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Le isole degli schiavi – Torkild Hansen

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Consigliamo – il capolavoro di Hansen Arabia Felix


Le isole degli schiavi è un reportage storico di Thorkild Hansen. Esso si inserisce come terzo volume nella trilogia degli schiavi che l’autore ha dedicato alla storia della tratta degli schiavi della civile Danimarca (Le coste degli schiavi e Le navi degli schiavi sono gli altri due volumi dedicati alla ʽpeculiare istituzioneʼ). Nel primo libro, Hansen considera la storia della tratta in Africa, nel secondo analizza il trasporto mentre nel terzo si concentra nella storia delle tre isole danesi: Saint John, Saint Croix e Saint Thomas.

Più che di un romanzo storico si tratta di un reportage storico. Ammesso che tale categorizzazione abbia un senso. Infatti, a parte qualche raro inciso in cui Hansen parla dell’attualità e del suo viaggio nelle isole (in cui egli accidentalmente dice di effettuare rilievi e misurazioni), di cui riporta alcuni disegni di ottima qualità; a parte queste considerazioni quasi accidentali tutto il libro ricorda molto più un lavoro di storia che non un romanzo storico.

Innanzi tutto l’autore estende la narrazione degli avvenimenti nell’arco di più di due secoli (dal principio della tratta alla vendita delle isole danesi al governo americano), arco temporale di natura troppo ampia per consentire la focalizzazione di un unico centro narrativo o di un insieme ristretto di personaggi. In secondo luogo, i protagonisti sono sempre considerati in terza persona e non hanno una prospettiva in prima, esattamente come nei lavori di storiografia (un tratto, questo, comune a tutti i lavori di Hansen che abbia letto, cioè Il capitano Jens Munk, Le navi degli schiavi, Arabia Felix).

Anzi, quando Hansen attribuisce credenze, pensieri e conoscenze lo fa solamente a seguito di prove documentabili o, al più, di ragionamenti su evidenze comprovate. In terzo luogo, i personaggi sono tutte figure storiche realmente esistite e tutte di importanza centrale per la storia della schiavitù (si pensi a Von Scholten, a Iversen, a Gardelin, Kong Juni…). In fine, quel che conta è il peso della storia all’interno dell’impianto narrativo di Le isole degli schiavi: l’obiettivo stesso è far rivivere la storia, sia pure dal punto di vista di alcuni individui scelti. Ma quest’ultima concessione non è certo lontana da una certa impostazione classica della storiografia occidentale. Basti pensare alla storiografica greca e romana e al peso delle figure preminenti, sia in positivo che in negativo (di cui Plutarco e Le vite parallele è senz’altro un esempio celebre).

La trama del reportage storico di Hansen può, dunque, esaurirsi in quanto segue: esso narra la storia della schiavitù nelle isole danesi dal principio sino alla fine, mediante la descrizione di figure storiche centrali e del loro contorno. La narrazione si snoda in alcuni momenti particolarmente centrali: (I) nascita e sviluppo della tratta degli schiavi, (II) rivolte degli schiavi, (III) potenziamento delle misure punitive e aumento della potenza produttiva complessiva delle isole, (IV) inserimento della religione nella cultura e nell’educazione civile degli schiavi, (V) secondo tentativo di rivolta degli schiavi abortito sul nascere, (VI) primi timidi tentativi di abolizione della tratta culminata nell’eliminazione della possibilità di introduzione di nuovi schiavi nell’isola, (VII) declino economico delle isole, (VIII) la liberazione degli schiavi a seguito di una congiuntura tra la politica e il volere della popolazione in cattività, (IX) vendita delle isole al governo americano. Come si vede, dunque, la narrazione segue un chiaro andamento storiografico in cui l’affabulazione del lettore si impernia proprio nel vedere il mondo con gli occhi dei vari personaggi storici nei vari anni della vita nelle isole danesi.

L’obiettivo finale è quello di riuscire a fornire un quadro storico completo della ʽpeculiare istituzioneʼ e, allo stesso tempo, di smascherare (a) la realtà di una storia che si vuole cancellare, dimenticare o edulcorare; (b) mostrare come la civile Danimarca sia rea quanto le altre nazioni europee dei crimini contro l’umanità dell’età moderna. Rispetto a (b) l’autore è poi particolarmente severo in quanto la Danimarca si era fregiata del titolo di prima nazione europea ad aver abolito la schiavitù (mentre aveva per prima solamente abolito il trasporto degli schiavi dall’Africa all’America). Rispetto alla ricostruzione storica, Hansen riporta continuamente dati, citazioni e riferimenti espunti da documenti dell’epoca. Particolarmente interessanti sono i dati circa la mortalità infantile e complessiva della popolazione di colore.

Ma, in particolare, l’autore riesce anche nel delicato compito di non mostrare gli schiavi in modo patetico o morale, restituendone così la complessa realtà umana. E questo è tanto più vero in generale, laddove i problemi della realtà quotidiana vengono discettati in modo da mostrare come le scelte, anche brutali e inumane dei piantatori, erano spesso la risposta a esigenze del tutto “ragionevoli” a problemi organizzativi che tutti conoscono. Facciamo allora un esempio: “Potrebbe fruttare circa quattrocento talleri in una buona vendita all’asta. Lavora dodici ore al giorno nei campi di zucchero. Senza stipendio. Deve provvedere da solo al suo vitto. L’unica cosa che ricorda dei suoi genitori è l’immagine di una donna che piange e che molto tempo prima è stata venduta a un’altra piantagione. La bianca tunica del battesimo gli copre il corpo, che porta i segni delle correzioni del sorvegliante”.[1] Quanti oggi non si riconoscerebbero in questa immagine? Quanti di quei disgraziati che fanno gli stage nelle aziende, quanti di quei ricercatori universitari, quanti di quei tirocinanti, quanti di quei miserabili cretini che fanno da portaborse, quanti di quegli usignoli del potere, quanti di quei disgraziati inseguitori di una poltrona politica, quanti di quei falsi segretari che fanno molto di più della segretaria ma che non vedono neppure un soldo, quanti di tutti questi che rendono la natura dello stato fondato sul lavoro la vera essenza di quella realtà umana di mediocre caratura che si vorrebbe solamente far finta di credere non sia mai esistita? Quanti di questi non credono sino in fondo, sino al midollo spinale, di essere degli schiavi? Loro lo sanno. E si fa soltanto finta di avere un titolo diverso.

In altre parole, è la stessa natura umana a far sorgere le premesse del rapporto tra schiavo/padrone in cui si evince fino a che punto gli uomini siano interessati massimamente ad avere macchine efficienti perché pensanti. Una delle morali che si può trarre leggendo Hansen, e che lui non traccia probabilmente solo perché non vuole spingersi più in là di quanto già aveva abbondantemente fatto, è che la schiavitù non tramonterà mai perché gli uomini avranno sempre il massimo interesse ad avere degli esseri a cui possono comandare di risolvergli i problemi logistici della vita quotidiana senza per questo doversi avvalere di tecnologie inaffidabili e, per di più, molto costose: solo l’essere umano è così versatile da poter fare sostanzialmente qualsiasi cosa.

D’altra parte c’era il problema di trovare sempre nuovi schiavi, nuove persone da sfruttare a costo zero. Una volta eliminata la tratta degli schiavi, si pensò bene di allevarli:

Il progetto del rettore West prevedeva la fondazione di un “istituto coloniale”, con il compito di assicurare la futura riproduzione degli schiavi. Sotto il severo controllo dello stato danese si doveva importare ogni anno a Saint Croix un numero scelto di africani di entrambi i sessi, che fossero giovani, sani e ben nutriti. Uomini e donne sarebbero vissuti presso il suddetto istituto nelle migliori condizioni, nutrendosi con dovizia e lavorando il minimo indispensabile. Il fine della loro presenza non era infatti la coltivazione della canna da zucchero ma essenzialmente al procreazione di piccoli scahiavi da vendere in seguito alle varie piantagioni. Ciò avrebbe contribuito in modo considerevole alla fornitura di forza lavoro, rendendo le Indie Occidentali danesi indipendenti dall’importazione degli schiavi. Non era necessario abolire la schiavitù per risolvere il suo problema essenziale: la mortalità.[2]

La nostra realtà non ha questo problema, perché di schiavi nuovi ne generiamo sempre più freschi oppure l’importiamo. Ma la caratteristica peculiare di questo passo è di mostrare fino a che punto gli esseri umani possano non trovare distinguibile un altro essere umano da uno strumento qualunque, nella misura in cui tale strumento può costituirgli un buon vantaggio rispetto ad un fine. Rispetto a questo, ogni ulteriore considerazione può venire sacrificata. Infatti, pensare di prendere delle persone e rinchiuderle in un istituto il cui unico scopo è quello di farli riprodurre per poter poi sfruttare la manodopera risultante, cioè si applicano principi di allevamento a delle creature umane, ha dietro di sé un buon senso che lascia disarmati: ci serve manodopera, non ne possiamo importare. Allora dobbiamo crearla. Quindi selezioniamo quelli fisicamente più idonei così li concentriamo tutti in un punto, così da produrre nuova prole. Un ragionamento che vale per asini e cavalli. Perché, allora, non applicarla agli esseri umani?

In generale, allora, la storia di Hansen è la storia dell’umanità, senza nessuna edulcorazione. E questo è mostrato anche dagli schiavi, i quali potevano accettare la schiavitù perché tutto si paga. E la libertà più di tutto:

Una sola cosa i negri e i bianchi avevano in comune: il disprezzo. I bianchi disprezzavano i negri. E i neri disprezzavano i bianchi. Quando i tre colpi di cannone erano echeggiati su Saint John, Kong Juni aveva almeno dato a ognuno dei mille e ottantasei schiavi dell’isola quel tanto di libertà di cui avevano bisogno per scegliere a chi volevano unirsi. Due terzi avevano preferito la servitù sul palmo di una mano bianca alla libertà. La libertà non era per tutti un bene incondizionato, i suoi compagni erano la guerra, il sangue e il rischio, i suoi nemici la salvezza e la protezione. La schiavitù era la fatica insensata dal mattino alla sera, anno dopo anno, ma anche il dolce riposo libero dai pensieri. Nessuna decisione da prendere. Qualcuno che decide per te. Un tetto sopra la testa e cibo nel piatto. Il calore della comunità nella buona e nella cattiva sorte. La libertà non offriva queste cose. Per essa Kong Juni aveva ingannato e ucciso, lasciato che dei bambini fossero massacrati e degli amici venduti. Non conosceva fedeltà, era compagna della solitudine: sempre più uomini contro di te, sempre meno con te.[3]

E’ in questo genere di riflessioni storiche che il genio metafisico di Hansen si manifesta in tutta la sua potenza e piena spregiudicatezza. Questa citazione non è il ritratto di quell’umanità che lavorava piegata sulle ginocchia a colpi di frusta nelle piantagioni di canna da zucchero nelle indie occidentali danesi. E’ la storia del nostro pianeta, senza salvezze esterne. E’ quel che c’è sotto il sole da millenni e che l’ottusità, nonché gli stati di interesse soggettivi delle persone, replicano a tempo indefinito. Non siamo diversi da quelle formiche che danno da mangiare ad una astratta madre senza sapere neppure il perché: di fronte alla zuppa riscaldata, due chiacchiere e un tetto bucato sopra la testa, si può anche sacrificare la propria vita. Che tanto farebbe ribrezzo ad un cassonetto dell’immondizia in ogni caso. O almeno così sembra da millenni a quelle torme di uomini liberi che insieme agli schiavi si uniscono nell’amore dell’oblio.

Rispetto ad altre sue opere (soprattutto Il capitano Jens Munk e Arabia felix), Thorkild Hansen si concentra di più sullo sfondo storico generale che non sui singoli. Questo è dovuto a quanto si diceva prima: egli ha come obiettivo quello di mostrare la storia della ʽpeculiare istituzioneʼ e smascherare il buonismo danese, più che avere una trama  incentrata su figure storiche ma pur sempre individui. Questo non significa che certi personaggi non possano risaltare con una luce personale univoca, come Kong Juni e Van Scholten. Tuttavia, si tratta di una ricostruzione storica più che una riflessione su dei personaggi che diventano metafora essi stessi di una certa condizione umana. Era il caso di Jens Munk, il grande genio fallito. Ed era parzialmente il caso di Niebur in Arabia felix. In questo caso è la storia la principale ragion d’essere del lavoro.

Thorkild Hansen, come già si era notato in altro loco, è pur sempre un illuminista che guarda alla storia con disincanto. Si potrebbe pensare che le sue opere siano profondamente nichiliste, visto che tutto quello che appare sono gli interessi egoistici degli individui che tutto riescono ad ottenere, tranne che una benevola mano invisibile che guida verso il meglio l’umanità. Nel caso di Hansen si può ben parlare di illuminismo storico pessimistico. Ma pessimistico non vuol dire nichilista perché per definizione il nichilista è colui che non ha valori e ne vuole fare a meno. Mentre il pessimista è colui che vede un ideale, ma riconosce che le limitazioni e l’attrito storico o naturale imposto o proprio della razza umana lo renda irraggiungibile. In un caso si gira a vuoto, nel secondo si vede il meglio ma si è convinti che non sia raggiungibile.

L’opera di Torkild Hansen ha come scopo restituire voce e realtà o a grandi falliti (Il capitano Jens Munk e Arabia Felix), o a torme di diseredati. In questo caso, siamo nel secondo caso. Questo è uno scopo profondamente morale. Che ragione ci sarebbe di studiare la schiavitù, studiare coloro che l’hanno perpetuata se non per mostrarne l’intrinseca fallibilità morale, per riscattarla alla luce della ragione che contempla e cerca di trarre un tardivo bilancio? Se non si stimasse importante proprio questo bilancio, perché allora portare prove ed evidenze a supporto di una circostanziata ricostruzione storica? La verità è che dietro il disincanto di Thorkild Hansen, si cela lo sguardo profondo di colui che contempla la realtà umana e non riesce mai ad accettare fino in fondo il proprio pessimismo storico: da qualche parte forse il bene esiste, ma il progresso non è alla portata della storia. Ma forse lo è alla portata di quegli individui che, conoscendo la storia, imparano ad accettare che siamo tutti in questo mondo di lacrime in cui si può soltanto accettare che la grandezza nasce, appunto, dalla più grande miseria.


Thorkild Hansen

Le isole degli schiavi

Iperborea

Euro: 16,58.

Pagine: 555.


[1]Hansen T., (1970), Le isole degli schiavi, Iperborea, Milano, p. 219.

[2] Ivi., Cit., p. 333.

[3]Ivi., cit., pp. 166-167.


Giangiuseppe Pili

Giangiuseppe Pili è Ph.D. in filosofia e scienze della mente (2017). E' il fondatore di Scuola Filosofica in cui è editore, redatore e autore. Dalla data di fondazione del portale nel 2009, per SF ha scritto oltre 800 post. Egli è autore di numerosi saggi e articoli in riviste internazionali su tematiche legate all'intelligence, sicurezza e guerra. In lingua italiana ha pubblicato numerosi libri. Scacchista per passione. ---- ENGLISH PRESENTATION ------------------------------------------------- Giangiuseppe Pili - PhD philosophy and sciences of the mind (2017). He is an expert in intelligence and international security, war and philosophy. He is the founder of Scuola Filosofica (Philosophical School). He is a prolific author nationally and internationally. He is a passionate chess player and (back in the days!) amateurish movie maker.

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