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Il castello – Franz Kafka

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“Lei è molto severo” disse il sovrintendente, “però moltiplichi pure per mille la sua severità, e non sarà ancora niente a confronto con la severità che l’autorità esercita con se stessa. Solo un assoluto estraneo può formulare una domanda come la sua. Se esiste un’autorità di controllo? Ma se sono tutte autorità di controllo! Certo, il loro compito non è quello di scoprire errori nel senso grossolano della parola, perché di errori non se ne fanno, e anche posto che una volta avvenga un errore, come nel caso suo, chi può dire, in definitiva, che si tratti di un errore?”

Franz Kafka

Il castello di Franz Kafka è un romanzo incompiuto composto nella prima metà del XX secolo. Il romanzo si sviluppa su una trama quasi indescrivibile. K. è l’agrimensore, così crede, di un villaggio innevato e senza nome di cui si sa per certo che è governato dai signori di un castello. Il castello è ben visibile dal villaggio ma quando K. prova a raggiungerlo scopre che la via principale non raggiunge l’imponente struttura. K. si ritrova presto a vivere in un villaggio in cui le persone si comportano nei modi più insoliti pur mantenendo un’apparenza di normalità e così la percepisce lo stesso K.. K. stesso ha grandi difficoltà a camminare, spesso si deve letteralmente aggrappare ad altri per camminare. Ma non è l’unica difficoltà del personaggio principale: costui si sente sempre un estraneo, emarginato, limitato. Ogni suo fine è frustrato da rallentamenti nella successione degli eventi, rallentamenti che determinano l’impossibilità di raggiungere lo scopo. Agli inspiegabili rallentamenti si alternano evoluzioni imprevedibili dello sviluppo degli eventi, come quando K. cerca di parlare con il potente Klamm ma non ci riesce in alcun modo perché Klamm, già membro influente del castello, può essere visto solo da chi vuole lui.

Nell’universo kafkiano può essere normale l’inverosimile  e, in questo senso, con “normale” bisogna intendere il riflesso che eventi implausibili hanno sulla coscienza di K.: quando K. tiene alcuni discorsi al limite del delirio con altri personaggi (si pensi al caso del sovrintendente, ai vari dialoghi con Frieda specialmente o in ultimo con Pepi) egli stesso non sembra percepire l’assurdità della situazione se non in un modo la cui lucidità sa più di follia che di raziocinio. Il caso più clamoroso è, probabilmente, quello in cui K. parla con un segretario in una sala di un albergo in cui le camere o sono vuote o sono abitate da personaggi del castello che iniziano ad aprire le porte già dalle cinque del mattino per avviare le pratiche burocratiche che hanno in corso e, in quell’occasione, il segretario viene svegliato da K., stremato dalla fatica e dal sonno, e si intrattiene con lo stesso K. in una lunga dissertazione sul perché gli interrogatori non possano avvenire di notte e questo perché egli stesso non si sarebbe potuto addormentare nuovamente se non parlando, perché era il suo vizio peculiare quello di addormentarsi solo dopo una lunga discussione: quest’ultima frase è volutamente lunga e senza punto, perché mostra malamente ma indicativamente come spesso ci vengono presentate le vicende. Il romanzo termina incompiuto con K. che non è ancora riuscito ad avvicinarsi di un solo passo in più verso l’agognato castello.

Il castello è un lavoro geniale scritto da un genio la cui grandezza è sondabile solo mediante uno sforzo di volontà che deve lottare contro due resistenze, entrambe interiori. La prima è offerta dall’intrusione costante dell’Io di Kafka dentro il lettore, che lo fa discendere nel profondo abisso dell’angoscia senza ragione. La seconda è dovuta alla struttura stessa della prosa che conduce la coscienza a esperire direttamente il senso dal volto senza nome dell’incubo notturno. Il castello, infatti, ha una struttura ad elica in tre sensi: (1) la trama è continuamente ritorta verso un punto esterno (il castello) per ritornare verso uno interno (il villaggio), mentre (2) la prosa è perpetuamente oscillante tra lunghe deviazioni sistematiche a incisivi ritratti di realtà per fondersi in un’unità talvolta incomprensibile come l’oscillare del pendolo; infine (3) K. alterna continuamente stati di esaltazione a stati di annichilimento interiore. Questi tre punti nodali strutturali, perché non si tratta di contenuti, hanno la struttura propria degli incubi più angosciosi: il perpetuo ripetersi amplificandosi degli eventi incomprensibili della coscienza. A chi non è capitato di sognare di essere ancora sui banchi di scuola per ridare la quinta liceo? Chiedendosi, allo stesso tempo, come ciò sia possibile? Il libro di Kafka è fondato inconsapevolmente su questa struttura a scatole cinesi in cui la più piccola contiene anche la più grande, laddove la coscienza di K. contiene il mondo che lo circonda e viceversa.

Il mondo de Il castello è diviso in due parti di cui una è totalmente opaca: da un lato abbiamo il castello, dall’altro abbiamo il villaggio. Il castello è posto più in alto rispetto al villaggio, ed è sostanzialmente irraggiungibile dal villaggio stesso, nonostante non ciò non sia negato da alcuna legge fisica. Ed è questo un aspetto illuminante da comprendere: non c’è nulla che vieti di raggiungere il castello, nessuna legge scritta, nessun cartello ma di fatto non si può raggiungere per quanti sforzi si possa tentare. C’è dunque un’altra scissione tra il mondo del castello e quello del villaggio: il mondo del castello è regolato da delle leggi che non esauriscono il suo reale comportamento, esso non si riduce alla sua sola burocrazia (ad esempio) ma si fonda in gran parte su di essa cosicché se la sola burocrazia non basta a raggiungere il castello, così non è possibile farne a meno. Ma nemmeno il contrario è possibile, laddove il castello non sarebbe raggiungibile neanche per vie traverse perché sono di per sé illegali. E allora la legalità stessa del castello diventa incomprensibile perché non è né puramente formale (codice legale reale) né puramente informale (regole valide ma non legali). Così che ogni tentativo sarà sempre valutabile in modo negativo perché può difettare dal punto di vista formale o sostanziale o da entrambi. E così il castello ha delle regole sue proprie, non del tutto perscrutabili ma probabilmente sensate. Di sicuro sono molto severe e vincolano sia i membri del villaggio sia quelli del castello ma in modo diverso. Nessuno si chiede dove poter trarre ragione del diritto, dove poterlo leggere per esteso. Del castello si può dire solo che esiste perché si vede, e alcuni peculiari effetti delle decisioni di quelli ivi vi lavorano. Ma la stessa possibilità di contatto tra i popolani del villaggio e gli uomini del castello è di fatto negata. Alcune volte, comunque, capita che alcuni popolani particolarmente fortunati vengano contattati dai personaggi del castello. In genere perché i membri del castello vogliono alcuni peculiari servizi che possono direttamente consumare al villaggio: pernottamenti, trasporti, prestazioni sessuali… Non è chiaro né quale sia il limite dell’influenza del castello né quali siano i suoi doveri rispetto ai cittadini. Solo è chiaro che i cittadini devono la loro stessa esistenza al villaggio ai membri del castello, così che questi possano disporre come meglio credano della massa dei popolani.

Il villaggio è costituito dalla massa dei popolani che soggiacciono alle leggi del castello. La popolazione viene descritta sommariamente come ostile nei confronti di K., paurosa e aggressiva, ma non per questo capace di rivoltarsi contro un nemico quale che sia. Il villaggio è la propaggine orizzontale dell’alto castello, all’interno del quale si vive del castello e per il castello. L’ostilità intrinseca del popolo si rivolge sostanzialmente verso sé medesimo, laddove c’è troppo rispetto e troppa paura per insorgere contro il castello. Ma è soprattutto la responsabilità dispersa dei membri del castello a rendere impossibile ogni ulteriore focalizzazione: ogni servizio del castello è gestito da un sistema i cui individui sono solo degli esecutori di un ordine prestabilito e superiore al cui senso non hanno alcun accesso. I membri del castello sanno solo che c’è un ordine, che è vincolato da alcune regole molto precise, ma non sanno indicare quale sia la sostanza, il perché di tale ordine regolare. Ciò che sanno è che devono applicare il regolamento, così come i popolani sanno che lo devono rispettare. Per questo K. si trova in una strana posizione: non fa parte del popolo, quindi avrebbe diritto ad alcuni compiti relativi alla gestione di una parte (insignificante) del castello e quindi è un estraneo rispetto al popolo; ma non fa parte neppure del castello, perché non ha alcun ruolo definito e riconosciuto dalle regole del castello, per tanto è estraneo anche rispetto ai membri del castello. Perciò K. è un estraneo che getta un’ombra sulle già misere esistenze dei popolani. Essi hanno paura di K., ma non possono ignorarlo. Essi sanno che è uno straniero e per questo non possono integrarlo, per quanto non possono respingerlo del tutto per le sue eccentricità: proprio perché è uno straniero e non è ancora amalgamato all’interno del sistema non possono rimproverargli più di tanto.

Il mondo di Kafka ne Il castello è continuamente distorto nella consistenza e nella forma ed è dovuto a questa duplice natura polarizzata che si contra attorno al castello e al villaggio, creando così una frattura perdurante in K. e in tutti i personaggi. Questi, infatti, ricalcano questo stato di cose distorto. Dovremmo avvalerci di un’immagine per caratterizzare i personaggi, perché la sola razionalizzazione non basta: ogni uomo ha una particolare caratteristica che un disegnatore di caricature espande a dismisura. Kafka ha eseguito un ritratto caricaturale di alcuni generi di persone e le ha rese irriconoscibili proprio mediante questo espediente farsesco. Ad esempio, gli aiutanti di K. fanno le cose più strane, i Barnabas hanno ognuno le sue peculiarità, Frieda si dilunga in discorsi al limite della comprensibilità, il sovrintendente conserva ogni pratica in un armadio e viene aiutato dalla moglie a ricercare i fogli buttati in terra… La distorsione dei singoli personaggi non comporta direttamente la perdita di raziocinio di K., ma anzi la estendono, rendendo il risultato narrativo come se il carnevale fosse la realtà e ci si finisce anche per abituarsi all’idea. Il risultato è uno straniamento progressivo del punto di vista in cui la realtà descritta nel romanzo finisce per essere guardata attraverso una lente che allontana: lo spettatore-lettore finisce presto per scindere il romanzo dal sé, unico modo a sua disposizione per sopravvivere ad una realtà di delirio angoscioso insostenibile. Ed è solo in quel momento che ritrova Kafka, come se l’autore lo aspettasse allora per lasciargli vedere come egli vede e considera le cose.

Ma il massimo risultato del procedimento di straniamento arriva nei rapporti fisici individuali, in cui il contatto è sempre l’operazione frustrante e operata per necessità e il cui risultato è l’inversione di ogni positività che normalmente al contatto viene associato. Il vertice di questa distorsione della relazione fisica immediata si tocca nella pagina agghiacciante in cui Kafka descrive l’atto sessuale tra K. e Frieda, un atto sessuale che è l’inverso non soltanto della pratica amorosa normale, anche non fosse per amore, ma di ogni fusione fisica tra esseri umani. Ancora di più, atto sessuale che è l’inverso anche del sogno di ogni essere umano che agogna disperatamente alla felicità per mezzo dell’altro in senso di una condivisione positiva del sé mediante sé. In ogni coscienza sessuale positiva si cela la paura di un simile rovesciamento in cui il sesso è il mezzo di castrazione fisica e sentimentale di un individuo. Questo duplice rapporto, normalmente indirizzato verso una maggiore comprensione dell’altro mediante il fisico, diviene totalmente ribaltata e l’incubo diventa concreto, l’incubo diventa realtà. E ne assume tutti i connotati, giacché K. inizia una relazione sentimentale con Frieda.

Il romanzo, infatti, può essere visto come una rilettura sistematica dell’individuo di fronte all’incomprensibile. Incomprensibile che non è più la natura, gli eventi fisici, le disgrazie individuali. Incomprensibilità che è sistemica, del complesso organizzativo umano e delle sue risorse. Gli esseri umani diventano essi stessi incomprensibili, raggiungibili solo mediante un processo lento di razionalizzazione progressiva operata solo per non impazzire. Il castello, infatti, non è solo il simbolo supremo dell’estrema autorità giudicatrice, ma anche come il filo di una matassa invisibile che tiene i fili delle marionette sottostanti. Ma nell’immagine delle marionette non viene bene espresso un fatto: che il loro comportamento è comunque gestito da una intelligenza superiore, e nel castello non appare niente del genere. Esso è solo un insieme mal gestito di agenzie (come dimostra lo strano caso di K., l’agrimensore assunto e che nessuno vuole, al quale viene affidato il ruolo di bidello scolastico che però lui non vuole) che non lascia intravedere nessun ordinatore superiore. Ed allora che lo sgomento dell’individuo si staglia con la sua angoscia correlata: se non c’è nessun burattinaio, allora i burattini che fanno? Agiscono, si muovono e hanno anche dei fili, ma non hanno alcun senso. E, ancora peggio, preferiscono questa perpetua condizione di non senso, purché vincolata da leggi imperscrutabili, che accettare una realtà ben diversa: non avere più un castello per non avere leggi. Ma questo è appunto l’impensabile, proprio perché l’individuo del paese ha già accettato non solo la regola illogica ma anche il suo correlato interiore: l’assurdità di un ordine che va bene purché ci sia un ordine qualunque.

In questa ottica il senso stesso dell’individuo si discioglie in una continua privazione di comprensibilità, sostituita da un’accettazione e aggressività intrinseca. Sono tutti aggressivi nel villaggio, K. compreso. Frammentato l’Io dell’individuo, frammentata la società. Non si può essere amici in un mondo senza senso proprio perché l’amicizia è prima di tutto un accordo su un principio, un senso di pace interiore condiviso. Ma appunto questo non c’è. E’ del tutto assente. E allora K. è solo uno degli estranei, perché a ben guardare, tutti i popolani sono estranei tra loro (ciò si mostra continuamente al lettore attento: i Barnabas abbandonati al loro destino, il fatto che i popolani non parlino mai tra loro se non molto raramente, il fatto che non ci sia contatto fisico o psicologico tra persone qualunque). Non solo si è estranei e aggressivi, ma si finisce per essere rancorosi: non comprendendosi, non potendosi accordare, il popolo finisce solo per non riconoscere le ragioni degli altri. Non a torto, perché nessuno ha ragione (il caso del maestro di scuola sarà considerato emblematico).

C’è chi ha visto ne Il castello una visione propriamente ebraica del sentire, come anche La Metamorfosi (tant’è). Francamente noi non abbiamo trovato una sola ragione interna al romanzo per asserire questa presunta ovvietà (Kafka era un ebreo, un ebreo in Praga, un ebreo in Praga che avrà due sorelle morte in campi di concentramento). Ma come sempre gli ebrei fanno da capro espiatorio: se c’entrano, non è rilevante al fine della lettura. O, perlomeno, di una lettura che voglia prendere sul serio Il castello come un’opera d’arte a sé, intrinseca e non da scusare in qualche modo. Non è Kafka, simbolo dell’ebreo errante che finirà presto in un forno crematorio a parlare (circa dieci anni dopo Hitler prenderà il potere in Germania): è molto di più. E’ l’individuo del mondo occidentale che ammette dentro di sé la sua sconfitta di fronte al sistema. A quello che chiama “sistema”. Che non sa cos’è, come gestire, non sa come accedere, non sa neppure se esista. Di sicuro è irraggiungibile, ma di sicuro il “sistema” può raggiungere lui. Ne parla come se si trattasse di un male incurabile, sussurrando, abbassando la voce, facendo finta di non sapere. Ma in cuor suo sa che quel “male”, quel “sistema” è qualcosa che lui non sa neppure cos’è, che ha terrore a nominare, addirittura a pensare e a cui deve interamente la sua esistenza. Egli riceve tutto dal “sistema” e, al più, ne può parlare male. Al più può sfogarsi con i segretari degli uffici. Ma in fondo sa benissimo che non può vivere senza il “sistema”: questa è la verità che Kafka ha ricostruito. Questa è la verità che un uomo sensibile, di una potenza emotiva fuori dal comune, ha visto e non ha saputo metabolizzare. Ma non per colpa sua, non per colpa di K.. Ma per colpa di quegli omuncoli che tutti conosciamo e di cui non sapremmo in alcun modo fare a meno. Per capire tutto questo non c’è bisogno di essere ebrei. Basta essere degli uomini, come lo fu Kafka. Un umano troppo umano.


Franz Kafka

Il castello

Feltrinelli

Milano

Pag.: 386.

Euro: 8.00.


Giangiuseppe Pili

Giangiuseppe Pili è Ph.D. in filosofia e scienze della mente (2017). E' il fondatore di Scuola Filosofica in cui è editore, redatore e autore. Dalla data di fondazione del portale nel 2009, per SF ha scritto oltre 800 post. Egli è autore di numerosi saggi e articoli in riviste internazionali su tematiche legate all'intelligence, sicurezza e guerra. In lingua italiana ha pubblicato numerosi libri. Scacchista per passione. ---- ENGLISH PRESENTATION ------------------------------------------------- Giangiuseppe Pili - PhD philosophy and sciences of the mind (2017). He is an expert in intelligence and international security, war and philosophy. He is the founder of Scuola Filosofica (Philosophical School). He is a prolific author nationally and internationally. He is a passionate chess player and (back in the days!) amateurish movie maker.

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