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‘Anche Kant amava Arancia meccanica’, l’ultimo libro di Giangiuseppe Pili

Anche Kant amava Arancia meccanica” è l’ultimo lavoro di Giangiuseppe Pili, pubblicato per Petite Plaisance. È un libro su Kubrick, sul cinema e sul pensiero del regista americano.

Iniziamo subito coll’affermare che questo è un libro che l’appassionato di cinema leggerà con buona probabilità tutto d’un fiato. Non solo per la sua oggettiva brevità (pp. 128), ma soprattutto perché chiaramente scritto da un filosofo che ha osservato e considerato Kubrick attraverso il filtro dell’amore e della sentita ammirazione. È Pili stesso a confessare, in un inaspettato capitoletto conclusivo ‘Making the book’ (un dietro le quinte del libro che scava almeno sino alla prima adolescenza dell’autore), quanto egli debba della sua crescita personale e culturale al regista di grandi film che sono anche riflessioni sulla natura umana come Orizzonti di gloria, Full Metal Jacket, Arancia Meccanica e 2001 Odissea nello spazio.

La tesi principale del libro è che Kubrick è un filosofo. Naturalmente, la conclusione di un argomento è sempre meno interessante dell’argomento stesso, e anche per questo invito tutti a seguire l’incalzante argomentazione di Pili. Qui osserverei innanzitutto che la tesi è decisamente forte. Se il lettore prenderà sul serio l’idea che Kubrick sia un filosofo non riuscirà mai più a guardare un film del regista americano con gli stessi occhi di prima.

Voglio dirlo chiaramente. Questo è un libro che ti cambierà per sempre l’esperienza del cinema di Kubrick, e le cui tesi non potranno lasciarti indifferente, costringendoti a prendere posizione. Affermare che un regista è filosofo significa, riprendendo la terminologia del Discorso di Cartesio, poter rintracciare nella sua opera il tentativo di sviluppare idee chiare, distinte e tra loro ben connesse. E in ‘Anche Kant amava Arancia meccanica’ il lettore affronta insieme all’autore un percorso di ricerca dell’unità del pensiero di Kubrick. Come si connettono tra loro gli eterogenei film del regista americano? Cosa unisce Barry Lyndon, Lolita e Shining?

Kubrick come filosofo impegnato nella riflessione sulla natura umana. Colle parole di Pili, che elabora a partire delle sequenze iniziali di 2001 Odissea nello spazio, visivamente straordinarie:

“… dagli ominidi al futuro è la natura di ciò che sta in mezzo che dobbiamo capire. Ciò che sta tra un osso e un’astronave congiunti insieme dall’idea che entrambi sono strumenti e forme degli esseri umani. La storia dell’umanità, dunque.”

Della storia dell’umanità e della nostra natura di esseri umani ogni film di Kubrick ci dice qualcosa, affrontando i temi della famiglia, della sessualità, della guerra e della pace, della violenza e della speranza in un futuro di ragione. D’altra parte, la seconda tesi o proposta del libro è quella che risponde alla domanda a che tipo di filosofo o a che filosofo somigli Kubrick. Le possibilità e le prospettive qui sono molte. Filosofi della natura umana sono stati Hobbes e Russeau, ma Kubrick, secondo Pili, sarebbe un Kant. Se in molti film del regista americano sembra che violenza e sesso travolgano la ragione (si pensi all’uomo di cultura che non resiste a Lolita o all’uomo di scienza risucchiato dall’ignoto in Eyes Wide Shut), e in effetti spesso è così nel cinema di Kubrick, nella sua opera sarebbe però presente la speranza in un futuro di ragione.

Per capirlo, si può riportare la mente a una delle ultime scene di Full Metal Jacket, un film che Pili, lasciandomi incredulo, scrive in conclusione al libro di aver visto oltre 50 volte. Nella scena, il gruppo di marines ha ormai individuato, ferito e messo fuori gioco il cecchino (anzi la ‘cecchina’, come direbbero quelli a cui piace dire la ‘sindaca’). Il soldato Animal (personaggio che, come evidente anche solo dal nome, rappresenta la parte più animale e feroce della natura umana) e il resto del gruppo è per lasciare la vietnamita al suo destino di morte lenta. Diversamente, il soldato Joker (nonostante sia ‘un ignorante senza Dio’ secondo il sergente Hartman), parte razionale della natura umana o sulla quale è comunque legittimo nutrire speranze, ha compassione per l’umanità presente nel nemico e ‘spreca’ la pallottola.

Dunque “Kubrick è l’Immanuel Kant del cinema perché Kant, come Kubrick, era uno che credeva nella ragione, pur con tutti i suoi limiti.” Esemplificazioni di questi limiti se ne trovano ovunque nel cinema di Kubrick, regista della violenza, della guerra e del vizio, regista che riprende l’orlo dell’abisso, ma non ancora la caduta senza ritorno nelle buie profondità dell’abisso. Infatti, e questa è la proposta di Pili, secondo Kubrick (e riprendendo la vicenda del soldato Joker) “siamo killer con il distintivo di pace sulla testa che cercano in tutti i modi di andare oltre il noto perché da qualche parte il bene è possibile”. Secondo Kubrick, come secondo Kant, un riscatto morale dell’umanità sarebbe possibile.

Naturalmente, quella di Pili è un’interpretazione dell’opera e del pensiero di Kubrick, il cui merito e fascino maggiori risiedono proprio nella ricerca dell’unità nella filosofia del regista americano. La stessa proposta che Kubrick sia un filosofo è naturalmente un’interpretazione, e anche piuttosto radicale. A rendere stimolante la lettura del libro è però il fatto che il lettore deve da una parte considerare l’opera complessa di Kubrick, che è senz’altro tra le migliori rappresentazioni della profonda ambiguità caratterizzante la natura umana, e dall’altra prendere posizione rispetto a un tentativo di rendere coerente e sistematica l’eterogenea produzione del regista americano. Personalmente trovo il tentativo di Pili ben riuscito, e tuttavia il lettore è stimolato a contribuire nella riflessione proprio perché mi pare che un tentativo di questo tipo non possa dai dirsi pienamente concluso, essendo Kubrick “un regista della totalità”.

Chiudo affermando che ho trovato questo libro scritto magistralmente. Non solo un prodotto della ragione, cosa che è già molto, anzi quasi tutto, ma anche il risultato di un processo di ricerca stilistica e di un lavoro sul linguaggio, nella tensione verso l’espressione precisa, il passaggio chiaro e nondimeno l’immagine efficace ed evocativa. Un omaggio all’opera del regista americano.

Il libro: G. PILI , Anche Kant amava Arancia meccanica, Petite Plaisance, Pistoia 2020, pp. 128.


Francesco Margoni

Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive dell’Università di Trento. Studia lo sviluppo del ragionamento morale nella prima infanzia e i meccanismi cognitivi che ci permettono di interpretare il complesso mondo sociale nel quale viviamo. Collabora con la rivista di scienze e storia Prometeo e con la testata on-line Brainfactor. Per Scuola Filosofica scrive di scienza e filosofia, e pubblica un lungo commento personale ai testi vedici. E' uno storico collaboratore di Scuola Filosofica.

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