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Tag: Kant

Memory, Meanings and Language – How We Think About Things

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How does language connect to the world? A simple, ancient question that should hunt every serious scholar in any field. For example, what do we mean when we say, ‘The army fought bravely against Nazi Germany’ or ‘All crows are black’? How can we connect an ‘army’ to ‘braveness’ and its ‘fighting’ ‘against Nazi Germany’? What do we actually mean by ‘all crows’? No matter how one wants to tackle the problem, this is quite an astonishing open-ended hurdle that every new generation of thinkers must recalibrate or reframe.[1]

Plato started the quest because of his idealist conceptualization of knowledge, which was understood only as perfect in terms of access to the ideas which, in turn, must refer to the world somehow. However, how to connect his ideas to a specific ‘table’ is not an easy endeavor and Aristotle tried to reverse the process: we describe ‘tables’ given the knowledge we get from every specific table. But then, how can we have a general notion of tables? From where this ‘generality’ comes from and how can it be justified? Ultimately, these answers can be partially given reformulating the problem in terms of meaning. The meaning of the sentence ‘the table is black’ depends on the meanings of its constituent components. What does meaning mean? We need to clarify what the meanings of words (in theory, all of them, including prepositions, indexicals, and prepositions).

Interestingly, so-called idealist philosophers such as Renè Descartes and Baruch Spinoza reinterpreted the idealist vision in subjective terms. Plato assumed that ideas are external non-causal entities existing outside the phenomenon and the mind. They stay there eternally unmoving mysteriously able to give us a real glimpse of a stable world. Firstly, Descartes reinterpreted this concept within the subject itself: ideas are stable construction of the cognitive subject whose access is granted by direct introspection whose strength is supplemented by reason. However, the grasp of concepts can be independent from reason, which has the primary goal to make arguments based on those ideas and concepts. Of course, Descartes had the same problem Plato had; that is, how to connect ideas to the world. In his case, he had to make a brilliant and convoluted argument based on the alignment between ideas and the world granted by God and by the general architecture of cognition.[2] Spinoza, partially endorsing and criticizing Descartes, extended those lines of arguments: not only ideas can be explicitly grasped directly through a special direct introspection (intuition) but reason is the sole means to grant justification in elaborating new ideas.[3]

La filosofia e il linguaggio politico cinese. La riscoperta di Confucio e i limiti filosofici della nostra comprensione della Cina [2/3]

Chinese Emperor Fu Hsi, wearing traditional costume, holding the ‘Yin-yang’ symbol;
Copyright: Wikimedia Commons, https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Chinese_Emperor_Fu_Hsi,_wearing_traditional_costume,_Wellcome_V0018487.jpg

La filosofia politica cinese contemporanea: Rinascimento Confuciano e proposta di un modello ibrido.

 

Offrire una panoramica esaustiva del pensiero filosofico-politico cinese in poche righe sarebbe non solo inefficace, ma anche riduttivo e irrispettoso verso la complessità e la profondità di questa tradizione. Tuttavia, alcuni aspetti fondamentali devono necessariamente essere introdotti per poter proseguire in modo rigoroso l’analisi del problema.

In primo luogo, prenderemo in esame lo status attuale della filosofia cinese nel panorama intellettuale globale. In seguito, si analizzerà, in termini generali, il fenomeno socioculturale della riscoperta e della riattualizzazione del pensiero confuciano all’interno della politica cinese contemporanea. Infine, l’attenzione sarà rivolta ai più recenti sviluppi teorici del cosiddetto “modello politico confuciano”, proposto come possibile risposta alla crisi delle democrazie liberali.

VENERE IN CORNICE – La meditazione per l’eternità di Asclepio fra le spire dell’acqua fendente / The meditation for all eternity of Asclepius between the coils of the cleaving water

Matteo Corradini fantastica su un serpente… “viaggiatore”. Esso avrà la pelle bianca, ma con un fiocco celeste alla base della testa. Nessuno è abituato a…

[SEGNALAZIONE] War is not our Profession – Paradoxes for a Moralization and Morality of War


War is not our Profession – Paradoxes for a Moralization and Morality of War

Here we go! It is with distinct pleasure sharing this paper with my everpresent SF audience. It is the first one for this year. The topic is extremely timely: the morality of war. This is a real philosophical paper for the journal Moral Philosophy/Filosofia Morale. I thank Professor Roberto Mordacci, dean of the faculty of philosophy of Università Vita-Salute San Raffaele, for his kind invitation. It was the opportunity to write officially about Kant’s morality, one of my greatest philosophical conceptions. I reframed it and tackled the most difficult question in morals: can war be just? And the answer is resolute: no… but! And I leave you all with this hoping to have feedback on the reading.  The paper can be found here: academia and on the journal’s webpage.

La Costituzione estetica al genitivo impolitico d’un Potremmo

Da Heidegger, il Destino della Metafisica Occidentale non sembra tanto l’aver “ridotto” l’Essere ad un ente particolare. Questo identificherà l’idea di Platone, il motore immobile di Aristotele, la res cogitans di Cartesio ecc… Piuttosto, il Destino della Metafisica Occidentale si compirebbe avendo “esagerato” l’Essere. Servirà “caricarvi” il potere d’un ente particolare, ed essenzialmente per lo strutturalismo in politica. Heidegger menziona il “mistero” d’un cammino verso il linguaggio. Forse egli ci chiede di rimpiazzare la politica, e mediante l’estetologia. Solo quest’ultima è percepibile mettendo la creatività prima della libertà. Precisamente, l’estetologia vale nella sua formatività. La creatività presuppone il potremmo, per cui uno si limita da solo, verso un servizio agli Altri, senza la necessità dell’autogiustificazione (mediante la “banalità” d’un potere).

Da Heidegger, ci ricordiamo la dialettica fra il Welt e la Erde. Il primo identificherà il Mondo (per il concettualismo del potere); la seconda rinvierà alla Terra (da un “lirismo” del potremmo)[1]. Forse, l’ontologismo di Heidegger va filtrato tramite il vitalismo di Deleuze. Se la filosofia è creazione di concettualismi “muscolari”, alla “misteriosa” e “lirica” Erde s’allaccia una “non più meccanica” de-territorializzazione[2]. Il cammino verso il linguaggio di Heidegger diventa la perdita del presupposto plato-hobbesiano per cui l’uomo deve governarsi solo tramite la politica. Qualcosa da percepire in chiave estet-ontologica. Se i concetti per Deleuze sono agonistici, giacché quelli “s’allargano” gli uni sugli altri, allora bisognerebbe “svelare” un Destino della Generazione Metafisica, tramite dei “parti” concettuali(stici).

‘Anche Kant amava Arancia meccanica’, l’ultimo libro di Giangiuseppe Pili

Anche Kant amava Arancia meccanica” è l’ultimo lavoro di Giangiuseppe Pili, pubblicato per Petite Plaisance. È un libro su Kubrick, sul cinema e sul pensiero del regista americano.

Iniziamo subito coll’affermare che questo è un libro che l’appassionato di cinema leggerà con buona probabilità tutto d’un fiato. Non solo per la sua oggettiva brevità (pp. 128), ma soprattutto perché chiaramente scritto da un filosofo che ha osservato e considerato Kubrick attraverso il filtro dell’amore e della sentita ammirazione. È Pili stesso a confessare, in un inaspettato capitoletto conclusivo ‘Making the book’ (un dietro le quinte del libro che scava almeno sino alla prima adolescenza dell’autore), quanto egli debba della sua crescita personale e culturale al regista di grandi film che sono anche riflessioni sulla natura umana come Orizzonti di gloria, Full Metal Jacket, Arancia Meccanica e 2001 Odissea nello spazio.

La tesi principale del libro è che Kubrick è un filosofo. Naturalmente, la conclusione di un argomento è sempre meno interessante dell’argomento stesso, e anche per questo invito tutti a seguire l’incalzante argomentazione di Pili. Qui osserverei innanzitutto che la tesi è decisamente forte. Se il lettore prenderà sul serio l’idea che Kubrick sia un filosofo non riuscirà mai più a guardare un film del regista americano con gli stessi occhi di prima.

Considerazioni sul concetto di rappresentazione o immagine nel fenomenismo

Abstract
L’articolo mira a mettere in luce con breve sintesi la paradossalità delle teorie epistemologiche che ammettono la tesi fenomenista. In base ad essa, la conoscenza è una mera produzione di rappresentazioni che, in quanto soggettive, rendono dubbio ogni possibile giudizio sul mondo. Esistono teorie alternative, la filosofia dell’organismo di Whitehead ne è un esempio. Essa propone una spiegazione del rapporto tra soggetto ed oggetto che radica in una concezione relazionale della materia, in cui il differenziale tra conoscente e conosciuto si annulla, perché entrambi i poli si istituiscono come elementi costitutivi dell’esistenza dell’altro.


La dignità come proprietà morale formale e sostanziale del soggetto morale

La dignità è una parola che viene usata ordinariamente per indicare il riconoscimento del diritto di esistere, ovvero non esattamente il diritto in sé quanto la sua attribuzione a qualcuno. Eppure, definire la dignità è un problema non ordinario proprio perché sembra che la parola sia un valore elementare e inalienabile dell’individuo umano. Eppure molto del dibattito pubblico incentrato su questo termine risulta piuttosto insoddisfacente. Non è mio interesse qui fare una analisi storica del concetto, ma vorrei proporre alcune distinzioni e chiarificazioni su questo termine per poi proporre una posizione in linea con l’approccio morale neo-kantiano che ho proposto in altro loco.

La dignità è una parola ambigua perché identifica due generi diversi di proprietà. Anche senza ancora definire la parola, si può distinguere un uso de re da un uso de dicto della dignità. In un caso, la dignità è attribuita da qualcuno a qualcun altro o a qualcos’altro (uso de dicto). Nell’altro caso, la parola viene invece considerata nell’oggetto (de re), ovvero il fondamento ultimo della sua ragion morale. Alcune parole ammettono una distinzione de re e de dicto che, però, non si distinguono così tanto nettamente: posso attribuire una credenza a Giulio Cesare (uso de dicto della parola “credenza”) che è anche proprio in Giulio Cesare (uso de re della parola). Per rendere invece evidente il caso di divergenza dei due tipi di uso, ad esempio quando attribuisco una credenza ad un organismo molto semplice (“un virus crede di farla franca rispetto al sistema immunitario”…) sto usando la parola “credenza” in senso de dicto ma non de re (un organismo unicellulare non ha credenze). Nel caso della parola “dignità” le cose stanno diversamente. Infatti, posso attribuire dignità anche ad altri esseri o oggetti nei quali non si può dire che la parola assuma lo stesso significato che nel caso in cui essa venga applicata (per esempio) a se stessi. Posso attribuire una certa dignità ad un cane ma la mia dignità è qualcosa di connaturato a me stesso ed è presente anche se nessuno me la riconoscesse.