Press "Enter" to skip to content

Storia della guerra del Vietnam – Stanley Karnow

Scopri Intelligence & Interview di Scuola Filosofica!

Iscriviti alla Newsletter!


Storia della guerra del Vietnam è un libro imprescindibile per tutti coloro che s’interrogano sui fatti e sulle cause di una delle più incredibili vicende del secolo scorso, che gode di una centralità particolare per aver creato una nuova coscienza all’interno dell’esponente politico e culturale occidentale più importante, gli Stati Uniti e, in generale, dell’Occidente intero. Dopo il Vietnam le guerre non sono cessate, né nessun conflitto, per quanto brutale e sanguinoso, sarà mai un sufficiente deterrente per evitarne un altro: dopo la seconda guerra mondiale dovrebbe essere un’assurdità solo il concepirne la parola. Ma dopo il Vietnam non è più possibile pensare alla guerra come qualcosa di divertente, un’attività capace di interessare qualunque genere di ingegno, di riscattare gli inetti e di riabilitare gli incapaci. La guerra del Vietnam ha creato in tutti noi il disagio della cattiva coscienza: anche quando vengono stabilite delle guerre “umanitarie”, non è più possibile salutare la loro triste venuta con qualcosa di più di un senso d’angoscia.

La storia precedente al conflitto è imprescindibile per capire la ragione storica del successivo impegno americano. Karnow tratta molto velocemente le questioni precedenti alla guerra con la Francia. Tuttavia, egli sottolinea correttamente che il Vietnam fosse un paese economicamente povero ma politicamente sviluppato e dalla fortissima identità nazionale: il Vietnam è un paese situato a sud della Cina e confina con il più grande stato asiatico proprio a nord. I cinesi invasero il Vietnam per alcuni secoli senza successi duraturi perché riuscirono a rigettare gli occupanti a seguito di furiose guerriglie nella giungla, un precedente che il governo americano avrebbe sempre dovuto tener presente. E’ interessante sapere che la parola “Vietnam” venne creata dai cinesi per stabilire il nome che doveva comparire in un trattato nel quale si stabiliva che il regno locale diventava stato tributario della Cina, sistema, questo del tributaggio, che dominò gran parte delle relazioni sino-vietnamite e molte delle relazioni che l’impero cinese aveva con i regni vicini (come la Corea), con i quali non riusciva a imporre un dominio diretto.

I vietnamiti si resero indipendenti sino all’arrivo dei francesi, i quali conquistarono gran parte dell’Indocina. Il Vietnam fu conquistato dai francesi e reso colonia sino al 1954, data della conferenza di Ginevra, durante la quale i sistemi diplomatici unilaterali dell’approccio occidentale causarono lungaggini e l’evidenza di un nuovo approccio nelle relazioni internazionali tra Occidente e il resto del mondo che, d’altronde, andava sempre più rafforzando la propria indipendenza rispetto ai vecchi paesi coloniali. Alla questione del nazionalismo radicale vietnamita, assai vicino a quello dei francesi e degli americani, due stati nazionali dal senso patriottico assai sviluppato, è dedicato l’intero secondo capitolo.

Un’analisi molto attenta è dedicata al maggior esponente politico, figura di grande prestigio e di notevole spessore: Ho Chi Minh. Costui si formò, come molti vietnamiti, alle scuole francesi e, come spesso accadeva, soggiornò a Parigi, dove svolse varie attività e fortificò la sua coscienza politica. Ho visse interamente per il suo paese. Ho Chi Minh viaggiò per tutta l’Europa, si recò anche a Mosca e in altri paesi asiatici. Quando ritornò in Vietnam egli era ormai un uomo maturo, sulla cinquantina.

Il terzo capitolo tratta della guerra tra i francesi e i vietminh, il movimento di liberazione nazionale, non connotato da colorazioni politiche, sebbene i vertici fossero esponenti del partito comunista. Gli americani avevano compreso solo parzialmente la necessità e il riconoscimento dell’importanza che il popolo vietnamita attribuiva alla libertà politica, che voleva un Vietnam unito sotto un’unica bandiera. Il bisogno di unità era maggiore del bisogno di quella libertà presunta, una libertà imposta dal modello sociale e culturale occidentale che male si confaceva all’immagine di libertà propria di quel paese asiatico, un’idea di diritto che richiede una certa organizzazione sociale, economica e culturale aliena ai vietnamiti. In effetti, la prima guerra che sconvolse il Vietnam non fu che una prosecuzione di uno stato di cose: la seconda guerra mondiale non aveva risparmiato l’Indocina che fu invasa dai giapponesi, i quali furono salutati come liberatori fino a che costoro non resero evidente la volontà di proseguire nella politica coloniale: non liberatori ma, ancora, persecutori. Dopo la seconda guerra mondiale, dunque, il ritorno della Francia e l’inizio di una delle più allucinanti vicende storiche. I francesi sostennero una politica dura e intransigente nei confronti delle necessità del popolo vietnamita e si rifiutarono di lasciare il paese: era uno scontro di nazionalismi; da un lato, infatti, la Francia era disposta a metterci del suo, pur di non perdere un possedimento anche perché, comunque, la penetrazione dei coloni francesi nell’Indocina e nel Vietnam, in particolare, era iniziata fin dal settecento e, poi, rafforzata nel proseguire negli anni cosicché, comunque, la difesa dei coloni francesi era riconosciuta dallo Stato transalpino come importante; da un altro lato, il movimento vietnminh era sostenuto sostanzialmente dall’intera popolazione. Come gli americani, i francesi commisero l’errore di concepire la guerra in Vietnam come un analogo della seconda guerra mondiale. Ma si vide ben presto che tale strategia non era capace di condurre la Francia ad una vittoria netta. Per vincere ci sarebbe stato bisogno del consenso della popolazione in senso attivo ed era proprio ciò che ad un popolo, sfruttato per più di un secolo e vessato dalla presenza di un impero coloniale e da interminabili guerre, non si poteva chiedere. I francesi si resero presto conto di non poter mantenere il Vietnam senza i cospicui aiuti di altre nazioni. Fu in questo momento che gli Stati Uniti, già vincitori in Corea, decisero di finanziare la guerra in quel d’Asia, coerentemente con la politica del contrasto ad ogni movimento comunista nel mondo. Gli Stati Uniti avevano assunto l’ideologia anticomunista a livello globale ed erano favorevoli ad una linea molto dura nei confronti di tutti quei paesi che erano a rischio di rivoluzione. La Francia andò avanti sino alla cocente sconfitta di Diembienphu, dopo la quale decisero di ritirarsi: in concomitanza con la guerra in Vietnam, si era scatenata anche la rivolta in Algeria e questa fu valutata di gran lunga più importante dell’altra, un’altra guerra terribile, della quale si parla poco e durante la quale i francesi hanno compiuto delle azioni di barbarie sufficienti a rendersi simili agli stati brutali della seconda guerra mondiale. La ritirata della Francia spianò la strada agli Stati Uniti che, come detto, non se la sentivano di lasciare nelle mani del comunismo un altro “stato libero” per consegnarlo alla barbarie del comunismo.

Il capitolo quarto tratta del momento di transizione, tra la ritirata francese e l’arrivo americano nel Vietnam del sud. Nella conferenza del 1954 i francesi e i vietminh si accordarono per la divisione del paese, com’era avvenuto in Corea. Tuttavia, questa volta era chiaro che i Nord Vietnamiti, già infiltrati massicciamente nel sud, non avrebbero lasciato il paese diviso in due. La volontà di Ho Chi Minh, come quella di tantissimi combattenti vietcong, era animata dalla rivendicazione della sovranità individuale e unica dell’intero.

Dal capitolo quinto in poi si parla dell’impegno americano in Vietnam, iniziato dal presidente Kennedy, proseguito da Johnson e sostenuto da Nixon e concluso da Gerald Ford. Gli Stati Uniti si impegnarono nel duplice lavoro di sostegno del Vietnam del Sud, aiuto profuso soprattutto attraverso il finanziamento e l’approvvigionamento del sistema politico e dell’esercito. Tuttavia, la struttura burocratica statale del Vietnam del Sud era fragile, i cui funzionari tramavano tra loro e la cui tendenza alla corruzione era talmente capillare da essere accettata come status quo. Gli Stati Uniti, nonostante le minacce e le richieste, non riuscirono mai a dare al governo del Sud Vietnam una parvenza di credibilità. Solo il campo di battaglia avrebbe consentito agli Stati Uniti di vincere.

Tutte le armi a disposizione, con l’eccezione dell’atomica e solo per ragioni politiche (gli Stati Uniti avevano la preoccupazione di riuscire a non far intervenire le potenze comuniste, Cina e Unione Sovietica) furono adoperate, prima o poi: erbicidi buttati sulla popolazione, bombe al Napal sganciate sulla giungla, furono utilizzati ordigni che causavano piccoli terremoti per far crollare le gallerie, il fosforo bianco fu sganciato per sciogliere sulle persone come se fossero di gesso… Del resto, come aveva già a suo tempo osservato Napoleone, sulle baionette non ci si può sedere, una lezione preziosa, questa, che i poco capaci analisti americani non avevano considerato. Gli Stati Uniti andarono in Vietnam con l’intenzione di difendere la libertà del popolo del Sud Vietnam e, dunque, di salvare una parte del mondo dalla piaga del comunismo, come se questo fosse peggio di una guerra durata vent’anni e già iniziata da altri in precedenza. Tuttavia, la popolazione sud vietnamita era costretta a vivere in condizioni di incertezza, non si sentiva sostenuta dallo stato e dagli Stati Uniti, che, per ragioni militari, dovevano compiere continuamente azioni di controllo anche nelle regioni del Sud Vietnam. Questa ostilità della popolazione Sud Vietnamita, con l’intraprendenza e convinzione opposta dei Vietcong, è una delle cause della sconfitta degli Stati Uniti nella guerra. D’altra parte, da un punto di vista strategico, non si vede come un paese dominato da una serie di condizioni geografiche e climatiche come quelle del Vietnam, con una popolazione di più di 70 milioni di individui, animati da un alto senso patriottico, potesse essere “controllato” da un paese straniero non comprensibile per gli intenti ideologici e capace di imporsi con la sola forza delle armi, laddove la loro ideologia, appunto, riusciva incomprensibile.

Il libro di Karnow offre un panorama preciso e vasto, la cui qualità generale è indiscutibile. Egli riesce nel difficilissimo intento di fornire un quadro delle motivazioni che spinsero gli Stati Uniti verso una guerra a tratti incomprensibile. Ma Karnow non trascura neppure il punto di vista dei vietnamiti, le cui ragioni sono esplorate e giustificate in modo nitido. Tutto ciò rende il lavoro imprescindibile, chiaro e completo. Tuttavia, Storia della guerra del Vietnam si presta a qualche critica.

L’autore era corrispondente dal Vietnam per prestigiose riviste, egli era un giornalista e, come storico, un uomo molto attento: la bibliografia è sterminata e, come egli stesso osserva, parziale perché prima, durante e dopo la guerra vennero prodotti infiniti studi, infiniti lavori e infiniti moduli dalla burocrazia americana: come viene detto, fu la guerra delle fotocopie. Esistono tutt’ora documenti che non sono stati né letti né visionati per ragioni di tempo: non è possibile leggere tutto ciò che è stato scritto. Questo può dare un’idea della difficoltà della ricostruzione di questo straordinario, triste fenomeno contemporaneo. Karnow, dunque, riporta attentamente i fatti, li pone in ordine e successione e non c’è spazio per il dubbio. Tuttavia, talvolta, l’analisi sulle cause latita e, in alcuni casi, si può rischiare di comprendere l’evoluzione degli eventi senza vederne le concatenazioni. Ciò perché, probabilmente, il Karnow è più interessato a “raccontare i fatti per quelli che sono” piuttosto che a spiegarli, ché può andare bene sin tanto che, però, si fa giornalismo, giacché una delle caratteristiche fondamentali del fare-storia è proprio quello di cercare cause. Ben inteso, non c’è da dubitare sulla qualità generale del lavoro, tuttavia, è lecito vigilare in contesti locali della ricostruzione storica, ma globalmente si può dire che sia un libro eccellente.

Karnow si concentra massicciamente sulla narrazione politica e tratta assai poco della natura propriamente militare della guerra. Tuttavia, come ogni conflitto armato ha una sua logica in merito ai mezzi puramente tecnici, bisognerebbe spendere qualche parola per l’analisi delle tattiche e delle strategie impiegate da entrambi gli eserciti. Se si può soprassedere sui dettagli dei singoli armamenti, rimane obbiettivamente il bisogno di descrivere e spiegare anche l’aspetto militare della guerra. In questo il lavoro è particolarmente carente giacché viene descritto molto sommariamente l’armamento americano e le differenze che c’erano tra i due eserciti. Karnow descrive, dimostrando di aver compreso  profondamente i problemi della guerra dal punto di vista individuale, un punto divisa non imprescindibile ma importante per fornire un quadro particolareggiato e completo, anche una giornata-tipo del soldato americano e dei motivi della sua frustrazione a lungo termine, una delle cause che porteranno, alla lunga, a defezioni e a sentimenti quasi disfattisti all’interno dell’esercito degli Stati Uniti e, tra l’altro, all’impiego massiccio di stupefacenti (un soldato americano su tre dichiarò di aver fatto uso di marijuana o eroina). Sebbene questa analisi sia interessante e pertinente, rimane pur sempre troppo limitata. Così pure il racconto sommario delle operazioni militari americane.

Da buon giornalista quale dimostra di essere, Karnow è molto attento ai fatti qualitativi e alle loro conseguenze, anche perché, come egli stesso ci dice, gli Stati Uniti si affidarono alle leggi dei grandi numeri e si lasciarono condurre molto più dalle statistiche che non da una valutazione chiara delle intenzioni dietro alle analisi puramente quantitative, statistiche a loro volta viziate dagli intenti didascalici degli analisti che, invece di preoccuparsi di mostrare i problemi, si prodigavano di dimostrare come la vittoria fosse immediata o, al peggio, più che raggiungibile. Ciò non è, però, un buon motivo per non riportare anche le suddette analisi quantitative, una parte scelta di esse, per far meglio comprendere la natura del conflitto e delle forze in gioco. Ad esempio, non viene mai detto quanti sono gli abitanti del Nord Vietnam e quanti quelli del Sud. Un fatto così semplice, ma così chiarificatore, è imprescindibile per comprendere le dimensioni del conflitto. Quest’atteggiamento parziale nel riportare i fatti salienti, preselezionati dal punto di vista qualitativo, può condurre all’oscurità, specie quando si parla dei momenti di difficoltà dei Vietcong o della loro capacità di sopportazione e reclutamento di nuovi soldati.

Infine, un’ultima osservazione va fatta sul versante non Occidentale della guerra: la Storia della guerra del Vietnam non è il migliore dei titoli possibili, probabilmente, sarebbe stato meglio intitolarlo “Storia politica e logistica degli Stati Uniti nel conflitto con il Vietnam”. In altre parole, Karnow, nonostante sia davvero imparziale e sempre molto attento a considerare i vietnamiti e le loro ragioni per quelle che sono, si lascia trasportare quasi interamente dalle esigenze di chiarificare il punto di vista statunitense. Per fare un esempio, l’offensiva del Tet del 1968 è descritta nei termini di una massiccia azione d’attacco dei vietnamiti sugli americani ed è analizzata dal punto di vista degli Stati Uniti, sul come si trovarono a sottovalutarne la minaccia, quindi a come poterono reagire mentre non vengono posti in risalto i problemi e le prospettive dall’altra parte della barricata (se non che i vietcong erano propensi a considerare l’aspetto militare e l’aspetto politico come due facce della stessa medaglia). Karnow fa osservare che furono distrutti molti documenti vietnamiti e vietcong e che gli fu preclusa la possibilità di un’analisi sistematica di molte fonti dirette, testimonianze e verifiche dal governo Vietnamita: egli si era recato in Vietnam proprio per tracciare un bilancio e richiedere interviste a chi poteva soffermarsi su fatti storici importanti da chiarire. Tuttavia, per vari motivi, forse non tutti addebitabili all’autore, la storia viene ricostruita con i piedi negli Stati Uniti e con l’occhio puntato alla lontana Indocina francese.

Le critiche mosse non vogliono essere di più che osservazioni e possono essere un utile strumento a tutti coloro che vogliono approfondire ogni singolo punto della guerra del Vietnam non sufficientemente trattato da Karnow. Ciò è anche un punto di forza del libro: esso rende il lettore capace di approfondire da sé una singola parte del conflitto, con la sicurezza di chi possiede una chiara visione generale dei fatti e dei loro sviluppi. Un’opera monumentale che porterà un po’ di luce in quella giungla umida che ci rimarrà sempre così difficile da capire e da accettare.


KARNOW STANLEY

STORIA DELLA GUERRA DEL VIETNAM

MONDADORI

PAGINE 542.


Giangiuseppe Pili

Giangiuseppe Pili è Ph.D. in filosofia e scienze della mente (2017). E' il fondatore di Scuola Filosofica in cui è editore, redatore e autore. Dalla data di fondazione del portale nel 2009, per SF ha scritto oltre 800 post. Egli è autore di numerosi saggi e articoli in riviste internazionali su tematiche legate all'intelligence, sicurezza e guerra. In lingua italiana ha pubblicato numerosi libri. Scacchista per passione. ---- ENGLISH PRESENTATION ------------------------------------------------- Giangiuseppe Pili - PhD philosophy and sciences of the mind (2017). He is an expert in intelligence and international security, war and philosophy. He is the founder of Scuola Filosofica (Philosophical School). He is a prolific author nationally and internationally. He is a passionate chess player and (back in the days!) amateurish movie maker.

Be First to Comment

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *