttura. Per tanto, la morale autonoma e l’attribuzione di responsabilità soggettiva rappresentano un salto discontinuo, di qualità, rispetto alla morale del rispetto per l’autorità, anche se, rispetto alla funzione, sono avvicinabili. Come è ovvio, è possibile prendere una posizione valutativa nei confronti delle due teorie morali individuate. Non è una preoccupazione relativistica quella espressa da Piaget. Il punto è un altro. Si tratta di capire che la morale autonoma non è né il deterioramento né il perfezionamento strutturale della morale eteronoma, e questo perché non vi è continuità strutturale. La cooperazione permette lo sviluppo di una morale alternativa che ricopre la stessa funzione della morale precedente, ma, al contempo, la sostituisce radicalmente. Ed il ruolo della cooperazione e del rispetto reciproco è fondamentale per la definizione stessa dei contenuti della nuova teoria morale emergente. Ad esempio, non basterebbe un’analisi dello sviluppo delle capacità generali di ragionamento o intellettive a spiegare lo sviluppo delle nozioni e del ragionamento morale.

Quello che si vuole dire è che la morale del rispetto reciproco non può considerarsi propriamente una forma evoluta di morale autoritaria, proprio perché vi è una forte differenza qualitativa tra i due tipi di relazioni sociali che sostengono e permettono lo sviluppo delle teorie morali. Da una parte, abbiamo il rapporto di rispetto unidirezionale per l’adulto, dall’altra abbiamo il rapporto di rispetto reciproco e di cooperazione con i pari. Costrizione e cooperazione sono aspetti sociali e morali da tenere ben distinti, aspetti che danno vita a mondi e teorie morali molto lontane e irriducibili tra loro. Essenzialmente è in gioco la differenza e la non assimilabilità tra il concetto di dovere, centrale per l’etica eteronoma, e il concetto di bene, centrale per l’etica che nasce dalla cooperazione, e che diversamente dal dovere, concetto che chiude in sé (o apre a partire da sé) la possibilità di riformare o ripensare la morale tradizionale, in un’ottica di continuo sviluppo verso l’ideale.

Vi è un’ulteriore possibile conseguenza derivante dall’appiattimento della morale autonoma sulla morale eteronoma, del rispetto reciproco sul rispetto unilaterale, ed è di rilevanza per la pratica pedagogica. Avvicinare troppo le due teorie morali, ovvero appiattire la cooperazione sulla costrizione, potrebbe portare, come alcuni hanno poi sostenuto, ad accettare opinioni pedagogiche conservatrici. Queste opinioni sbaglierebbero nella pretesa di voler insegnare la morale con la forza dell’autorità e della punizione, partendo proprio dall’assunto che la morale autonoma matura sia una forma di quella eteronoma e primitiva. Diversamente, Piaget argomenta che l’unico modo attraverso il quale il bambino sviluppa una morale autonoma è la crescita all’interno di un ambiente che permette la cooperazione e il rispetto reciproco tra i pari. L’adulto, allora, farebbe bene a seguire il bambino lungo questo percorso, e a favorirne le occasioni di cooperazione con il gruppo dei pari, piuttosto che pretendere di educare con un’imposizione dall’alto e dall’esterno, la quale, per altro, è impotente per la natura delle cose stesse.


Francesco Margoni

Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive dell’Università di Trento. Studia lo sviluppo del ragionamento morale nella prima infanzia e i meccanismi cognitivi che ci permettono di interpretare il complesso mondo sociale nel quale viviamo. Collabora con la rivista di scienze e storia Prometeo e con la testata on-line Brainfactor. Per Scuola Filosofica scrive di scienza e filosofia, e pubblica un lungo commento personale ai testi vedici. E' uno storico collaboratore di Scuola Filosofica.

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