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Metodi di indagine dello sviluppo: il ragionamento morale – pt. 1

Foto di Tumisu da Pixabay

Rendo disponibile ai lettori di ScuolaFilosofica una dispensina che ho scritto in occasione della preparazione del corso sui metodi e le tecniche di studio della cognizione morale del bambino, per gli studenti iscritti alla Facoltà di Psicologia dell’Università di Trento. Poiché il lavoro è lungo, i lettori lo trovano sul sito in diverse pubblicazioni che seguono la divisione in sei capitoli proposta nell’indice. L’autore riconosce il suo debito nei confronti di Paul Bloom, psicologo evolutivo americano, il quale ha recentemente pubblicato un ottimo lavoro introduttivo alla psicologia dello sviluppo del senso morale, Just Babies. L’autore, inoltre, ringrazia il prof. Luca Surian, dell’Università di Trento, per la guida nell’apprendimento della psicologia dello sviluppo, e la prof.ssa Renée Baillargeon dell’Università dell’Illinois ad Urbana-Champaign, per i preziosi insegnamenti su come si conducono le ricerche con i più piccolini.

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Indice

1. Introduzione 

Definizioni preliminari (Senso morale, Morale, Giudizio morale)

La scienza: questione di metodo

Cenni generali e preliminari sul metodo sperimentale in psicologia

Il metodo e le tecniche nella psicologia dello sviluppo

Cosa studia la psicologia dello sviluppo morale? Metodi e contenuti

2. L’evoluzione della morale 

3. Il senso morale innato: la capacità di distinguere il bene dal male. Contenuti della ricerca, aspetti metodologici e tecniche di indagine

Violazione delle aspettative: misurazione del tempo di fissazione dello sguardo

Reaching measures (misure del movimento di raggiungimento): la espressione della preferenza del bimbo

La direzione dello sguardo per capire le aspettative e le preferenze dei bambini

Lo studio longitudinale?

4. L’emozione morale 

La compassione: il comportamento prosociale e le sue forme

La natura dello sviluppo della compassione: evoluzione e cambiamenti nell’aiuto strumentale offerto dal bimbo

L’emozione del disgusto

5. Il merito e l’equità per il bimbo

Lo sviluppo del concetto di equità nella mente dell’infante

Il senso di equità dei bambini coinvolti in prima persona dalla distribuzione delle risorse

6. La natura parrocchiale del bimbo ma dell’uomo

La preferenza dell’infante tra familiare ed estraneo

Tra lingua e razza, indici di coalizione. Le preferenze dei bambini in età prescolare

Lo stereotipo razziale nei bambini in età scolare

Bibliografia

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  1. Introduzione

L’insieme di queste lezioni è pensato per fornire alcune nozioni riguardo a come e quando si sviluppa il ragionamento morale, e per illustrare alcuni metodi di indagine diffusi nell’ambito di ricerca della psicologia dello sviluppo morale. Grazie ad alcune innovazioni in ambito tecnico e metodologico, oggi è possibile studiare il ragionamento e il comportamento dei bambini sin dai loro primi mesi di vita. Questa possibilità di studio è una novità degna della massima nota. Dobbiamo pensare che la scienza, nella sua pluricentennale attività, raramente ha potuto spingere così indietro l’indagine sperimentale dello sviluppo ontogenetico dell’uomo. Siamo, dunque, di fronte ad una vera novità, o comunque all’apertura di un campo dell’indagine scientifica relativamente vergine. Siamo, sostanzialmente, di fronte alla possibilità di chiarire in maniera rigorosa, almeno parzialmente, le antiche questioni sull’origine innata od acquisita della natura morale dell’uomo.

Nel prosieguo affronteremo lo studio di queste innovazioni metodologiche e alcune delle principali scoperte che tali innovazioni hanno permesso di compiere nel campo della ricerca sullo sviluppo del senso e del ragionamento morale. Accanto allo studio dell’infante, che rappresenta, per molti, la fonte di novità principale, prenderemo in esame anche indagini sperimentali sul comportamento e sul ragionamento dei bambini in età prescolare e scolare.

Come vedremo, già in tenerissima età, comunque prelinguistica (prima dei diciotto mesi), i bambini possiedono una serie di capacità tale per cui alcuni psicologi dello sviluppo hanno recentemente ipotizzato che l’uomo nasca con un senso morale innato (così Paul Bloom; cfr. il testo consigliato, Just Babies, 2013; ma anche, ad esempio, Hamlin, 2013; Bloom, 2012). La tesi è che, fin dai primi mesi di vita, il bambino possieda le basi del ragionamento morale adulto. In altre parole, l’infante possiede e sviluppa un senso morale elementare. Questo senso morale noi uomini l’abbiamo ereditato filogeneticamente; ovvero, è un prodotto dell’evoluzione biologica. Ne segue, dunque, che la morale sarebbe meno da considerare in opposizione alla natura umana, nei termini di uno strumento evoluto culturalmente allo scopo di controllare le nostre connaturate tendenze immorali o amorali, e più da considerare un tratto della natura umana evoluto insieme agli altri aspetti della nostra socialità. L’idea, allora, è che l’uomo sia una scimmia morale (cfr. Joyce, 2006), una scimmia che giudica con il vocabolario della morale.

Ai nostri fini tratteremo queste affermazioni più come ipotesi di lavoro e meno come verità conclusive, dettate ex professo. La ricerca sperimentale in quest’ambito è relativamente giovane ed è pertanto sconsigliabile o comunque prematuro trarre da essa conclusioni definitive sul piano della verità. In ogni caso, come mostreremo, che l’uomo possieda un senso morale innato sembrerebbe essere un’ipotesi supportata da una considerevole e interessante mole di evidenza empirica.

  • Definizioni preliminari

 

  • Senso morale

Cos’è il senso morale? E cosa intendiamo per ragionamento morale? Come è prassi nella psicologia cognitiva, per ragionamento morale non intendiamo esclusivamente il ragionamento conscio, deliberato e controllato. Più in generale, invece, noi intendiamo l’attività, sia conscia sia inconscia, di pensiero o ‘processamento’ cognitivo delle informazioni. Altri ancora, distinguono tra ragionamento e intuizione, facendo leva sul fatto che mentre l’intuizione è consapevole solamente nelle sue conclusioni, il ragionamento è consapevole anche nelle premesse e nelle regole logiche che portano dalle premesse alle conclusioni. La nostra intenzione è considerare sia le parti consapevoli sia non consapevoli del processo di pensiero.

Per senso morale intendiamo, all’incirca ma non esattamente, ciò che intendeva, ad esempio, il filosofo Francis Hutcheson (1694-1746), noto filosofo morale appartenente alla scuola dei filosofi morali scozzesi, la quale sviluppò un vivo dibattito attorno al tema dell’esistenza di un senso o facoltà morale. Hutcheson per senso morale intendeva un’originaria capacità psichica di ‘vedere e distinguere’ ciò che è moralmente buono da ciò che è moralmente cattivo, o, detto altrimenti, una determinazione naturale ad approvare certe affezioni (qualità o modi) e certe azioni. Hutcheson caratterizza emotivamente il senso morale, come poi, notoriamente, faranno altri (su tutti, David Hume, Shaftesbury e Adam Smith, ma, più in generale, l’Illuminismo scozzese). Il senso morale, secondo il Nostro filosofo morale, sarebbe in grado di porre il fine dell’azione senza l’intervento della ragione, alla quale non rimane che il compito di scegliere il mezzo più appropriato ad un fine precedentemente stabilito per via arazionale. La ragione, dunque, è pensata come priva della capacità di determinare l’agire, il quale, allora, è vincolato rispetto al fine posto dal sentimento per mezzo delle operazioni svolte dal senso morale.

Per ‘senso morale’, guidati solamente in parte dalla definizione proposta da Hutcheson, intendiamo precisamente la capacità di giudicare su questioni morali. Nel dare questa definizione lasciamo aperta la questione della natura emotiva o razionale del giudizio, nonché l’ulteriore questione dell’esistenza di un modulo o di una facoltà morale specifica, alla quale, invece, i filosofi dell’illuminismo scozzese del sei-settecento hanno dedicato particolare attenzione. Chiaramente, la capacità di giudizio sarà influenzata sia da fattori emotivi sia da considerazioni della ragione, da intuizioni personali e da insegnamenti sociali, da un naturale senso della giustizia e dell’equità come da considerazioni pregiudiziali ed egoistiche. Vedremo nel prosieguo delle lezioni ognuno di questi fattori, la discussione dei quali porterà ad una graduale circoscrizione del fenomeno oggetto d’indagine.

Studiando i bambini, e in modo particolare gli infanti, è possibile raccogliere evidenza empirica a favore o contraria alla tesi per cui è presente in modo innato nell’uomo la capacità di giudicare situazioni morali, di provare empatia e compassione per i propri simili, di favorire l’equità alla disuguaglianza e di preferire la giustizia all’ingiustizia, ma, infine, di favorire selettivamente i membri appartenenti al proprio gruppo rispetto ai membri di altri gruppi. Ognuno di questi aspetti della complessa algebra morale umana sarà trattato nel dettaglio.

 

  • Morale

Definendo il senso morale come la capacità di giudicare intorno alle questioni morali, ancora rimaniamo con la domanda cosa si debba intendere con il termine ‘morale’[1]. Come forse sarà facile intuire, definire la morale in modo da incontrare un consenso condiviso non è un’operazione concettuale scontata. Non è casuale che la ricerca scientifica sul giudizio e sul comportamento morale molto spesso evita ed ha evitato di porre la domanda in termini espliciti. Ciò può avere qualche svantaggio, ma anche qualche vantaggio.

Alcuni autori (si veda, ad esempio, Bauman & Skitka, 2009), per la verità una ristretta minoranza, sono convinti che non sia appropriato studiare il giudizio delle persone su questioni individuate a priori e, generalmente, da parte dello sperimentatore, come connotate moralmente. Sarebbe invece corretto, anche nel tentativo di ovviare al problema della complessa individuazione di ciò che rende o meno ‘morale’ un’azione, un carattere, un concetto o una certa situazione, considerare morale un evento solamente nel caso in cui la persona giudicante lo ritenga connotato moralmente, a partire e coerentemente rispetto ai personali criteri di valutazione di ognuno. Nell’attribuzione della connotazione morale vi sarebbero differenze individuali degne di nota e, dunque, non sarebbe appropriato assumere l’esistenza di un criterio universale di demarcazione tra ciò che è morale e ciò che non lo è. Tuttavia, per quanto tale ragionamento possa apparirci sufficientemente ragionevole, dovremmo chiederci se differenze nell’attribuzione di connotazione morale non siano già differenze nel modo di giudicare morale da parte delle persone. La domanda scomoda, allora, è se non sia immorale approvare, ad esempio, l’omicidio in assenza di alcun movente in grado di giustificarlo razionalmente.

Questo approccio, che suggerisce di demandare il compito definitorio ai singoli individui, non convince poiché sembra solamente spostare il problema. Come facciamo a capire quando una persona considera la situazione connotata moralmente? Quando ne è convinta e ce lo rivela? Lasciamo pure da parte lo scetticismo sulla capacità introspettiva delle persone e soprattutto sull’affidabilità dell’introspezione, che pure avrebbe qui la sua rilevanza (cfr. Haidt, 2001). La domanda è sulla base di quali criteri l’individuo si convince. Possiamo veramente pensare che questi stessi criteri non siano già criteri morali? Possiamo veramente pensare che il singolo individuo, astratto rispetto al gruppo, possa individuare un criterio di demarcazione tra morale, immorale e amorale? E’ evidente che una morale individuata in questo modo non avrebbe alcuna sostanza.

La ricerca scientifica sulla morale, generalmente, quando deve individuare un caso o uno scenario morale cerca di sceglierlo tra quelli che il ragionamento di senso comune giudicherebbe meno ambigui sotto il profilo della connotazione etica. Lo stesso fa quando deve individuare casi moralmente ambigui o casi non morali. Poniamo, ad esempio, che uno psicologo sperimentale debba scegliere delle parole connotate moralmente al fine di causare con queste un effetto psicologico di tipo priming (ovvero, l’effetto di influenza sulla risposta ad uno stimolo causata dall’esposizione ad uno stimolo mostrato in precedenza). Verosimilmente, il nostro psicologo sceglierà parole come ‘uccidere’ ed ‘aiutare’, e non parole come ‘versare’ e ‘grattare’, anche se non possiamo escludere a priori che qualcuno, nel mondo, possa convintamente sostenere che ‘versare’ è a tutti gli effetti un’azione connotata moralmente (ad esempio, possiamo versare dei soldi in beneficenza).

Vedremo più avanti che questo discorso non è così ovvio e nemmeno sempre valido. Vi sono situazioni sperimentali (alcune molto celebri, come ad esempio quelle in cui i partecipanti devono risolvere il trolley dilemma)[2] in cui sarebbe prudente chiarire la percezione morale delle persone dei contesti usati come stimoli, e questo non viene fatto in maniera sistematica.

Negli antichi testi vedici (composti all’incirca nell’odierna India del nord tra il secondo e il primo millennio avanti Cristo) troviamo scritto che “fra tutti gli animali idonei a essere vittime sacrificali, l’uomo è l’unico che sia anche idoneo a fare sacrifici”[3]. In questa frase abbiamo la misura e l’idea di ciò che, per i pensatori vedici, costituiva il rito. Nel pensiero rituale, precedente al pensiero mitico e in grado di restituirci, allora, l’idea del punto più lontano da cui parti la riflessione dell’uomo di cui abbiamo testimonianza scritta, è centrale l’idea della normatività, ovvero del ‘si deve’. Nessun pensiero oggi, per lo meno nell’Occidente secolarizzato, rappresenta meglio il ‘si deve’ del pensiero morale.

Più e diversamente rispetto alla legge o alla norma convenzionale, il precetto morale, almeno secondo l’opinione di alcuni, pretenderebbe di essere fondato su sé stesso, ovvero di valere per sé stesso. Diciamo pure secondo alcuni, poiché c’è chi, ad esempio e diversamente, sostiene che la morale debba trovare il proprio fondamento nell’idea di Dio, oppure che la morale non abbia fondamento eccettuato l’accordo intersoggettivo che rende le regole morali delle regole convenzionali.

In ogni caso, pensiamo di poter così riformulare l’affermazione tratta dai Veda: “Fra tutti gli animali idonei a essere oggetti di considerazione morale, l’uomo è l’unico che sia anche idoneo a essere soggetto o attore morale”. Il punto centrale da evidenziare è il ruolo fondamentale attribuibile alla moralità nella definizione della posizione dell’uomo all’interno del Cosmo. Non è possibile pensare l’uomo senza pensare l’uomo morale, o, come prima suggerivo, la scimmia morale.

Quanto ad una definizione di morale maggiormente precisa abbiamo che, in linea generale, nello studio sperimentale dedicato, i modelli della valutazione e del comportamento etico dell’uomo insistono su particolari elementi del dominio morale. Innanzitutto, l’interesse è centralmente rivolto allo studio della risposta di valutazione di situazioni intersoggettive (quindi situazioni dove sono presenti più individui, e non solamente un individuo singolo), nella maggior parte delle quali è presente un danno, o meglio, l’azione di nuocere a qualcuno senza una giustificazione moralmente valida. Allo studio del giudizio di azioni dannose e violente segue lo studio del giudizio di azioni di cura e lo studio del comportamento altruistico. In generale, però, esiste uno squilibrio fra l’attenzione dedicata allo studio della valutazione della trasgressione morale e l’attenzione dedicata invece allo studio della valutazione del rispetto del codice morale. Se il primo studio è stato molto frequentato, meno lo è stato lo studio della risposta di approvazione rispetto ad azioni moralmente approvabili.

Un altro aspetto della morale preso in considerazione dallo studio sperimentale è il senso di equità, reciprocità e giustizia. Infine, vi sono alcuni elementi considerati marginali su cui solamente una minoranza di psicologi sperimentali ha concentrato la propria attenzione. Si tratta degli aspetti legati alla lealtà (verso il proprio gruppo di appartenenza, verso lo Stato, etc.), al rispetto per l’autorità e alle dinamiche di purezza e santità (cfr. Haidt, 2007). Ora, è chiaro che possiamo avere differenti idee o definizioni di morale a seconda del peso relativo con cui consideriamo questi o altri elementi come appartenenti, più o meno centralmente, al dominio morale.

Aprendo il dizionario etimologico apprendiamo che il lemma ‘morale’ deriva dal latino moralem o moralis, da mos, moris ‘costume’, e che la sua radice ma- potrebbe riferirsi all’idea della misurazione, della regola, nel senso di misura delle azioni umane. Con ‘morale’, per ciò, indichiamo una pratica del bene (e, poi, avremo una diversa morale o pratica in funzione di cosa per noi sia il ‘bene’), una scienza dei costumi, la quale specifica l’insieme delle regole con cui dirigere l’attività libera e responsabile dell’uomo, fondamentalmente l’attività di scelta tra ciò che è bene e ciò che è male, tra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto. Proprio il mancato accordo tra ciò che è da considerare giusto o ingiusto, bene o male, compone il disaccordo morale e si accompagna all’esistenza di più morali tra loro differenti.

Se, poi, nel contesto della ricerca sperimentale, dobbiamo stabilire, nello specifico, quale azione, tratto di carattere o concetto sia o non sia connotato moralmente, sarà necessario un lavoro di analisi concettuale tale per cui si produca un accordo teorico tra la valutazione dello sperimentatore e la valutazione della popolazione generale di riferimento.

Che, infine, si possa inquadrare la morale, da un punto di vista storico e sociale, come un’espressione o forma del potere, è una questione che riguarda più l’analisi critica filosofica e meno l’indagine sperimentale della psicologia. Gli aspetti della riflessione sulla morale sono innumerevoli; solamente alcuni di essi vengono affrontati dalla psicologia sperimentale, e da un punto di vista prettamente descrittivo.

  • Giudizio morale

Avendo fornito almeno un’idea generale di ciò che, in questo frangente, intendiamo con il termine ‘morale’, rimane da affrontare la definizione di cosa sia un giudizio morale. Quando affermiamo che il senso morale è innato nell’uomo non intendiamo né affermare che una morale con contenuti precisi è innata nell’uomo né che alcune propensioni al comportamento – come, ad esempio, l’altruismo – esauriscono il senso per cui l’uomo è un essere morale. Intendiamo, invece, affermare che l’uomo nasce naturalmente predisposto a sviluppare una certa capacità di giudizio morale. Il punto centrale diventa, allora, la capacità di valutare moralmente. La domanda è, per tanto, cosa sia il giudizio morale.

Seguendo Joyce (2006), vorremmo provare a dare una definizione quanto più possibile esaustiva, nella convinzione che non sia veramente possibile affrontare lo studio scientifico di un fenomeno senza averlo in qualche modo circoscritto concettualmente. Più che una vera e propria definizione, tuttavia, in questa sede, possiamo avvicinarci, semmai e piuttosto, alla descrizione di cosa, per il senso comune, sia un giudizio morale.

Fondamentalmente, per il senso comune, il giudizio morale ha due componenti. Da una parte, esso è l’espressione di una credenza, ovvero è una proposizione, un enunciato. Dall’altra, esso è l’espressione di un’attitudine conativa (una volizione, un desiderio, una tendenza all’azione – in generale, la conazione è l’elemento attivo della coscienza), come, ad esempio, l’espressione di approvazione o di disprezzo o, più generalmente, la sottoscrizione di un certo codice normativo. In metaetica, ovvero la riflessione filosofica sulla natura della moralità e del giudizio morale, vi sono due diverse ed opposte posizioni l’enunciazione delle quali può aiutare a chiarire la distinzione tra questi due aspetti.

Secondo la posizione del ‘cognitivismo’ (formula che non si riferisce immediatamente a quanto in psicologia si è soliti associare al termine ‘cognitivo’ o ‘cognizione’), l’asserto morale ha una forma proposizionale e un valore di verità, ovverosia o è vero o è falso. Secondo la posizione rivale chiamata ‘non cognitivismo’, invece, il giudizio morale non ha un valore di verità; la valutazione morale non esprime o si riferisce ad alcun tipo di realtà se eccettuiamo lo stato emotivo soggettivo dell’individuo giudicante (secondo la versione della posizione non cognitivista detta ‘emotivismo’) oppure la prescrizione di seguire una certa condotta (secondo la versione della posizione non cognitivista detta ‘prescrittivismo’). Ora, al di là della divisione concettuale tratta, parrebbe sensato sostenere che le persone trovino nel giudizio morale sia l’espressione di una credenza sia l’espressione di un impegno al comportamento, di un’esortazione, di uno stato emotivo quale un desiderio o una volizione.

Ci sono altre caratteristiche utili a descrivere cosa sia, per il senso comune, un giudizio morale. Esso è generalmente formulato in maniera deliberata o, perlomeno, in maniera coerente con alcune considerazioni a cui l’individuo giudicante darebbe coscientemente il proprio assenso. Inoltre, il giudizio è generalmente formulato evitando di considerare come prioritari gli interessi o i fini particolari, di natura egoistica, delle persone coinvolte. Per esprimersi più chiaramente, diremmo che il ragionamento morale non è né prudenziale né strumentale. Anche se, come noto, la prudenza fu per secoli considerata dalla morale cristiana una virtù, tanto da essere presente nell’elenco delle quattro virtù cardinali, accanto a giustizia, fortezza e temperanza. L’accezione storica del termine prudenza è tuttavia diversa da quella odierna. I medioevali, infatti, per ‘prudenza’ intendevano la corretta applicazione della ragione.

Un altro ragionamento che potrebbe caratterizzare la concezione comune di cosa sia un giudizio morale, è che l’obbedienza al comando impartito dalla valutazione morale non è evitabile adducendo ragioni di ordine superiore. Al comando si deve obbedire e non ci sono ragioni di ordine diverso e superiore a cui appellarsi e con cui giustificare la propria posizione di difetto. L’imperativo categorico kantiano coglieva bene questo aspetto della deliberazione morale – non è un caso, poiché Kant si prefissò, nella Fondazione della metafisica dei costumi, di individuare il supremo principio della morale proprio risalendo analiticamente dalla conoscenza comune, e discendendo di nuovo, sinteticamente, ad essa dalla dimostrazione del principio. Agisci, dunque, solamente secondo quella massima per mezzo della quale puoi insieme volere che essa diventi una legge universale. C’è, dunque, una pretesa all’oggettività nel giudizio morale che è comune, secondo Kant, al giudizio estetico, ma non al semplice giudizio di gusto. Se, infatti, suona plausibile affermare ‘non mi piacciono gli asparagi, ma non mi importa se tu li mangi’, non suona affatto plausibile affermare ‘la vita è sacra, ma non mi importa se tu uccidi’. Quello che vale per me, se vale, deve valere anche per te, e viceversa.

Il giudizio morale, per tanto, trascende ogni convenzione sociale umana. Questo è un argomento delicato, ma, solitamente, il senso comune e con esso la psicologia morale accetta la distinzione tra norma convenzionale norma morale. Mentre la norma convenzionale può tranquillamente essere trasgredita da parte dell’individuo nel caso in cui la comunità ne decida il legittimo superamento, la norma morale, proprio per questo suo carattere di maggiore oggettività, difficilmente può essere accettabilmente trasgredita dall’individuo anche nel caso in cui la comunità o l’autorità decidano di ribaltare il codice morale vigente.

Un’ulteriore domanda che ci possiamo porre a questo punto, proprio nel tentativo di circoscrivere il significato colloquiale o di uso comune di ‘giudizio morale’, è cosa giudica per lo più il giudizio morale. Fornire un elenco esaustivo richiederebbe molto spazio, comunque più di quello a disposizione. Tuttavia, una recente e nota proposta può venirci in soccorso. Alcuni psicologi, occupandosi di costruire un questionario sui fondamenti morali per sondare varie dimensioni del giudizio morale delle persone, e per comprendere come queste entrano in disaccordo su cosa per loro significhi la ‘morale’, hanno individuato cinque grandi classi o argomenti o oggetti della valutazione morale (Graham et al. 2011). Una prima considerazione degli autori è che, per lo più, la valutazione morale svolge la funzione di governare le relazioni interpersonali, e, soprattutto, i casi di violenza ed egoismo. Una prima classe di interesse è allora quella relativa ad azioni dannose o di cura verso le persone e le cose. Una seconda classe comprende le dinamiche di equità e reciprocità; una terza, i concetti di lealtà e amore verso il gruppo di appartenenza; una quarta comprende i valori di rispetto per la tradizione e l’autorità; mentre una quinta e ultima classe comprende le dinamiche di purezza e santità, al confine tra morale e religione. Se le prime due classi caratterizzano in maniera particolare il pensiero morale occidentale, le ultime due sono state inserire per tener conto del pensiero morale e religioso orientale, ancora in parte basato sul valore della comunità, dove appunto l’attenzione ai valori della famiglia, della gerarchia, della purezza e della santità costruisce un universo concettuale diverso da quello che caratterizza la morale maggiormente individualista dell’uomo occidentale.

Se pure abbiamo fornito qualche elemento utile in via introduttiva al discorso, noi non pretendiamo di aver fornito una descrizione esaustiva o precisa di cosa sia un giudizio morale. D’altra parte, non deve essere questo il nostro obiettivo. Se il nostro scopo, come psicologi sperimentali, è indagare il giudizio morale delle persone, dobbiamo avere una visione di cosa sia un giudizio morale avvicinabile a quella delle persone stesse, a quella del senso comune. Ciò, tuttavia, sarà possibile solo in modo necessariamente approssimativo, oltre che per le differenze individuali che caratterizzano il pensiero di ognuno, anche perché le persone, di fatto, non hanno un criterio stabile e preciso di demarcazione tra ciò che è morale e ciò che non lo è, tra ciò che è individuabile come un giudizio morale e ciò che non lo è. Lo psicologo morale David Pizarro parla a tal proposito di visione morale ‘guazzabuglio’, ad indicare il carattere sostanzialmente privo di chiarezza e coerenza del giudizio etico comune.

Lo stesso Socrate, per tornare qualche secolo indietro, ammetteva, nel Menone, prima di confessare apertamente la propria ignoranza (come era uso fare, per altro, in diversi frangenti) sulla questione se la virtù sia acquisita o sia innata, di non sapere cosa fosse la virtù. Se pure le persone comuni, ma gli psicologi sperimentali e gli stessi filosofi sono sostanzialmente disorientati – ognuno con un diverso grado di consapevolezza, chiaramente – dal tentativo di proporre una definizione precisa ed esaustiva di cosa sia la morale e il giudizio morale, non consideriamo in linea di principio impossibile fornire almeno un criterio approssimativo di demarcazione, come d’altra parte abbiamo fatto.

 

  • La scienza: questione di metodo

Come accennato, gli aspetti della morale sono innumerevoli e, così, gli sguardi possibili sulla vita pratica o morale dell’uomo. Non solo la filosofia, prima della scienza moderna, si è occupata di descrivere e spiegare (e formare) il mondo morale dell’uomo, ma anche la letteratura, nelle sue diverse forme, più recenti come il romanzo o più antiche come la poesia, il canto, e il mito, ha saputo riflettere, alle volte profondamente, sul fenomeno. Il pensiero filosofico morale è certamente quello che più, tra le varie forme di conoscenza, ha saputo organizzare la riflessione in modo chiaro, analitico e stimolante. All’interno della disciplina possiamo trarre la distinzione tra etica normativa e etica descrittiva (parte della quale chiamiamo ‘metaetica’). Se l’etica filosofica normativa si occupa sostanzialmente di fornire indicazioni pratiche su come comportarsi in maniera retta, l’etica filosofica descrittiva, nella sua declinazione metaetica, si occupa di stabilire quale, fra tante possibili, è la descrizione vera della natura del mondo morale.

Agli scopi descrittivi della scienza, per tanto, può risultare utile l’analisi concettuale metaetica. Con questo termine, ‘metaetica’, intendiamo indicare la parte della filosofia morale che si occupa di comprendere e chiarire i fondamenti del discorso etico, affrontando questioni morali di secondo livello, quali i modi con cui si giustificano i codici morali, la natura o l’essenza dell’etica e il significato del linguaggio morale. La metaetica, ragionando sulla natura del linguaggio, dei valori e del giudizio morale, nonché sull’origine della normatività dell’affermazione morale, diventa uno strumento di analisi concettuale prezioso in relazione ai fini della psicologia morale come disciplina scientifica.

Tuttavia, la psicologia sperimentale si propone di andare oltre rispetto alla rigorosità dell’analisi concettuale filosofica. La psicologia sperimentale mira allo statuto scientifico e per tanto il suo sapere è in stretta relazione con il metodo d’indagine adottato. Il metodo è il solo mezzo attraverso cui lo sperimentatore è legittimato a conseguire la conoscenza sui fenomeni che indaga. Di conseguenza, non si tratta di un mezzo accessorio.

Innanzitutto, il metodo delimita precisamente i confini entro i quali lo sperimentatore può e deve muoversi. Il metodo (ovvero la sequenza di passaggi che specificano come fare qualcosa), o, per meglio dire, la metodologia (ovvero lo studio del e la riflessione sul metodo, che specifica perché si usa un determinato metodo e cosa si può inferire da esso, e come), delimita i confini della pratica sperimentale, nel senso che precisa quali sono gli strumenti, le tecniche, i modi di ragionare, argomentare ed indagare, le procedure di verifica, controllo e corroborazione da ritenersi legittime. Più radicalmente, però, il metodo delimita lo stesso campo di indagine, ovvero il fenomeno sotto osservazione. Sostanzialmente, sono il metodo e le scelte metodologiche che lo accompagnano che decidono se un certo fenomeno può o meno essere considerato un valido oggetto di indagine, e se può, sotto quali assunzioni. Inoltre, e chiaramente, la relazione corre anche nel verso opposto, ovvero può darsi il caso che il fenomeno da studiare ponga dei limiti rispetto alle tecniche di indagine utilizzabili.

Attraverso il metodo sperimentale il ricercatore tenta di falsificare le ipotesi, le quali sono generalmente formulate a partire da una teoria. Per essere accettate, le teorie hanno bisogno di essere corroborate. La corroborazione passa per l’esame dell’evidenza empirica. Ciò che disciplina e specifica i modi di quest’esame è il metodo, il quale ha come suoi principi cardine la replicabilità dell’esperimento e, così, del risultato, la controllabilità della procedura conoscitiva, la falsificabilità dell’ipotesi o della teoria e, appunto, la reperibilità di evidenza empirica a favore o contraria rispetto alla verità dell’ipotesi o della teoria.

  • Cenni generali e preliminari sul metodo sperimentale in psicologia

Solamente nel prosieguo delle lezioni vedremo esemplificati i diversi aspetti del metodo sperimentale, per mezzo dell’analisi degli aspetti metodologici di alcune importanti ricerche condotte nel campo della psicologia dello sviluppo morale. Pensiamo che, ai fini didattici, dedurre gli aspetti centrali del metodo sperimentale dallo studio dello psicologo, come questo si trova riportato nella pubblicazione scientifica, sia più utile alla comprensione di quanto possa esserlo, invece, un’esposizione sequenziale, ordinata, ma astratta degli aspetti metodologici. Ciò detto, può comunque essere utile far precedere all’analisi del metodo tramite le esemplificazioni delle pubblicazioni scientifiche almeno una breve esposizione degli aspetti di ordine più generale relativi al metodo sperimentale.

Innanzitutto, sarebbe più chiaro parlare di ‘metodo di indagine’, al singolare, nel caso in cui si intenda riferirsi al metodo sperimentale, i cui aspetti caratterizzanti sono trasversali all’intera psicologia sperimentale. Cosa diversa, invece, sono i metodi e le tecniche, ovvero i modi concreti di applicazione dello ‘spirito o della mente sperimentale’. Per cui, parlando di metodi, al plurale, si intende piuttosto un insieme di diverse procedure, accorgimenti, criteri di verifica e misurazioni. Insieme ai metodi abbiamo le tecniche, sempre al plurale, che disciplinano l’uso degli strumenti concreti con cui svolgiamo l’indagine sperimentale, o sono da indentificarsi con gli strumenti stessi. Un esempio di tecnica, tra i più noti, è la risonanza magnetica funzionale neuronale.

Chiarito questo punto, procediamo con la delineazione di alcuni aspetti essenziali del metodo sperimentale, lasciando a una successiva trattazione per esempi la descrizione dei metodi d’indagine e delle tecniche più utilizzate nel campo di studio della psicologia dello sviluppo morale.

Da poco più di un secolo, la psicologia è ordinata come una disciplina tipicamente o tendenzialmente scientifica. Essere scientifica o pretendere alla scientificità, nel caso della psicologia, significa adottare un metodo sperimentale empirico in grado di restituire un corpo di conoscenze accettabile più o meno dalla maggior parte della comunità internazionale. La procedura chiave è, evidentemente, l’esperimento. Idealmente, conducendo un’indagine empirica, lo sperimentatore dovrebbe arrivare alla formulazione di leggi scientifiche riguardanti il comportamento e i processi mentali dell’uomo. Semplificando il punto, potremmo dire che lo sperimentatore conosce la realtà psicologica dell’uomo sottoponendo a conferma sperimentale delle ipotesi formulate a partire da teorie. Nessuna teoria è, tuttavia, accettata in via definitiva, piuttosto è accettata fino al momento in cui non viene falsificata. La conferma sperimentale è un processo controllato per mezzo del quale lo sperimentatore cerca di isolare le variabili o i fattori rilevanti e indagare le relazioni di causa ed effetto o di correlazione in grado di spiegare o descrivere un certo fenomeno.

L’accettazione e il rifiuto delle ipotesi e delle teorie non sono quasi mai da considerarsi definitive, e precisamente per due ragioni. Primo, perché la scienza rimane sempre aperta alla possibilità di falsificare la conoscenza pregressa. Secondo, perché le relazioni causali e di correlazione, in psicologia, sono individuate tramite le procedure della statistica inferenziale. Accettando come vera un’ipotesi sulla base delle statistiche inferenziali oggi più diffuse (es. la falsificazione dell’ipotesi nulla), gli psicologi sperimentali sono consapevoli della possibilità che vi possa essere un errore, ovvero che la conoscenza a cui si è giunti non sia vera, ma solo probabilmente vera.

Confermare sperimentalmente un’ipotesi significa cercare di falsificarla, a favore o meno di un’ipotesi alternativa, comunque in un modo tale che l’operazione possa essere replicabile. Il concetto di replicabilità è uno dei concetti centrali per la definizione del metodo scientifico in psicologia, ma non solo. Un esperimento valido a stabilire delle conoscenze scientifiche dovrebbe essere sempre replicabile. Infine, il metodo sperimentale prescrive di verificare o falsificare le ipotesi attraverso l’analisi dell’evidenza empirica raccolta, l’osservazione di fatti e dati oggettivi, e non semplicemente attraverso il ragionamento concettuale deduttivo. Un’ipotesi, per essere verificabile in maniera scientifica, deve essere praticamente falsificabile da almeno un’osservazione empirica, dal verificarsi di un certo fatto.

Possiamo anche individuare alcune fasi principali che scandiscono il processo di indagine empirica condotto dallo psicologo sperimentale. Innanzitutto, si tratta di isolare e definire un problema, ovvero di chiarire i termini della propria domanda di ricerca. Una volta isolato l’oggetto di studio, è necessario specificare le teorie e le ipotesi che potrebbero spiegare il fenomeno. Ma cosa è un fenomeno? Con questo termine solitamente si intende un evento, un effetto, un fatto come un comportamento, un percorso evolutivo e così via, preso nella sua complessità. Più in generale, ‘fenomeno’ indica ‘ciò che appare, ciò che si mostra’, ed è, dunque, conoscibile attraverso l’osservazione empirica.

Per studiare un fenomeno, generalmente, l’indagine sperimentale ne deve semplificare la complessità. Il fenomeno, allora, è spesso ridotto a poche variabili osservabili. Variabile, come si intuirà, è ciò che è suscettibile di variazione. L’età è l’esempio classico di una grandezza che può variare, di una variabile. Per ‘variabile’, allora, si intende una qualsiasi proprietà di un evento o fenomeno che possa venire misurata o registrata dallo sperimentatore. Selezionare le variabili interessanti per una buona descrizione e spiegazione del fenomeno è forse il compito centrale dello psicologo sperimentale.

Nel progettare un esperimento, lo psicologo sperimentale traduce le variabili concettuali in variabili operative, per mezzo delle cosiddette definizioni operazionali od operative. Ciò che di fatto viene misurata, ovvero la variabile operativa, è collegata ai concetti teorici di interesse attraverso la definizione operativa. L’esempio classico è lo studio dell’intelligenza. La variabile è definita nei termini delle operazioni utilizzate per misurarla; così, l’intelligenza non è altro che il punteggio ottenuto al test di intelligenza (ad es. lo Stanford Binet). In pratica, si tratta di capire come vogliamo misurare l’evento che siamo interessati a studiare e comprendere. Una buona definizione operativa non è arbitraria, ma rappresenta in modo adeguato il concetto da cui lo sperimentatore è partito. In questo caso si parlerà di ‘validità di costrutto’. È fondamentale comprendere che ogni concetto, di per sé non misurabile, deve essere ripensato, da parte dello sperimentatore, sotto la categoria del fenomeno, ovvero di un evento misurabile.

Le misurazioni individuate devono essere quanto più attendibili e valide. È importante che lo strumento di misurazione sia sufficientemente preciso e che la misura colga effettivamente ciò che si è deciso di isolare teoricamente e di studiare. Un aspetto legato alla validità è la capacità predittiva di una misurazione. Attraverso una buona indagine empirica si dovrebbe essere in grado di fare delle predizioni, almeno sulle situazioni in cui è tipicamente presente l’evento studiato.

Un’ulteriore distinzione fondamentale è quella tra variabile dipendente e variabile indipendente, che vedremo brevemente con il primo studio che ci occuperemo di analizzare. La variabile dipendente è la misura del fenomeno osservato. Il valore che essa assume è solitamente ipotizzato dipendere dalla variabile indipendente. Generalmente, il valore della varabile indipendente è manipolato o selezionato in modo che lo sperimentatore possa osservare il cambiamento di valore della variabile dipendente in funzione della variabile indipendente. È in questo modo che si possono verificare statisticamente le ipotesi di partenza. Solitamente, tramite l’inferenza statistica lo sperimentatore valuta se rifiutare l’ipotesi nulla e accettare l’ipotesi alternativa (che la variabile indipendente influenzi significativamente la variabile dipendente).

Un problema da tenere in considerazione nella progettazione di un esperimento è la possibilità che vi siano variabili non volute ma intervenienti a determinare un’influenza sul comportamento della variabile dipendente. Il possibile intervento di queste variabili, spesso non rilevanti da un punto di vista teorico, può essere controllato attraverso diversi accorgimenti. Il valore di queste variabili può essere, ad esempio, mantenuto costante, si può bilanciarne gli effetti, della variabile, creando dei sottogruppi equivalenti all’interno del campione totale, oppure si può randomizzare e controbilanciare l’ordine di presentazione delle condizioni, nel caso possa essere questo un problema. Vedremo questi aspetti esemplificati nel prosieguo delle lezioni.

La variabile indipendente è chiamata anche fattore e può assumere diversi valori chiamati anche livelli. Uno studio sperimentale deve avere almeno un fattore e questo deve avere almeno due livelli (d’altra parte, se avesse meno di due livelli non sarebbe una variabile ma una costante). Il numero delle condizioni di un esperimento è determinato dal numero dei fattori e dal numero dei livelli di ogni fattore. Ad esempio, uno studio multifattoriale con due fattori con due livelli ognuno avrà quattro condizioni (2 fattori x 2 livelli). Nei disegni multifattoriali si ha un effetto principale di una variabile indipendente quando questo si mantiene statisticamente equivalente in tutti i livelli degli altri fattori, mentre si avrà un effetto di interazione nel caso in cui gli effetti di una variabile indipendente variino in funzione dei livelli dell’altra o delle altre variabili indipendenti.

Nei disegni entro i soggetti (within-subjects) tutti i soggetti sono sottoposti a tutte le condizioni o livelli, mentre nei disegni tra i soggetti (between-subjects) c’è almeno un gruppo di soggetti che viene sottoposto ad una condizione o livello differente rispetto alla condizione a cui viene sottoposto un altro gruppo appartenente al campione totale. Il problema principale dei disegni tra i soggetti o tra i gruppi è che i gruppi selezionati possano non essere omogenei in partenza. Aumenta, dunque, il rischio che l’effetto osservato sulla variabile dipendente non sia dovuto alla variabile indipendente ma piuttosto ad un’altra variabile interveniente su cui lo sperimentatore non ha il controllo. Il problema principale dei disegni entro i soggetti o entro i gruppi, invece, è che le condizioni o prove a cui tutti i soggetti sono sottoposti si condizionino in modo imprevisto l’una con l’altra.

Se il disegno sperimentale è costruito bene, soprattutto in relazione alla capacità di indagare la relazione tra variabile indipendente e dipendente in assenza del rumore delle variabili intervenienti, allora l’esperimento si dice che ha una buona ‘validità interna’. Si parla di ‘validità esterna’, invece, quando si considerano problemi come la generalizzabilità dei risultati. Un tipo particolare di validità esterna è la ‘validità ecologica’. Con questa espressione si indica il grado di corrispondenza tra la situazione spazio-temporale dell’esperimento e la supposta realtà, quotidiana, a cui si fa riferimento e alla quale i risultati dovrebbero poi venire generalizzati. Tanto più il contesto sperimentale di laboratorio assomiglia al contesto reale in cui il fenomeno si manifesta tipicamente, tanto più l’esperimento è valido sotto il profilo ecologico.

Una volta formulate le ipotesi e progettato l’esperimento, si procede alla sua conduzione e, dunque, alla raccolta dei dati che deve avvenire, come è naturale, in modo trasparente, obbiettivo e replicabile. Attraverso l’analisi statistica inferenziale dei dati raccolti lo sperimentatore verifica o falsifica le ipotesi. Sulla base dell’evidenza empirica raccolta, della sua rilevanza teorica e della conoscenza pregressa, lo sperimentatore elabora le proprie conclusioni. Come già ricordato, attraverso l’esperimento, in psicologia, spesso non si giunge ad una conoscenza definitiva, e si giunge, allora, ad una conoscenza vera solamente in termini di probabilità. Sarà compito della sperimentazione successiva portare evidenza a sostegno o contraria alle conclusioni raggiunte, secondo l’ideale pratico per cui ogni teoria è suscettibile di essere democraticamente falsificata da parte della comunità scientifica internazionale e da parte della ricerca futura.

  • Il metodo e le tecniche nella psicologia dello sviluppo

Sappiamo che in psicologia è consigliato usare diverse tecniche d’indagine a seconda dell’aspetto del fenomeno o del fenomeno stesso che si è interessati a studiare. Per fare un esempio, se siamo interessati agli aspetti temporali dell’attivazione cerebrale relativa, poniamo, all’elaborazione mentale delle proposizioni in lingua straniera, possiamo usare l’elettroencefalografia (EEG), se invece siamo interessati agli aspetti spaziali, è consigliabile usare la risonanza magnetica funzionale (fMRI).

Nell’indagine del ragionamento e del comportamento degli infanti e dei bambini più grandi, si impongono alcune restrizioni importanti rispetto all’insieme totale dei metodi e delle tecniche utilizzabili per lo studio della psicologia tout court. L’infante, con i suoi pochi mesi di vita e le sue scarse capacità di attenzione e di memoria, chiaramente vincola lo sperimentatore rispetto alla scelta delle tecniche e dei metodi d’indagine. In ogni caso, attualmente, i metodi e le tecniche sviluppate in seno alla disciplina non permettono di studiare la componente morale dei bambini sotto i tre mesi di vita.

Innanzitutto, l’infante non ha ancora sviluppato il linguaggio e la capacità di ragionare in maniera strutturata su di sé. Non solo, dunque, la comprensione di sé, ma la stessa possibilità di comunicarla è impedita nell’infante. Di conseguenza, non possiamo apprendere nulla in maniera diretta dall’infante. Non è possibile, ad esempio, studiare l’introspezione nel bambino durante i primi momenti del suo sviluppo. Non è nemmeno possibile sfruttare la propria introspezione di adulti per dedurre i tratti essenziali dell’esperienza del bambino. Infatti, nessuno ricorda cosa voglia dire essere un infante. Chi voglia osservare e comprendere scientificamente un infante, perciò, incontrerà difficoltà simili a chi voglia osservare e comprendere un animale non umano.

Un altro vincolo alla scelta dei metodi è costituito dalle limitate capacità di attenzione, di controllo e di memoria del bambino, quelle che in gergo tecnico sono chiamate le ‘funzioni esecutive’. L’infante, il quale non ha ancora sviluppato sufficientemente tali capacità, non può, di conseguenza e ad esempio, essere sottoposto ad un’analisi dell’attività cerebrale per mezzo di una risonanza. L’attenzione richiesta durante una sessione fMRI supererebbe le sue capacità.

Inoltre, nello studio sperimentale del bambino emerge tipicamente una serie di problemi specifici di natura etica. Sappiamo bene che il bambino gode di uno statuto speciale. Non solo è un essere umano, ma è anche, e altrettanto fondamentalmente, un bambino. Non essendo ancora libero e responsabile delle proprie azioni, il bambino è protetto dalla tutela del genitore o comunque di un adulto, il quale decide se acconsentire o meno alle attività che lo riguardano. Il bambino riceve, così, un’attenzione etica particolare da parte dei genitori, della legge e dei Comitati Etici per la sperimentazione sull’uomo. Chi fa ricerca con i bambini si imbatte necessariamente nella propria e nell’altrui sensibilità morale nel momento in cui prende la decisione su come e con quali mezzi studiare lo sviluppo. Anche per tali ragioni di natura etica, dunque, tecniche che potrebbero risultare invasive, come ad esempio la risonanza magnetica, non vengono solitamente utilizzate nello studio dello sviluppo del bambino.

Una tecnica che, invece, proprio in relazione al suo minore carico invasivo, è utilizzata per indagare l’attività cerebrale anche negli infanti è la NIRS (spettroscopia del vicino infrarosso o near-infrared spectroscopy). Come la risonanza magnetica funzionale neuronale anche la NIRS è una tecnica di imaging che misura i cambiamenti del livello di ossigenazione nel cervello, ma a differenza della risonanza magnetica, la NIRS, introdotta da una quindicina d’anni a questa parte, è totalmente non invasiva ed è a basso costo. La NIRS possiede un’elevata risoluzione temporale e spaziale, ed è adatta a studiare i cambiamenti di ossigenazione, dunque di attivazione cerebrale, correlati ad aspetti cognitivi, emotivi e motori.

Invece che essere inseriti in uno scanner, come accade durante una sessione fMRI, le persone vengono semplicemente dotate di un caschetto, simile a quello usato per registrare la risposta elettroencefalografica, con il quale lo sperimentatore può misurare i segnali metabolici, emodinamici e neuronali associati all’attività cerebrale. Tramite il caschetto lo sperimentatore induce e registra delle radiazioni elettromagnetiche ottiche a bassa energia.

I punti di forza da sottolineare della NIRS rispetto alla fMRI sono due. Il primo è che, grazie al fatto che le persone sottoposte a NIRS possono muoversi, questa tecnica permette di fare misurazioni più ecologiche rispetto alla fMRI. Il secondo punto, rilevante per lo studio dei bambini e degli infanti, è che la NIRS sembrerebbe non avere le controindicazioni legate alla pericolosità delle radiazioni che, invece, sembrerebbe avere la fMRI. Inoltre, al contrario di quest’ultima, la NIRS non richiede al bambino un particolare impegno fisico o psicologico. Se, inoltre, la fMRI ha una buona risoluzione spaziale, il segnale BOLD (Blood Oxygenation Level Dependent) ha un andamento lento tale da non permettere di registrare le dinamiche temporali più veloci che caratterizzano i processi cognitivi studiati, ed è, infine, molto sensibile agli artefatti. La spettroscopia funzionale del vicino infrarosso ha una risoluzione spaziale e temporale sufficientemente alta, e permette di analizzare i valori assoluti di ossigenazione e deossigenazione di emoglobina, dove, invece, la risonanza magnetica restituisce solamente i valori della variazione.

Costi contenuti ma soprattutto poca invasività rendono la NIRS una tecnica adatta allo studio dei correlati neuronali dell’attività cognitiva dell’infante (Aslin & Mehler, 2005). Se è vero che la NIRS presenta diversi vantaggi rispetto ad altre tecniche di neuro-imaging, e promette, così, di portare a scoperte interessanti nel futuro, è anche vero che, in questo frangente, ci interessa relativamente poco. Infatti, non dovremmo scordare che attraverso lo studio dei correlati neuronali possiamo e vogliamo arrivare, per lo più, alla comprensione di dove nel cervello avviene l’attività neuronale correlata ai processi cognitivi indagati; nulla di meno, ma nulla di più.

Evitando di fare inferenze sospette da un punto di vista logico deduttivo come l’inferenza inversa (reverse inference; cfr. Poldrack, 2006), per cui la presenza di un particolare processo cognitivo è inferita dall’aver registrato l’attivazione di una particolare area cerebrale, rimaniamo per lo più interessati, nell’indagine dei correlati neuronali, a rispondere alla domanda dove nel cervello avvenga l’attività neuronale associata ai processi oggetto di studio.

Tuttavia, notiamo che ciò che sembra essere maggiormente rilevante, allo stato attuale della ricerca sulla cognizione socio-morale dell’infante (ancora ai suoi esordi) e del bambino, è capire non tanto dove nel cervello avvengano i processi, ma piuttosto quali processi siano presenti, e come si sviluppino. Le domande rilevanti, allora, sono come ragiona il bambino e cosa conosce. Per rispondere a queste domande dobbiamo usare altre tecniche d’indagine rispetto a quelle ora considerate.

  • Cosa studia la psicologia dello sviluppo morale? Metodi e contenuti

La psicologia sperimentale è, evidentemente, una disciplina molto vasta. All’interno di essa c’è la psicologia dello sviluppo, la quale, come dice la parola stessa, si occupa di descrivere e spiegare l’ontogenesi della psicologia umana. Più chiaramente, la psicologia dello sviluppo studia l’evoluzione del comportamento, della cognizione e dell’emozione. Per fare ciò essa studia il bambino e l’adolescente, e, recentemente, si occupa di comprendere in modo rigoroso e sperimentale anche il comportamento e la cognizione dell’infante.

Tra i vari aspetti della natura umana che maturano c’è il senso morale, ovvero la capacità di giudicare e sentire rispetto alle questioni morali. La psicologia dello sviluppo morale, dunque, studia l’evoluzione del comportamento, della cognizione e dell’emozione morale. La prima domanda, per importanza e interesse, è quali capacità e sensibilità siano innate nell’uomo. In una formula, la psicologia dello sviluppo morale indaga le origini della vita morale dell’adulto negli infanti e nei bambini, cercando di svelarne, poi, il percorso di maturazione.

Ad individuare i contorni della disciplina, però, più che le definizioni di massima aiutano le descrizioni degli oggetti di ricerca e dei metodi usati. Quanto agli oggetti di ricerca, possiamo specificarli nell’elenco che segue.

Primo, il senso morale o la capacità di giudicare a partire dalle tipiche categorie dell’etica. Come ragionano i bambini sulle questioni morali? Quali sono le loro intuizioni? Quali distinzioni morali traggono, quali categorie e concetti morali usano per comprendere le situazioni sociali di cui sono testimoni, e come valutano i comportamenti propri e quelli altrui? Come possiamo descrivere l’emergere e lo sviluppo dei concetti morali? Come evolve la capacità di comprendere e valutare le situazioni morali?

Secondo, accanto alla dimensione cognitiva c’è senz’altro quella emotiva. Come e quando, allora, il bambino sviluppa le cosiddette emozioni morali? Empatia, simpatia, compassione, disgusto, rabbia, vergogna, senso di colpa e così via. Quali di queste emozioni sono presenti alla nascita e quali evolvono con lo sviluppo? Come si caratterizza lo sviluppo della risposta emotiva? Quali emozioni sono innate e quali sono culturalmente apprese? In che relazione le emozioni sono una con l’altra e come si complica questa dinamica relazionale con l’età?

Terzo, gli psicologi dello sviluppo morale studiano il comportamento. L’altruismo e il comportamento di condivisione, ad esempio. La propensione a ricompensare e a punire, intimamente legata allo sviluppo del senso di giustizia. Il comportamento coerente o meno con il rispetto del principio di equità. Il rispetto dell’autorità, nelle sue diverse forme. Questi sono i principali oggetti di ricerca, la conoscenza dei quali è orientata alla comprensione dello sviluppo dell’intricata algebra morale degli individui.

Quanto ai metodi e alle tecniche, elenchiamo di seguito, in modo conciso, i più utilizzati. Nel prosieguo del lavoro presenteremo ogni metodo nel dettaglio, aiutandoci nell’esposizione con il racconto di alcune recenti ed importanti ricerche condotte nell’ambito.

Il sistema più immediato per indagare il comportamento del bimbo è osservarlo. L’osservazione comportamentale, rigorosa e strutturata, è forse uno dei metodi più antichi. Un ulteriore modo per comprendere il comportamento ma il ragionamento del bambino è studiare i resoconti verbali che egli stesso fornisce, attraverso un colloquio o un’intervista. L’uso di questionari e domande, chiuse o aperte, per indagare lo sviluppo della valutazione morale è adatto a essere usato con i bambini che hanno acquisito il linguaggio, e comunque indicativamente dai tre anni in poi.

Alcuni metodi di indagine, invece, sono stati sviluppati più recentemente e vengono utilizzati in modo particolare per studiare la psicologia degli infanti. L’analisi dei movimenti oculari e del tempo di osservazione di uno stimolo serve per lo più a comprendere le aspettative possedute dal bambino e la sua comprensione rispetto ad alcuni aspetti della realtà. L’espressione della preferenza del bimbo può essere dedotta dall’analisi della direzione dello sguardo, con i bambini più piccoli, o con la stessa durata dello sguardo di fissazione, ma anche e soprattutto con il comportamento di raggiungimento (le cosiddette reaching measures), dove al bambino viene chiesto di raggiungere o avvicinarsi all’oggetto che preferisce. Inoltre, il bambino può essere coinvolto in giochi distribuitivi che permettono allo sperimentatore di valutarne l’altruismo o il senso di equità. Considereremo con attenzione queste ed altre metodologie di indagine nel prosieguo delle lezioni.

Note:

[1] Prendo ‘morale’ ed ‘etica’ come termini sinonimi, anche se alcuni preferiscono distinguere la morale dall’etica riservando il secondo termine all’indicazione dello studio, filosofico o deontologico, della morale.

[2] Per approfondire questo tipo di situazione sperimentale vedi Greene et al. (2001) oppure Pellizzoni, Siegal, & Surian (2010), per uno studio sui bambini. Per un approccio critico vedi invece Shweder (2009).

[3] Per un’ottima riflessione sul pensiero rituale vedico si può consultare Cuocere il mondo di Charles Malamoud.

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Francesco Margoni

Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive dell’Università di Trento. Studia lo sviluppo del ragionamento morale nella prima infanzia e i meccanismi cognitivi che ci permettono di interpretare il complesso mondo sociale nel quale viviamo. Collabora con la rivista di scienze e storia Prometeo e con la testata on-line Brainfactor. Per Scuola Filosofica scrive di scienza e filosofia, e pubblica un lungo commento personale ai testi vedici. E' uno storico collaboratore di Scuola Filosofica.

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