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Il giorno del giudizio – Salvatore Satta

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Satta, Salvatore; (1979), Il giorno del giudizio, Ilisso: Nuoro


Il giorno del giudizio è una possibile prova della resistenza e della grandezza dell’italiano come lingua. Essa può ancora avere un senso e potrà ancora averlo. Questa resilienza della lingua italiana non è un caso. Essa viene da autori che italiani lo sono stati per adozione linguistica o per scelta volontaria. Salvatore Satta è incidentalmente un sardo e, come tale, egli ha imparato l’italiano dopo o, al massimo contemporaneamente, la lingua del luogo. Come Joseph Conrad, Satta ha una lingua italiana di seconda pelle, indipendentemente dal momento in cui la deve aver imparata come egli stesso dice, tra letture, scuola e ricopiatura di atti notarili ovvero: in modo del tutto artificiale. Egli infatti è un vero italiano, ovvero un acquisito, un traslitterato dalla regione alla penisola.

Nato a Nuoro (1902), cresciuto fuori dalla Sardegna e vissuto interamente in ogni parte d’Italia dove ci fosse un’università che conta (in Italia). Un vero, tipico italiano insomma, nella misura in cui egli, non è, né mai è stato vincolato ad un elemento territoriale che sembra essere l’unica caratteristica associata dall’italiano medio all’Italia. La lingua come mezzo per raggiungere l’Italia e, in generale, la cultura che conta, la lingua come unità di tempo e spazio rispetto alla tradizione intellettuale avviata da Dante, Petrarca, Boccaccio e Machiavelli. Ma Satta non è stato sradicato solo nello spazio. Egli lo è stato anche nel tempo.

Nato prima del fascismo, ‘avviato alla professione (universitaria)’ durante il ventennio, considerato supremo “maestro” di legge e giurisprudenza durante e dopo il fascismo, egli è uno dei pochi superstiti di tre fasi della sempre incerta, poco convinta e decisamente cinica storia italiana, tra “età liberale” (che di liberale e di veritiero non ha neppure il nome), fine del risorgimento (secondo alcuni nel 1919-20), ventennio (1922-1943) e Italia “repubblicana”. Quasi per misteriosi metodi arcani, Satta è riuscito ad essere ammirato come esperto di diritto in ogni possibile situazione politica il che, sia pur concesso, ha dell’incredibile data la natura del soggetto in questione: lo stabilirsi della legge di fronte ad uno stato così ballerino che, in ogni caso, Satta pare abbia considerato come sottoveniente alla stipulazione dell’atto privato di accordo tra le parti in cui la sacralità della libertà individuale e cessione di diritti sopravviene la natura coercitiva e, in questo, definitiva dello stato. Sradicato nello spazio e sradicato nel tempo, Satta ha composto un testo assoluto proprio perché completamente slegato da tutto. Come le migliori opere del genio umano, esse sono composte come necessità atemporale senza vincoli di spazio-tempo.

Per chi ha già letto Il giorno del giudizio ci sarà la difficoltà ad accettare la tesi per cui l’opera di Satta è, appunto, un absolutum. Lo è spazialmente e temporalmente. Ma lo è anche tematicamente. Non si può dire sia un romanzo, perché non c’è alcuna unità dei personaggi né evoluzione delle loro qualità. Anzi, come in tre passi del testo si dice, Satta descrive e valuta dei morti, delle persone che ormai sono nell’Ade, vive come ombre, in cui tutto può dirsi di loro perché hanno vissuto interamente la loro vita. L’hanno, per così dire, esaurita nella loro dispiegazione di totalità. Il tema è la rievocazione di un mondo di ombre, un mondo morto di gente morta. Eppure, appunto, tutto è così incredibilmente vivo che si sente l’odore, la vista della vita stessa. Ed è così quando lo sguardo è appunto all’elemento umano in quanto tale, anche quando visto dalla condizione atemporale e definitiva della morte come cesura di un tempo intero che è la vita.

Il testo non è neanche una autobiografia, nonostante il fatto sia incentrato su una famiglia, principalmente ma non esclusivamente. Non un romanzo, non un’autobiografia e nemmeno una collezione di biografie in stile classico, come le Vite di uomini illustri di latina memoria. Il giorno del giudizio è una visione della vita stessa, senza tempo, come si presenterebbe ad una entità esterna ed onnisciente e, allo stesso tempo, partecipe nella mente ma non negli atti.

Satta descrive il mondo della Sardegna di inizio Novecento come una condizione permanente dell’esistenza, dominata dalla scarsità di risorse – prima di tutto umane, dominata dal dolore e dal fallimento. Ma soprattutto è dominata dall’eternità del nulla. Nella Nuoro sepolcrale di cui discetta con impressionante dovizia di dettagli, tutto è sub specie aeternitatis, come un attributo dell’infinita sostanza che reitera la sua presenza ineffabile di ogni accadimento e passione umana. Ma non senza una sua lugubre poesia, che rende le cose e gli individui umani. In questo preciso senso Il giorno del giudizio non è una visione pessimistico-nichilista di una condizione permanente dell’esistenza. Esso è, piuttosto, il libro della contabilità che rende possibile vedere l’uomo dai suoi fatti. Piccoli, miserabili, eppure vivi e con un loro peculiare significato.

In questo preciso senso, non è come gli eroi greci che scrutano l’Ade come si guarda un museo delle cere. Egli è, piuttosto, impegnato nel dare voce a dei muti, nel dare vita a dei morti. È lo sforzo di ricostruire come è stato possibile esistere. Sebbene si tratti di un eccezionale lavoro di concretezza in cui le persone vendono rievocate nei loro piccoli sogni di isole di nullità, in un certo senso, il libro ha il valore di non disprezzare la nullità, la piccolezza e il fallimento. Non c’è una dimensione di recriminazione se non nell’accettazione della morte come condizione di vita. La predica del “tu sei al mondo perché c’è posto” rende bene il concetto di violenza che è alla base dello stare al mondo.

In tal senso, Satta intesse la sua tela senza un costrutto esplicito. L’ordito prende la forma della natura stessa della vita in cui nulla assume un valore particolare se non la gioia stessa dell’andare oltre la sopravvivenza che è quel che Satta chiama “la poesia”. A tal scopo, la lingua dispiegata è totale, capace di esprimere ogni aspetto di una serie di condizioni, situazioni ed elementi esistenziali con una crudezza e violenza che può lasciare interdetti, a meno che non si si allontani artificialmente pensando che Satta si riferisce appunto ad ‘un mondo preciso, particolare e limitato’, ovvero la Nuoro di inizio Novecento. Ma appunto, le cose stanno diversamente. Satta impiega una lingua descrittiva e, come un sopraffino chiosatore, ne associa di quando in quando un valore normativo, una valutazione estemporanea eppure permanente. E così dunque Satta si può inserire in chi ha usato la lingua non come fine ma come mezzo e, proprio per questo, l’ha portata a un vertice di assolutezza. Perché non c’è intermediazione con la perfezione senza un buon motivo.

Satta usa la lingua di Dante per uno scopo simile a quello del poeta con la differenza di nutrire una grande diffidenza per il paradiso, valutare l’inferno come possibilità sempre latente e il purgatorio come standard. Satta è quindi capace di restituire uno sguardo dall’al di là senza redenzione, ma sempre con la possibilità e l’umiltà di non pretendere di avere una parola definitiva su nulla, se non sulla primordiale importanza della vita come supremo e disperato sforzo di sopravvivere e, possibilmente, andare oltre il nulla. Il giorno del giudizio diventa, allora, appunto quello che è: una chiosa a margine delle leggi di natura dal punto di vista dell’essere umano che ne fa parte. Da qui la suprema, eterea, violenta e pacifica grandiosità.

Al di fuori di Satta e de Il giorno del giudizio, un discorso breve va pur fatto per la terrificante mediocrità di chi ne ha scritto (in rete, ma la tentazione a non restringere il campo è forte). Tra inutili e sconcertanti apologeti, in cui la parola “il Maestro” sembra essere l’unica in grado di designare “il” Satta, tra vasti spazi di nullità scritte in un italiano da ventennio, ci sarebbe da chiedersi come sia possibile che neppure in internet si possa trovare giustizia per un uomo e per un testo di così singolare grandezza. Ma probabilmente questo si spiega bene con la singolare verità del mondo che Satta ha lasciato, quel mondo che egli credette fondato sulla libertà delle parti prima che dello stato. Ovvero il fatto che un “posto senza luogo” come internet sia scritto a misura di chi lo popola. E quando chi lo popola non ama la libertà ma agisce solo su comando il risultato è presto evidente: un pendolo che oscilla tra il nulla e chi scrive con la mente e con il cuore ad un tempo che non è mai esistito per un pubblico al quale non pensa perché non c’è niente di interessante in esso. E così una burocrazia o effettivamente il nulla sono tutto quello che rimane della libertà di pensiero che, sì, diventa tomba di ogni iniziativa. E così non resta che la speranza, la latente possibilità che un testo come Il giorno del giudizio non venga dissolto nel vuoto da incuranti lettori mancati.


Salvatore Satta

Il giorno del giudizio

Ilisso


Giangiuseppe Pili

Giangiuseppe Pili è Ph.D. in filosofia e scienze della mente (2017). E' il fondatore di Scuola Filosofica in cui è editore, redatore e autore. Dalla data di fondazione del portale nel 2009, per SF ha scritto oltre 800 post. Egli è autore di numerosi saggi e articoli in riviste internazionali su tematiche legate all'intelligence, sicurezza e guerra. In lingua italiana ha pubblicato numerosi libri. Scacchista per passione. ---- ENGLISH PRESENTATION ------------------------------------------------- Giangiuseppe Pili - PhD philosophy and sciences of the mind (2017). He is an expert in intelligence and international security, war and philosophy. He is the founder of Scuola Filosofica (Philosophical School). He is a prolific author nationally and internationally. He is a passionate chess player and (back in the days!) amateurish movie maker.

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