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Manzoni e il manoscritto ritrovato – un falso lombardo a regola d’arte

Introduzione:

Sin dalla pubblicazione della ventisettana, il romanzo di Manzoni è stato ampiamente analizzato in ogni sua parte. Sulla sponda della linguistica, a lungo si è preso in esame l’evoluzionismo delle scelte manzoniane, in analisi comparativa con la quarantana, mettendo in luce come il Manzoni si sia mosso in direzione di un abbandono della patina fortemente ancorata ai lombardismi, quelli che lui definì idioti lombardismi a iosa, ed in direzione di una fiorentinizzazione della lingua, con in mente un progetto di unitarietà linguistica di enorme portata. Analizzando il romanzo è tuttavia innegabile il fascino esercitato dall’introduzione che il Manzoni antepone al suo romanzo. Volendo impiegare il medesimo artificio di occultazione della autorialità, già usato da Miguel de Cervantes nel Don Chisciotte (1605), da Vincenzo Cuoco nel Platone in Italia (1804; cfr. Di Massa, Gli albori del romanzo in Italia, 2022) e da Walter Scott nell’Ivanhoe (1819), Manzoni asserì di aver ritrovato un manoscritto secentesco che narrava la vicenda dei due promessi sposi. Al fine di accrescere l’autorevolezza del fatto, Manzoni trascrive un piccolo frammento, tratto dallo scartafaccio[1], per dimostrarne la reale esistenza. Trattasi di un finto manoscritto, filologicamente parlando, creato dal Manzoni stesso, la sua autorialità è assolutamente innegabile, ed è pertanto lecito chiedersi che tipo di patina linguistica abbia impiegato per ricreare questo falso manoscritto d’ipotetica mano secentesca[2].

Il presente lavoro si premura di analizzare la lingua che Manzoni usa per creare il manoscritto, dimostrando come la scelta verta verso un codice linguistico lombardo fortemente isolato, lontano dalla norma che era d’uso, all’epoca, ad esempio a Firenze. Con strumenti linguistici e filologici, si presenta di seguito un’analisi comparativa del manoscritto manzoniano, presentando le principali fonti a cui l’autore ha attinto per ricreare il codice linguistico, ed evidenziandone le convergenze e le peculiarità. Considerata l’enorme quantità di materiali cui Manzoni attinse per la stesura del romanzo e per la codificazione della lingua lombarda secentesca, il presente lavoro si concentra su estratti da due versanti principali, quello letterario-storiografico tramite un’opera di Alessandro Tadino, e quello burocratico tramite la consultazione dei gridari milanese del XVI e XVII secolo.

 

Il falso filologico del manoscritto ritrovato:

Come anticipato nell’introduzione, al fine di aumentare l’autorevolezza del proprio scritto Manzoni antepone al romanzo un frammento che lui dichiara aver tratto dal manoscritto ritrovato. Trattasi di un falso manoscritto, ed è magistrale la minuziosa accuratezza che Manzoni impiega per ricreare un codice linguistico che non sia conforme alle convenzioni fiorentine in uso nel XVII secolo, ma che sia invece corrispondente alla lingua della Lombardia di tal secolo, al tempo sotto dominazione spagnola, da cui deriva una lingua ancora fortemente ancorata alla classicità ed alla derivazione latina. Si presenta di seguito la trascrizione integrale del falso manoscritto inserito nel romanzo:

“L’Historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il Tempo, perché togliendoli di mano gl’anni suoi prigionieri, anzi già fatti cadaueri, li richiama in vita, li passa in rassegna, e li schiera di nuovo in battaglia. Ma gl’illustri Campioni che in tal Arringo fanno messe di Palme e d’Allori, rapiscono solo che le sole spoglie più sfarzose e brillanti, imbalsamando co’ loro inchiostri le Imprese de Prencipi e Potentati, e qualificati Personaggj, e trapontando coll’ago finissimo dell’ingegno i fili d’oro e di seta, che formano un perpetuo ricamo di Attioni gloriose.

Però alla mia debolezza non è lecito solleuarsi a tal’argomenti, e sublimità pericolose, con aggirarsi tra Labirinti de’ Politici maneggj, et il rimbombo de’ bellici Oricalchi: solo che hauendo hauuto notitia di fatti memorabili, se ben capitorno a gente meccaniche e di piccol affare, mi accingo di lasciarne memoria a Posteri, con far di tutto schietta e genuinamente il Racconto, ouuero sia Relatione. Nella quale si vedrà in angusto Teatro luttuose Traggedie d’horrori, e Scene di malvaggità grandiosa, con intermezi d’Imprese virtuose e buontà angeliche, opposte alle operationi diabolihce.

E veramente, considerando che questi nostri climi sijno sotto l’amparo del Re Cattolico nostro Signore, che è quel Sole che mai tramonta, e che sopra di essi, con riflesso Lume, qual Luna giamai calante, risplenda l’Heroe di nobil Prosapia che pro tempore ne tiene le sue parti, e gl’Amplissimi Senatori quali Stelle fisse e gl’altri Spettabili Magistrati qual’erranti Pianeti spandino la luce per ogni doue, venendo così a formare un nobilissimo Cielo, altra causale trouar non si può del vederlo tramutato in inferno d’atti tenebrosi, malvaggità e sevitie che dagl’huomini temerarij si vanno moltiplicando, se non se arte e fattura diabolica, attesoché l’humana malitia per sé sola bastar non douebbre a resistere a tanti Heroi, che con l’occhij d’Argo e braccj di Briareo si vanno trafficando per li pubblici emolumenti.

Per locché descriuendo questo Racconto auuenuto ne’ tempi di mia verde staggione, abbenché la più parte delle persone che vi rappresentano le loro parti, sijno sparite dalla Scena del Mondo, con rendersi tributarij delle Parche, pure per degni rispetti, si tacerà li loro nomi, cioè la parentela et il medesimo si farà de’ luochi, solo indicando li Territorij generaliter. Né alcuno dirà questa sij imperfettione del Racconto, e defformità di questo mio rozzo Parto, a meno questo tale Critico non sij persona affatto diggiuna della Filosofia: che quanto agl’huomini in essa versati, ben vederanno nulla mancare alla sostanza di detta Narratione. Imperciocché, essendo cosa evidente, e da verun negata non essere i nomi se non puri purissimi accidenti…”

Analisi tramite strumenti filologici e linguistici:

Le scelte fonetiche di Manzoni a rappresentare la lingua del ‘600 sono mosse in direzione di un carattere di profondo isolamento geolinguistico se rapportato alle convenzioni letterario-linguistiche più diffuse all’epoca. Volendo prendere in considerazione, per un’analisi comparata, testi celebri dell’epoca come le poetiche di Giovan Battista Marino, Ciro di Pers, Marcello Giovanetti e Anton Maria Narducci, congiuntamente con le stesure di prosa d’arte, con l’Adone (1623) del già citato Marino, e di pura prosa, con Il Saggiatore (1623) ed il Dialogo sopra i due massimi sistemi del Mondo (1632) di Galileo Galilei, appare chiaro sin da principio come la trasposizione fonografica di Manzoni, a fronte delle convenzione grafiche riportate, ne diverga profondamente, presentando elementi ancorati ad un uso linguistico che in centri culturali quali Firenze e Venezia erano ampiamente superati. Va da sé che ciò non è da imputare ad un grave errore di valutazione da parte di Manzoni, il quale ben aveva presente l’uso della lingua secondo il modo fiorentino. La scelta manzoniana si orienta invece in direzione di una ricostruzione linguistica di un codice locale del territorio lombardo, al tempo sotto dominazione spagnola. Storicamente, il periodo di dominazione, che andrà proseguendo sino al 1714, con la guerra di Successione Spagnola, è riconosciuto come un periodo di forte declino e recessione, nonché di isolamento con conseguente scontrarsi delle due patine linguistiche, quella locale e quella di sostrato dei dominatori spagnoli[3], con conseguente ingresso, in forma tutt’altro che limitata, di iberismi e convenzioni grafico-grammaticali delle lingue iberoromanze nella lingua italiana[4]. Per dimostrare come il manoscritto di Manzoni sia creato a regola d’arte secondo l’uso lombardo del ‘600 si evidenzierà dapprima brevemente la situazione fiorentina, a dimostrazione dell’enorme dislivello evolutivo linguistico con la Lombardia.

La lingua letteraria fiorentina all’altezza del ‘600 aveva già compiuto enormi passi in progresso verso la canonizzazione più prossima alla modernità. Le convenzioni letterarie e di stampa toscane del ‘600 avevano già provveduto a lasciar decadere numerosi espedienti ancorati alla classicità. Tra questi, l’uso del contoide fricativo glottidale sordo /h/ in posizione iniziale di parola qualora questa derivasse da forma latina che la presentasse (è il caso di homo, habere e historia). La lotta contro un’espediente divenuto oramai puramente etimologico e diacritico, tranne per gli usi di distinzione dei contoidi occlusivi palatale velare /k/ e /g/ davanti ai vocoidi anteriori /i/ o /e/, comincia già nel periodo umanista, con posizioni divergenti. Tra i sostenitori dell’abbandono totale vi era lo stampatore veneziano Aldo Manunzio, il quale ne soppresse totalmente l’uso, impiegando l’accento per distinguere, in a e o, il verbo dalla preposizione o congiunzione. Di contro, a schierarsi in favore di un totale mantenimento del segno fu Ludovico Ariosto, il quale asserì, in una celebre frase, che “chi leva la h all’huomo non si conosce huomo, e chi la leva all’honore non è degno di honore”. La disputa venne risolta dall’intervento degli accademici cruscanti[5] che imposero l’uso del grafema dapprima per le voci verbali passabili di ambiguità e per la voce huomo e suoi derivati (quali huovo, huopo), e con la terza edizione del Vocabolario si impose l’impiego solo in casi in cui fosse necessaria a discernere la potenziale ambiguità, ossia nel caso delle coppie minime a/ha e o/ho. Nell’Adone del Marino, ad esempio, l’uso del grafema etimologico è soppresso con le sole eccezioni delle forme verbali sopracitate e dei digrammi di greca derivazione, quali theatro, thesoro e christallo.

Egualmente, venne abbandonato anche l’uso di trascrivere il contoide fricativo labiodentale sonoro /v/ come un vocoide posteriore alto /u/ (es. avere reso come hauere), in reminiscenza dell’assenza di tal grafema nell’alfabeto latino classico. La svolta grafica assunse vigore grazie alla trattazione del linguista spagnolo Antonio de Nebrija, nel secolo XV, ed in Italia maggiormente grazie alle magistrali trattazioni del linguista Gian Giorgio Trissino, tra cui la celebre Epistola del Trissino del 1524[6] circa la stabilizzazione della convenzione grafica. Venne stabilito anche l’uso del grafema /j/ unicamente in posizione di semivocoide, dunque in nesso vocalico. L’uso dei cruscanti, in questo caso grazie al lavoro del linguista Leonardo Salviati, impone anche l’utilizzo del grafema di contoide affricato dentale sordo /z/ al posto di /t/ latina, il che viene di buon grado accettato dai fedeli alla norma cruscante, tuttavia con non poche ambiguità riguardo la scempiazione o geminazione del grafema. Il panorama dei linguisti si divise pertanto tra chi sosteneva la scempiazione, o quantomeno una distinzione, come il De Luca ed il Buonmattei, e chi invece sosteneva la geminazione, tra cui il Lampugnani[7]. Di notevole interesse è infine l’uso nella poetica, e più sporadicamente nella prosa, dell’espediente stilistico di posposizione del clitico secondo la legge linguistica Tobler-Mussafia, non più convenzione imprescindibile a tale altezza ma sicuramente apprezzato nell’arte del verso.

Trattasi di convenzioni linguistiche già fortemente consolidate nella seconda metà del XVI secolo, rendendo dunque lecito il dubbio sul perché Manzoni non abbia rispettato taluna delle sopracitate convenzioni. Leggendo il manoscritto riportato da Manzoni si possono difatti notare numerose divergenze dalle norme sopra enunciate, tra cui un’insistente anteposizione del contoide /h/ dinnanzi a vocale a segnalarne l’etimo latino (tra cui historia, hauendo hauto e horrori), l’impiego del grafema /j/ in tutte le parole che siano forma plurale di un singolare che avesse terminazione atona in -io e nelle forme verbali di essere al congiuntivo (tra cui personaggj, tributarj, braccj, sij e sijno), l’impiego sistematico del grafema di vocoide /u/ al posto del grafema di contoide /v/ (tra cui cadaueri, solleuarsi, descriuendo), l’impiego del contoide occlusivo dentale sordo /t/ in sostituzione del contoide affricato dentale sordo /ts/, secondo l’uso propriamente latino (es. attione al posto di azione), così come puramente latino è l’uso della congiunzione coordinante et. Notevole è anche l’abuso di contoidi geminati nonostante l’uso già affermato delle varianti scempie (es. deffinire, traggedie, staggione) e della maiuscola in posizione iniziale di parola anche dinnanzi ad un nome comune e privo di collegamento religioso alcuno (es. Campioni, Personaggi, Attioni).

Sul lato sintattico e contenutistico colpiscono principalmente l’assenza totale di utilizzo retorico della disposizione del clitico secondo legge linguistica Tobler-Mussafia (che si ritrova ad esempio in G. Galilei, Il Saggiatore, con le forme giudichilo e trovossi), ed il concetto espresso dal passaggio “e gl’Amplissimi Senatori quali Stelle fisse e gl’altri Spettabili Magistrati qual’erranti Pianeti spandino la luce per ogni doue, venendo così a formare un nobilissimo Cielo”, in cui si sottintende una visione geocentrica dell’universo, relativamente anacronistica se si conta che le teorie eliocentriche di Galileo erano già state pubblicate. Chiaramente questa scelta non è da imputare ad una propensione manzoniana verso il geocentrismo, quanto ad avvalorare la tesi di isolamento, anche culturale, cui era sottoposta la Lombardia di dominazione spagnola per la difficoltosa circolazione dei prodotti librari.

Tenute dunque presente le demarcazioni tra la lingua dell’uso fiorentino, verso cui infine anche Manzoni protenderà nel proprio progetto linguistico, e la lingua della Lombardia secentesca di dominazione spagnola, è necessario sottolineare quali furono i documenti che Manzoni impiegò per ricostruire questo codice linguistico talmente lontano dal suo uso, medesimi documenti che gli hanno permesso di creare un romanzo in cui la trama venisse intessuta tramite l’aggancio realistico ad avvenimenti storicamente accaduti. La fama acquista dal romanzo per tutti è certamente attribuita a buon diretto, ed è diretta derivazione dell’utilizzo dell’artificio della finzione in un contesto storico-geografico di notevole realismo. Di seguito sono esaminate, con metodologia comparativa, le fonti che cui Manzoni ha attinto in fase di stesura, per verificarne le analogie linguistiche[8].

Andando con ordine, tra le prime fonti di ispirazione per Manzoni si ha sicuramente la documentazione legale della città di Milano, conservata attualmente presso l’Archivio di Stato di Milano, e ivi consultabile, la quale contiene le gride che sono state promulgate tra il XVI e XVII secolo. Per questa analisi si prendono in considerazione le pagine del Compendio di tutte le gride di Milano, a stampa durante il governo di Fernandez de Velasco e Don Pedro de Padilla, che governarono a periodi alterni tra il 1592 ed il 1612; il Compendio di tutte le gride di Milano, a stampa nel 1609 durante il governo di Don Carlo d’Aragon; ed il testo della Grida di Antonio Ferrer del 1630 a Milano. Trattasi di testi giunti a stampa presso stamperie milanesi del XVII secolo, rispecchiandone dunque i criteri editoriali quali la somiglianza tra i grafemi minuscoli f e s, con le aste che non superano il bordo inferiore del rigo. I testi presentano dei capilettera relativamente semplici, prevale la capolettera semplice maiuscola, a inchiostro nero e di maggior dimensione, i rari casi di capilettera elaborati vedono capilettera fogliati e con figura. Entrambi i compendi alternano paragrafi scritti in lingua volgare lombarda ed una controparte scritta in lingua castigliana. Interessante è l’alternanza dell’et latino con il logogramma di legatura e-t, ossia &. I due compendi, riportano in frontespizio una grafia di stampo burocratico, con l’utilizzo sistematico del carattere maiuscolo e del grafema /v/ per il vocoide /u/ nei titoli, mentre per il sottotitolo è impiegato l’inverso sistema, ossia /u/ per /v/. Inoltre, in ordine rispettivo di citazione, riportano il primo lo stemma di Juan Fernandez de Velasco, con la dicitura Condestable de Castilla y Leon, e il secondo tre stemmi di stampo regale ed aragonese, tra cui lo stemma rappresentativo di Carlo Tagliavia de Aragon, principe di Castelvetrano.

Da una rapida lettura dei documenti si riscontrano tutti i fenomeni linguistici che si riscontrano anche nel manoscritto manzoniano, tra cui il proliferare dei grafemi /h/ etimologici (in casi quali honor, hostaria e hauer), l’impiego di /u/ per /v/ con l’eccezione della grafia maiuscola per l’onomastica (difatti si ha gouerno e Terranoua ma Velasco) e l’uso del grafema /j/ per indicare un plurale di una parola terminante, nella sua versione singolare, con -io atono (in casi quali tempij e empij). Interessante è il caso della grida di Ferrer del 1630, in cui viene meno il sistematico impiego di /u/ per /v/, riscontrando forme come havendo, havuto e veneni, e l’utilizzo è oscillante nelle sue varianti, riscontrando casi peculiari come vn e vsarlo ma anche preuenire e auuertendo.

Tra le altre fonti accertate, consultate da Manzoni per la stesura e la riproduzione del codice linguistico, è sicuramente meritevole di citazione il Raguaglio dell’origine et giornali successi della gran peste di Alessandro Tadino (1648), le cui convenzioni linguistiche non si discostano dalla lingua burocratica dei compendi di gride, fornendo dunque ulteriore supporto alla ricostruzione attuata da Manzoni. È necessario precisare ulteriormente che il maggior numero di fonti utilizzate da Manzoni non era necessariamente finalizzato alla ricostruzione della patina linguistica, obiettivo sicuramente non secondario, ma va da sé che, a fronte di una ben maggiore estensione nel prodotto finale, la necessità prima del Manzoni fosse quella di ricostruire la realtà storica del secolo di ambientazione del romanzo, tutto anche per accrescere la veridicità dell’espediente del manoscritto ritrovato. Numerose sono le fonti storiche consultate da Manzoni, e la maggior parte di queste sono scritte in lingua latina. Sono meritevoli di citazione sicuramente il De peste (1630) e l’Historia patria (1641-43) di Giuseppe Ripamonti, gli Acta ecclesiae mediolanesis pubblicati nel 1582 da Carlo Borromeo e gli atti del processo a Marianna de Leyva (1575-1650), monaca con il nome di Suor Virginia Maria, divenuta celebre per la scandalosa relazione che ebbe con il conte Gian Paolo Osio, colpevole di triplice omicidio nel tentativo di nascondere la tresca. La vicenda, testimoniata dagli atti processuali conservati, fu di ispirazione per la vicenda di Suor Gertrude, la monaca di Monza.

 

Breve nota sull’evoluzione linguistica del romanzo dalla Ventisettana alla Quarantana[9]:

Come la critica si è a lungo premurata di sottolineare, l’evoluzionismo linguistico del celebre romanzo manzoniano, che fa capo ad un labor limae quindicennale, si muove in direzione di una drastica fiorentinizzazione della materia, intrisa dapprima di numerosi e idioti lombardismi[10], giustificati dalla provenienza autoriale. Il labor limae nasce a seguito di un soggiorno del Manzoni a Firenze, da cui nacque l’intuizione per cui fosse necessario impiegare la propria materia come veicolo diffusivo di una lingua potenzialmente unitaria nel panorama, il fiorentino vivo. Questa decisione venne espressa nella celebre lettera che Manzoni inviò all’amico linguista e autore Giacinto Carena il 26 febbraio 1847.

Da notare che il maggior lavoro manzoniano di correzione in direzione di una fiorentinità della lingua si concentra sull’espunzione degli idiotismi lombardi, tra questi una progressiva resa toscana dei vocoidi, con apertura del vocoide atono (del tipo pontando > puntando); resa del contoide affricato palatale sonoro come contoide occlusivo velare sordo (del tipo sagrificare > sacrificare); adattamento toscano del vocoide finale di parola (del tipo un zucchero > uno zucchero; contra > contro); adattamento toscano nell’impiego in morfologia delle preposizioni (del tipo uscì del convento > uscì dal convento). Sono drasticamente ridotti gli idiomatismi, impiegati unicamente nell’area circoscritta lombarda, che vengono sostituiti con la controparte, semanticamente affine, di uso vivo nell’area toscana (del tipo sull’ora bassa > sul tardi; testa busa > testa vota). Sono frequenti i casi di inserzione e cancellazione, sempre secondo l’uso vivo di Firenze, così come sono frequenti gli aggiustamenti dei nessi vocalici, prevalentemente in direzione di una scempiazione del nesso, anticamente vivo nell’uso fiorentino, come dimostra la frequenza negli scritti dal periodo Dantesco al periodo tardo cinquecentesco, ora ridotti alla vocale semplice, con tendenziale sopravvivenza del fonema chiuso (del tipo spagnuolo > spagnolo; donnicciuola > donnicciola). Tendenziale è l’eliminazione del pleonastico impiego di un pronome soggetto in accompagnamento al verbo (del tipo dicevo io > dicevo; conchiude egli > conclude). Infine, sul versante lessicale, il labor limae manzoniano si muove in direzione di una drastica riduzione, sino all’annullamento, dell’impiego di doppioni linguistici, in forza di uno schieramento personale dell’autore contro l’utilizzo di voci allotropiche.

Tra le varie critiche alla patina linguistica primaria del Manzoni, nella ventisettana, risuonano con particolare incisione quelle di Paride Zajotti, secondo cui Manzoni aveva troppo spesso usufruito del “triviale parlar della plebe[11], e del comico toscano, interessato lettore dell’opera manzoniana, Tommaso Gargallo, che in una lettera al marchese Trivulzio asserì che Manzoni era “andato frugando tutte le parole antiquate, che hanno le stellette nel vocabolario[12].

Di contro, compiuta l’operazione di sciacquatura dei panni in Arno, non mancarono le critiche alla siffatta nuova materia che il Manzoni propose con la Quarantana, tra cui, ad egli stesso pervenuta, quella di Giuseppe Giusti[13], il quale asserì che la lingua del romanzo stava meglio prima dell’estro che è venuto al Manzoni di modificarla. Spicca anche la critica, vagamente più tarda, di Cesare Cantù[14], il quale criticò la scelta di Manzoni, lombardo di nascita, di stendere una materia secondo l’uso di un luogo a lui non natio, ottenendo il negativo effetto di esser rimpianto dal Lombardo e ancor sentito come forestiero dal toscano. Interessante è anche l’aggiunta dello scrittore piemontese Vittorio Bersezio, ammiratore del romanzo manzoniano, che riferì come, a discapito della fatica che il lombardo Manzoni impiegò nell’adattamento linguistico, il pubblico rimase dapprima fedelmente ancorato alla ventisettana, pur ricca di idioti lombardismi a iosa[15].

Conclusione:

Come s’è dimostrato con l’analisi filologico-linguistica di documenti del Seicento, il falso filologico di Manzoni è definibile a buon diritto come realizzato a regola d’arte. La lingua ricreata è perfettamente conforme all’uso lombardo dell’epoca, ma non diverse erano le aspettative trattandosi di materia manzoniana. Non s’intende colpevolizzar il Manzoni del falso filologico presentato, quanto invece lodarlo d’eccellente lavoro compiuto e farlo conoscere ai molti, questo è l’intento principale del presente lavoro, il quale, se non v’è dispiaciuto affatto, vogliatene bene a chi l’ha scritto, ma se in vece fossi riuscito ad annoiarvi, credete che non s’è fatto apposta[16].

Elementi bibliografici:

Alfano, Italia, Russo, Tomasi 2020 = Alfano G., Italia P., Russo E., Tomasi F., Letteratura italiana. Dalle Origini a metà Cinquecento, Mondadori Università, Milano, 2020

Baldi, Giusso, Razetti, Zaccaria 2019 = Baldi G., Giusso S., Razetti M., Zaccaria G., I classici nostri contemporanei. Dal barocco all’illuminismo, vol. 3, Pearson, Milano, 2019

Baldi, Giusso, Razetti, Zaccaria 2019 = Baldi G., Giusso S., Razetti M., Zaccaria G., I classici nostri contemporanei. L’età napoleonica e il Romanticismo, vol. 4, Pearson, Milano, 2019

Beltrami 2017 = Beltrami P., La filologia romanza, Il Mulino, Bologna, 2017

Berruto, Cerruti 2022 = Berruto G., Cerruti M., La linguistica. Un corso introduttivo, Ed. 3, UTET Università, D Scuola, Milano 2022

Bonomi 2010 = Bonomi I., Le strutture dell’Italiano, 2010, in Masini A., Bonomi I., Piotti M., Morgana S., Elementi di linguistica italiana, Carocci Editore, Roma, 2010, pp. 85-153

D’Achille 2019 = D’Achille P., Breve grammatica storica dell’Italiano, Carocci Editore, Roma, 2019

Giannessi 1971 = Giannessi F., La grande antologia della letteratura italiana. Cinquecento, Seicento, Settecento, Vol. 2, Selezione dal Reader’s Digest, Milano, 1971

Invidia 2004 = Invidia S. (curatela di), Manzoni A., I Promessi Sposi, Zanichelli, Bologna, 2004

Manzoni 1840 = Manzoni A., I Promessi Sposi, Tipografia Guglielmini e Redaelli, Milano, 1840

Migliorini 1960 = Migliorini B., Storia della lingua Italiana, Sansoni, Firenze, 1960

Morgana 2010 = Morgana S., Profilo di storia linguistica italiana, 2010, in Masini A., Bonomi I., Piotti M., Morgana S., Elementi di linguistica italiana, Carocci Editore, Roma, 2010, pp. 189-286

Nunnari 2013 = Nunnari T., Le fonti storiche dei Promessi Sposi, Casa del Manzoni, Milano, 2013

Palmieri 1961 = Palmieri U., Sulla linguistica di Alessandro Manzoni, per Vita e Pensiero, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, 1961

Pierno 2011 = Pierno F., Don Rodrigo nella sala degli antenati (dal capitolo VII dei Promessi Sposi). Una lettura (con strumenti filologici e storico-linguistici), American Association of Teachers of Italian, 2011

Rosa 2008 = Rosa G., La leserevolution dei Promessi Sposi, in Rosa G., Il patto narrativo, Il Saggiatore, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, 2008, pp. 128-159

Russo 1946 = Russo L., Ritratti e disegni storici, serie II, Laterza, Bari, 1946, in Invidia 2004 = Invidia S. (curatela di), Manzoni A., I Promessi Sposi, Zanichelli, Bologna, 2004, p. XXXVI

Spinazzola 1983 = Spinazzola V., Il libro per tutti. Saggio su I Promessi Sposi, Editori Riuniti, Roma, 1983

Vitale 1986 = Vitale M., La lingua di Alessandro Manzoni, Cisalpino – La Goliardica, Milano, 1986

Documenti citati per l’analisti comparata:

Atti del processo contro Marianna de Leyva: scoperta la tresca amorosa con Gian Paolo Osio, e condannato questi per triplice omicidio, l’arcivescovo Federigo Borromeo ordinò un processo contro di lei, che terminò il 17 ottobre 1607 con la condanna di Marianna de Leyva alla reclusione in una cella 1,50×2,50 mt, pena che scontò sino al 25 settembre 1622. Gli atti del processo sono conservati all’Archivio di Stato.

Borromeo C., Acta ecclesiae mediolanensis, Officina Tipografica quon. Pacifi Pontij, Milano, 1599

Compendio di tutte le gride, bandi et ordini, fatti e pubblicati nella Città e Stato di Milano: il compendio include tutte le gride, i bandi e gli ordini emessi dai governi di Fernandez de Velasco e Don Pedro de Padilla (a fasi alterne tra il 1592 ed il 1612). A stampa presso Pandolfo e Marco Tullio Malatesti, Milano

Compendio di tutte le gride et ordini pubblicati nella Città e Stato di Milano: il compendio include tutte le gride ed ordini emessi dal governo di Don Carlo d’Aragon. A stampa presso Pandolfo e Marco Tullio Malatesti, Milano, nel 1609

Grida contro gli untori, Antonio Ferrer, Milano del 7 agosto 1630, a stampa presso Gio. Battista Malatesta

Ripamonti G., De peste Mediolani quae fuit anno 1630, Milano, 1640

Ripamonti G., Historiae patriae, Milano, 1641-1648

Tadino A., Ragguaglio dell’origine et giornali successi della gran peste, Pietro Ghisolfi, Milano, 1648

Trissino G. G., Epistola del Trissino de le lettere nuovamente aggiunte ne la lingua italiana, Roma, 1524

Pagine web consultate:

Enciclopedia Treccani, Lettera h, H, https://www.treccani.it/vocabolario/h-h/, https://www.treccani.it/

Enciclopedia Treccani, Lettera j, J, https://www.treccani.it/enciclopedia/j/, https://www.treccani.it/

Enciclopedia Treccani, Lettera u, U, https://www.treccani.it/enciclopedia/u/, https://www.treccani.it/

Università Ca’ Foscari, Edizioni Ca’ Foscari, Criteri di edizione nel De Prospectiva Pingendi di Piero della Francesca, https://edizionicafoscari.unive.it/media/pdf/books/978-88-6969-091-4/978-88-6969-091-4-ch-04.pdf

[1] Cfr. Invidia 2004:7

[2] La scelta del secolo XVII non è casuale, ma riflette il gusto storico manzoniano che privilegia il secentismo, una scelta che ritorna propriamente e ciclicamente in numerosi momenti del romanzo, a partire dalle scelte di ambientazione e sociali, arrivando alla citazione di fonti storiche a controbilanciare la finzione (cfr. Russo 1946 in Indivia 2004:XXXVI).

[3] Cfr. Migliorini 1960:430.

[4] Il plurilinguismo all’altezza dei secoli XVI e XVII era all’ordine del giorno grazie ai considerevoli apporti ibero- e galloromanzi nella lingua italiana, testimoniato anche dalla magistrale grammatica plurilingue di Antoine Fabre, Grammatica per insegnare la lingua italiana, francese e spagnola¸ pubblicata nel 1627 (cfr. Morgana 2010:231).

[5] L’Accademia della Crusca godeva già di effettiva importanza, di poco successiva è la pubblicazione del primo magistrale Vocabolario degli Accademici della Crusca, a stampa il 20 gennaio 1612 presso il tipografo veneziano G. Alberti e sotto supervisione di Bastiano de’ Rossi (cfr. Migliorini 1960:450).

[6] Cfr. Trissino G. G., Epistola del Trissino de le lettere nuovamente aggiunte ne la lingua italiana, Roma, 1524.

[7] Cfr. Migliorini 1960:464.

[8] Cfr. Spinazzola 1983 e Rosa 2008

[9] Per un’analisi maggiormente approfondita si rimanda al magistrale lavoro di Vitale: Vitale M., La lingua di Alessandro Manzoni, Cisalpino – La Goliardica, Milano, 1986.

[10] Cfr. Invidia 2004:6

[11] Cfr. Zajotti P., Del romanzo in generale, ed anche dei Promessi sposi, romanzo di Alessandro Manzoni  Articolo II, in Biblioteca italiana, XLVIII, 1827.

[12] Cfr. Gargallo T., Lettera al marchese Gian Giacomo Trivulzio, inediti della Biblioteca Trivulziana, A. Giuliani, 1933.

[13] Il giudizio del Giusti è giunto per forma indiretta poiché riportato nella Lettera di A. Manzoni ad Alfonso della Valle di Casanova del 1871.

[14] Cfr. Cantù C., Alessandro Manzoni. Reminiscenze di Cesare Cantù, seconda edizione per il centenario di A. Manzoni, V. I, Fratelli Treves, Milano, 7 marzo 1885.

[15] Cfr. Invidia 2004:6.

[16] La frase conclusiva è una riscrittura del finale del cap. XXXVIII dei Promessi Sposi.


Simone Di Massa

Disse il linguista Noam Chomsky che nella vita "è importante imparare a stupirsi dei fatti semplici", ciò è esattamente quanto i miei lavori di linguistica, filologia e letteratura cercano di apportare a SF, il culto degli studi e della ricerca e la meraviglia della semplicità, fino alla minima parola poetica. Studioso di Lettere Moderne a Milano, da sempre vivo con l'ambizione di tenere alti i valori sacri del mondo delle lettere, donando con i miei lavori quanto il panorama letterario ha donato a me, apportando alla mia vita nuovi colori e la consapevolezza che la totalità non è che un insieme di dissonanze.

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