Press "Enter" to skip to content

Il disagio della democrazia – Carlo Galli

Iscriviti alla Newsletter!


Non c’è una società democratica con un pensiero unico, o senza pensiero.

Carlo Galli

Il disagio della democrazia è un saggio di filosofia politica di Carlo Galli, già autore di altre opere importanti nel settore. Il fine dell’analisi è comprendere il motivo della disaffezione diffusa della società nei confronti della politica e della politica stessa nei confronti di se stessa.

Il lavoro si muove continuamente su tre generi distinti e convergenti, se non coincidenti, di analisi: filosofica, genealogicamente concettuale e storica. Galli argomenta sia dal punto di vista di storia della politica (vedi i primi due capitoli), sia dal punto di vista della storia della filosofia politica occidentale (vedi i continui riferimenti ai “classici” del pensiero politico filosofico moderno, Locke, Hume, Kant in particolare) e sia da un punto di vista di storia contemporanea (vedi le considerazioni del quinto capitolo).

Il primo capitolo, Il tema, vuole distinguere il principale oggetto di riflessione che è quello del disagio contemporaneo della democrazia, che non va confuso né con le critiche dei filosofi antichi né con quelli dei filosofi moderni. In qualche modo, il disagio attuale ha a che fare con qualcosa di propriamente nuovo e unico nel panorama storico e storico-filosofico. Prima di tutto perché la democrazia formale si è realizzata compiutamente solo nella seconda metà del novecento in Europa; in secondo luogo perché alcune “contraddizioni” possono emergere solo all’interno della cornice concettuale di una democrazia formale del tipo attuale, nella sua convivenza con nuovi problemi e prospettive dell’era contemporanea, in particolare, la prospettiva del mondo globale (non a caso, Galli non parla di postmodernismo quanto di “età globale” per intendere gli anni del XXI secolo e quelli della fine della seconda parte del XX).

Il secondo capitolo In Grecia vuole fornire il punto di partenza sia storico che filosofico per il primo emergere di una forma democratica in Occidente. Comprendere le forme essenziali di tale ordinamento democratico non solo consente di cogliere le convergenze delle “esigenze” comuni tra la contemporaneità e l’antichità, ma pure per comprenderne la distanza.

Il terzo capitolo Democrazia e logiche del Moderno tratta dell’ascesa dei due poli della democrazia liberale evolutasi nell’età moderna: il popolo e lo stato. Il problema di conciliare l’ascesa dello Stato moderno con la giustificazione del suo stesso potere ha costituito la solida base per l’instaurazione di un sistema politico che progressivamente accogliesse in sé l’idea che il fine e il fondamento dello stato è il popolo stesso. Tuttavia, sia la concettualizzazione dello stato che del popolo sia in termini politici che filosofici è stata tutt’altro che scontata, come la risoluzione per l’ordinamento democratico, così come poi si è configurato nel secondo dopoguerra è stata tutt’altra che pacifica, come testimoniano i critici, in particolare socialisti e marxisti. D’altra parte, all’interno della modernità, un periodo così ricco di riflessione politica e di sperimentazione pratica della stessa, vengono alla ribalta nuovi concetti fondamentali, come la rivoluzione, la partecipazione attiva e paritaria dei singoli soggetti all’interno delle società.

Nel quarto capitolo, Individui, diritti e società, Galli mette a fuoco i tre termini che fanno da sfondo all’approccio filosofico, storico e politico della democrazia. In particolare, come gli individui si configurino all’interno del panorama sociale in un contesto democratico e in che modo il particolare soggetto sia da considerarsi, nelle sue esigenze, come un universale concreto delle esigenze stesse della società. In questa dimensione, emerge in tutta la sua portata la questione dei diritti: i diritti intesi come libertà di un insieme di individui. La generalizzabilità della condizione di diritto, nonostante sia sollevata da una parte, risulta estendibile al tutto, sicché il contrasto sta nel ridefinire la portata dei diritti stessi in relazione al tutto della società e della parte, rappresentata dai singoli.

Il quinto capitolo, Le contraddizioni della democrazia, è senza dubbio il più lungo e articolato. In esso vengono considerate le varie spinte opposte in conflitto che generano, da un lato, la “dialettica” interna alla democrazia, da un lato che costituiscono le basi del disagio. L’analisi è condotta secondo il triplice asse già enunciato sopra.

Il sesto capitolo, Dal Moderno al Globale, intende tracciare le linee di continuità e le fratture tra l’approccio “moderno” alla democrazia, culminato nel periodo della “democrazia socialdemocratica” degli stati europei del secondo dopoguerra prima delle grandi ristrutturazioni e destatalizzazioni (di Tatcher e Mitterand in particolare), prima, soprattutto, che lo Stato perdesse la sua valenza propriamente geografica e fortemente radicata nel contesto geopolitico dovuto alla caduta dei confini fisici, per via del movimento di idee e manodopera, la globalizzazione. Lo Stato, dunque, è in un processo di mutamento a seguito di questa nuova grande esigenza storica, sicché con essa cambiano le aspettative e le esigenze, sebbene, come Galli cerca di mostrare, sia ineludibile la necessità dello Stato di mantenere intatti alcuni compiti fondamentali (la sicurezza e l’arbitraggio delle questioni legali prima di tutto), già tracciati dallo stato moderno. Per riassumere con le parole di Galli le peculiarità dell’era globale:

In generale, esiste un’età globale, che è ben più che postmoderna perché ha caratteristiche peculiari e non derivate; l’età globale è il venir meno della distinzione politica fondamentale fra interno ed esterno, cioè della differenza qualitativa tra spazio della legge e spazio del confronto con l’Altro: anzi, la legge si fa internazionale – ma più come strumento polemico che come ordine reale – e l’Altro con il carico di conflitto che ciò comporta, entra nello spazio interno.[1]

Il capitolo settimo La democrazia fra necessità, contingenza, libertà si riallaccia al capitolo primo e quinto in modo da chiudere il cerchio sulla questione aperta del disagio contemporaneo per la democrazia. In particolare, Galli chiude il lavoro sostenendo che:

Quel custodire nel disagio, piuttosto, ha il significato di rimarcare che se la democrazia di oggi e di domani potrà essere senza centro, non potrà però essere senza un fine, e che questo non può non consistere (…) nella fioritura umanistica delle libere personalità in uno spazio pubblico. Ha, insomma, il significato di farci consapevoli che, proprio attraverso il ricordo e il riconoscimento della propria storia – per criticarla, per superarla -, la democrazia potrà ancora coincidere con la politica come organizzazione libera della speranza.[2]

Il libro, piuttosto impegnativo, di Carlo Galli vuole centrare il problema, emerso in più di un’occasione, che si può esprimere nell’idea: da dove nasce il disagio diffuso per la democrazia? Da molte parti, infatti, si sono levati critici, intellettuali o no. Ma la domanda è realmente ben formulata? Non si può esserne così sicuri. Innanzi tutto, quel che emerge molto chiaramente è che invece di parlare di “disagio” bisognerebbe parlare di “disagi”. Alcuni sono propri solo della dimensione teorica e speculativa, altri sono propri solo della dimensione pratica, del fare della società in contesto democratico. Non si tratta di una “contraddizione” nei termini galliani, piuttosto di due esigenze frustrate e ben distinte: da un lato, infatti, i teorici chiedono maggiore concretezza del farsi della politica, mentre la società richiede più semplicemente che il diritto della democrazia non diventi uno strumento di oppressione e coercizione ai danni del singolo individuo. Galli parla di più contraddizioni, storiche e concettuali, inscritte nel panorama democratico globalmente inteso, però non si comprende mai pienamente in che senso tali contraddizioni siano degli universali astratti o, piuttosto, delle esigenze opposte che non sempre possono tenersi insieme. E, allora, la contraddizione non si vede se sia di natura logica, puramente inscritta nel linguaggio del teorico, o un conflitto di interessi piuttosto che un conflitto di ideologie. Non risulta mai chiaro questo punto, nonostante sia fondamentale. Per comprendere la natura di un disagio, bisogna comprendere la dimensione propriamente reale in cui essa si situa.

Altro punto non banale è che l’assenza di democrazia sia davvero un disagio di per sé per la società. Questo sembra emergere da questo punto:

Insomma, in quel disagio può esserci anche l’intuizione che la democrazia ha essenzialmente a che fare con l’umanità degli uomini e delle donne (altrimenti non vi sarebbe alcun disagio nella assenza di democrazia), e che la democrazia che ha come obbiettivo l’umanità degli uomini e delle donne non può rinunciare a riutilizzare in modo creativo il patrimonio umanistico, pur in rovina, del passato (proprio come avvenne ne Rinascimento).[3]

Il problema è fondamentale, perché, allora, il disagio potrebbe essere solo di natura sociale e non istituzionale, o viceversa. Non è affatto chiaro alla maggioranza, sia dei teorici (in termini dell’intera storia del pensiero e non solo gli ultimi degli ultimi cinque decenni) che del “popolo”, che la democrazia sia una necessità per il buon ordinamento della società, né che la sua assenza determini di per sé disagio. Le società totalitarie, come la Germania Nazista, hanno goduto assai spesso di grande popolarità, a prescindere dal prezzo pagato per ottenerla. Ed è fin troppo tristemente risaputo che solo una dozzina di intellettuali si rifiutarono di sottoscrivere il patto fascista, cosa che sconvolge solo a posteriori, ma si dimentica di quanto facilmente si è disposti a perdere le proprie libertà politiche per chi dimostra di saper indirizzare la storia nel migliore dei modi. Non solo, oggi più che mai si nutre scetticismo per la democrazia, non tanto per le contraddizioni astratte più volte focalizzate da Galli, non senza acutezza d’altronde, ma per il fatto che non si riesce più facilmente di una volta a comprendere le differenze tra la democrazia e uno stato totalitario. Principalmente perché, attualmente, mancano i riferimenti chiari e, nonostante si parli tanto di globalizzazione, gli esempi (che pur non mancherebbero) come la Cina rimangono assai lontani nell’immaginazione di tutti, oltre al fatto, naturalmente, che ben pochi si curano del problema “Cina” in quanto ordinamento non democratico.

La prassi della democrazia italiana che non è identica, per fortuna, a paesi più democratici per tradizione e storia perché, come diceva Tocqueville, più volte citato da Galli, un popolo prima di avere le istituzioni democratiche deve essere educato in sé alla democrazia; la prassi della democrazia italiana, dunque, è determinata da logiche non democratiche, come il clientelismo, il referenzialismo autocratico e autoreferenziato, da logiche di nascita che non sono mai dipese né dalla costituzione né dal sistema politico. Anzi, il sistema politico democratico può tranquillamente sopravvivere benissimo e prosperare in una società non democratica né nello spirito né nella prassi. Ed è questo il problema. Non è riportare un approccio spiritualmente democratico laddove si è smarrito, ma è costruirlo ex novo. Tutti noi potremmo citare innumerevoli esempi di persone d’ingegno e mediocri che ben prosperano all’interno di ambienti che, possono definirsi in tanti modi, ma non certamente democratici.

Ma gli interessi materiali e immateriali di uno stato siffatto perché dovrebbe minimamente porsi questo obbiettivo? Abbiamo già detto che non tutti sono d’accordo con un ordinamento veramente democratico perché sovvertirebbe la logica consueta della prassi nei più semplici sistemi di arruolamento della manodopera, sia intellettuale che materiale. Sovvertire un sistema così inveterato, poi, richiederebbe che gli stessi che prima erano antidemocratici negli usi e costumi diventino magicamente più democratici, il che è una contraddizione materiale e concettuale. O, per essere più precisi, non si tratta di una contraddizione logica, quando di una impossibilità fisica (una necessità del nostro mondo possibile): per cambiare un’idea bisogna averne un’altra opposta da accettare e rendere operativa, cosa che, come ben sapeva Spinoza e tanti altri, risulta da operazioni assai complesse della mente che investe anche il ragionamento interessato e non la pura bontà argomentativa, sicché convincere Luigi XIV dell’insanità della monarchia assoluta non è logicamente impossibile, ma quasi irrealizzabile materialmente. Di qui la difficoltà intrinseca non contraddittoria. Di qui gran parte del disagio.

Galli, infatti, mostra quello che la realtà italiana non è mai stata, una realtà passata da un periodo pseudoliberale in cui dominava il trasformismo – Depretis – o l’autoritarismo moderato – Gioliti – o radicale – Crispi -; quando non il fascismo e quando non dominava né l’uno né l’altro, vigeva una monarchia poco avveduta, in combina con la mai istruita classe politica. Gli effetti di tale politica da sempre molto autoreferenziale, hanno determinato le gloriose disfatte morali ed economiche della prima guerra mondiale:

Anzi, perché ci sia democrazia in senso moderno deve esserci anche una società nella quale a tutti è consentito esprimere le proprie possibilità, formulare “piani di vita”. E perché l’obbiettivo umanistico della democrazia sia centrato, perché ciascuno veda i propri diritti rispettati e quindi possa fiorire e realizzare le proprie capacità, è necessario tanto l’apparato politico – lo Stato moderno, il potere sovrano autorizzato da tutti, la legge universale e formale, la tripartizione del potere(…) quanto che la società, e quindi anche l’economia, sia informata da spirito democratico, cioè dal pluralismo e da un’attenzione alla liberazione e al riscatto della dignità delle persone.[4]

Se così è mai stato, non ce ne siamo mai accorti. Se così è oggi, lasciamo giudicare ai lettori. Galli, dunque, definisce così il motivo (o la giustificazione?) del disagio per la democrazia:

Il disagio della democrazia nasce dall’assuefazione a essa, dall’accettazione non critica del discorso della “democrazia reale” su di sé, che si presenta come qualcosa di ovvio e di naturale, come la realizzata casa dell’uomo; ma al contempo nasce dall’esperienza delle sue insufficienze e contraddizioni, oggi più acute che mai. E’ come se ci si trovasse in una sorta di supermarket dei diritti, e si scoprisse che la merce (i diritti) non c’è, sostituita da slogan che l’annunciano e la proclamano già presente; anzi, molto più della soddisfazione dei diritti è frequente scontrarsi con difficoltà, soprusi, frustrazioni, emarginazione.[5]

La domanda sorge spontanea: ma quando mai si è accettata la democrazia? Per essere democratici, secondo Galli, bisognerebbe essere democritici. Ma quando mai l’italiano medio ha posseduto tali virtù, anche quando avrebbe avuto il tempo fisico sufficiente per porsi il problema? Il popolo votò per la monarchia o per la sua assenza, ma già il fatto che votò implicava già essere in un regime democratico. La democrazia in Italia non c’è mai semplicemente stata e il passaggio alla democrazia formale dalla dittatura è passato per mezzo della lotta armata della resistenza che, guarda caso, non viene molto discussa nel libro di Galli. In realtà, fu solo per l’implicita ammissione dei tre partiti dominanti vittoriosi della resistenza (comunisti e dc prima di tutti gli altri) che non si poteva né si desiderava tornare in un passato nel quale tanto i comunisti quanto i cattolici non erano stimati a sufficienza dal regime politico totalitario fascista, né si sarebbe potuti rientrare in un contesto politico stabile (obbiettivo, allora, imprescindibile chiaramente per tutti), se tutti i soggetti politici di allora non avessero fatto quadrato non tanto per l’amore democratico (che né il PC né la DC incarnarono mai bene bene all’interno dei loro quadri di partito) quanto perché era l’unico modo per far tornare i conti. Il che non significa che gli italiani non abbiano avuto l’intelligenza di ideare un insieme vago o più delineato di ideologia politica democratica (come Mazzini, che fu lasciato a morire in esilio, dopo che non tornava più utile per giustificare la prassi rivoluzionaria del periodo risorgimentale e riconsiderato come “padre della patria” solo in tempi in cui non dava più noia a nessuno), quanto il fatto che questa componente non è mai stata maggioritaria.

Prima di chiudere questa critica, ritorniamo al punto che ci stava più a cuore: dare per scontato che ci sia un disagio per l’assenza di democrazia è il primo passo per lasciar passare proprio l’acriticità del sistema stesso, lasciandone vedere solo gli aspetti deteriori, sin troppo visibili. Non è scontato che la democrazia sia il sistema migliore. Il fatto che lo sia (perché non ce n’è di migliori) non altera il fatto che in un quadro generale, la democrazia non sia scontata né nella forma né nel contenuto e se si vuole veramente proporre una soluzione al fantomatico disagio (volutamente al singolare, ora si) bisogna necessariamente partire proprio dalle sue ragioni più basilari.

In fine, vorremmo anche mostrare come non sia affatto chiara la medicina o, per usare le parole del libro, “il fine” della democrazia. Galli parla di “umanismo” della democrazia, ma non si è ancora capito bene come tale umanismo sia realizzabile, in cosa esso consista di preciso e perché la sua valenza sia superiore alla prassi già in voga di considerare il proprio amico come il più democratico di tutti gli altri. Dove sta scritto che “l’umanismo” annulli le discrepanze di nascita? Si poteva essere nobili e liberali, perché, allora, non si può essere democratici e clientelisti? Un ideale, per essere creduto e assunto, deve essere ricco di contenuti, magari anche sovraccarico di contenuti (come la vecchia ideologia marxista che giustificava quasi qualunque cosa in nome della storia, giusto per fare un esempio) ma giammai deve essere quasi vuoto, altrimenti è inutile. Non dubitiamo che Galli abbia maturato un idea più precisa del succitato umanismo, ma avrebbe anche dovuto illustrarlo prima di concludere il libro.

In definitiva, abbiamo tracciato varie critiche ad un’opera non semplice da leggere, ma sicuramente interessante, per quanto possa essere oggetto di più dubbi. Indubbiamente, argomentare e riflettere sulla democrazia aiuta la democrazia stessa, ma non necessariamente riesce a fornire soluzioni decisive al problema. Ma, in fondo, chi può vantarsi di averne? Lungi dal voler far terra bruciata, abbiamo solo voluto contribuire con la nostra opinione alla democrazia reale, laddove la critica, comunque la si intenda, va concepita parte integrante del farsi democratico. Galli ci crede. E anche noi.


CARLO GALLI

IL DISAGIO DELLA DEMOCRAZIA

EINAUDI

PAG.: 92.

EURO: 10,00

 


[1]  Galli G., (2011), Il disagio della democrazia, Einaudi, Torino, p. 56.

[2] Ivi., Cit., p. 93.

[3] Ivi., Cit., p. 92.

[4], Ivi., Cit., pp. 35-36.

[5] Ivi., Cit., pp. 80-81.


Giangiuseppe Pili

Giangiuseppe Pili è Ph.D. in filosofia e scienze della mente (2017). E' il fondatore di Scuola Filosofica in cui è editore, redatore e autore. Dalla data di fondazione del portale nel 2009, per SF ha scritto oltre 800 post. Egli è autore di numerosi saggi e articoli in riviste internazionali su tematiche legate all'intelligence, sicurezza e guerra. In lingua italiana ha pubblicato numerosi libri. Scacchista per passione. ---- ENGLISH PRESENTATION ------------------------------------------------- Giangiuseppe Pili - PhD philosophy and sciences of the mind (2017). He is an expert in intelligence and international security, war and philosophy. He is the founder of Scuola Filosofica (Philosophical School). He is a prolific author nationally and internationally. He is a passionate chess player and (back in the days!) amateurish movie maker.

Be First to Comment

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *